alvento

I silenzi di Edita

- testo / Stefano Zago immagini / Paolo Penni Martelli

Se Edita guarda fuori dalla finestra della sua casa di Monsummano Terme, sembra immaginare Akmenė, il suo paese natale, una cittadina cresciuta dopo la guerra, dal cemento di una fabbrica, solo case ravvicinat­e e grigio in ogni angolo. Qualcuno diceva che Akmenė fosse la città più contaminat­a di tutta la Lituania, a Edita, invece, quel posto non sembrava neanche brutto. Da lì partiva una strada, tre chilometri dispersi nel nulla, che la portava ad un'altra casupola. Era una sorta di rifugio, costruito dal padre, accanto a un orto dove lei e le sue sorelle correvano a raccoglier­e l'insalata da portare a tavola per la cena.

Acasa c'era quel divano su cui le tre bambine si sedevano la sera a guardare la television­e. Edita voleva sempre stare nel mezzo ed in inverno la coperta non era mai abbastanza per riscaldarl­a, strattonat­a da una parte all'altra dalla sorella maggiore e quella minore. Ha sempre pensato che il padre avrebbe voluto almeno un figlio maschio e che, forse, quel figlio avrebbe dovuto prendere il suo posto: vedeva in quell'uomo un eroe personale e avrebbe fatto qualunque cosa per renderlo felice. Quando pensava a quanto le sarebbe piaciuto diventare una campioness­a in qualche sport, si vergognava e non diceva nulla a nessuno. «Non l'avrebbero accettato perché ero troppo timida. Se la gente ti vede in un angolo, in silenzio, con gli occhi bassi, non si chiede il perché. Ti giudica strana, ti giudica debole e crede tu non valga nulla sempliceme­nte perché non dici ciò che porti dentro». Così quella ragazza, su consiglio di una maestra, si rifugia nella scrittura e nei suoi quaderni trova il coraggio di raccontare tutto quello che le accade e la ferisce, quella sensazione di non essere mai all'altezza, di essere sempre seconda a qualcuno, di non essere abbastanza. A scuola scrive poesie, sua madre ne è felice, ma lei le fa leggere solo a quella maestra perché, in fondo, se ne vergogna.

La sua giovinezza per molto tempo è una storia di rimpianti per tutto ciò che avrebbe potuto dire o avrebbe potuto fare, per tutte le occasioni mancate. La storia di tutte le notti in cui, sdraiata sul letto, si immaginava una realtà diversa da quella che viveva. Quando inizia a correre a piedi incontra il suo primo allenatore. «Agli allenament­i portava molti giornali che venivano dall'America. Era bello sfogliarli, perché avevano questa carta fine, sottile, leggera. I nostri quotidiani non erano così, erano spessi, duri, rigidi. Sfogliando­li avevo visto le foto di questo maratoneta che aveva fatto centinaia di chilometri senza scarpe, ma aveva vinto, e nel proprio paese era stato festeggiat­o da tutti. Mi immaginavo di essere come lui e mi mettevo davanti allo specchio fingendo di trovarmi di fronte a dei giornalist­i che mi intervista­ssero. Nella fantasia costruivo la vita che avrei voluto e di cui non avevo il coraggio di parlare». Non è solo fantasia perchè Edita Pučinskait­ė inizia a vincere tutte le gare del proprio comune e qualcuno le consiglia di tentare l'ingresso in una delle due polisporti­ve che formano gli atleti di interesse nazionale. Questo significa superare un esame e trasferirs­i dall'altra parte del Paese. Per lei è la grande occasione, per la madre un dispiacere che fatica a nascondere. «Mia nonna non le aveva permesso di inseguire i propri traguardi e lei ne aveva sofferto molto. Per questo aveva giurato che non lo avrebbe mai fatto con le proprie figlie, ma si vedeva che soffriva. Non poteva proibirmel­o, ma non avrebbe voluto che me ne andassi. Sperava che qualcosa mi facesse desistere, che scoraggiat­a anche dal mio carattere, tornassi a casa». In fondo, nella corsa contano il tempo e i metri e lei corre che è un piacere. Mesi a prepararsi, ad allenarsi, poi l'esame e la prima grossa delusione. «Inspiegabi­lmente non ero fra le prime venti ragazze selezionat­e. Mi dissero che era perché non riuscivano a vedere un futuro per me. Cosa sia successo realmente non lo saprò mai. Sento ancora quella

tremenda sensazione di fallimento e delusione. I miei genitori mi accolsero a braccia aperte a casa, io mi rinchiusi nel silenzio. Saltavo i pasti e piangevo. Avrei potuto fare reclamo, lamentarmi e forse sarei anche stata ammessa. Ma non parlavo, non dicevo nulla. Soffrivo e basta».

Qualcuno che l'ha vista correre a piedi le consiglia di provare la selezione per diventare ciclista. A Edita il ciclismo non interessa, però la rabbia per l'esclusione dalla scuola la porta a cercare subito una bicicletta. Prova la bici della sorella maggiore, non tocca neanche per terra, ma non conta: l'importante è dimostrare che si sono sbagliati, che non l'hanno capita, che lei può farcela. Si tratta di superare una gara su pista, due giri, nulla di impossibil­e. Ad un certo punto la ruota di Pučinskait­ė e quella della sua compagna si toccano e lei frana a terra. «Ho visto mio padre corrermi incontro, il mio allenatore mi fissava. Volevo solo sprofondar­e. Molte ragazze avrebbero pianto, si sarebbero lamentate del dolore. Io ero solo arrabbiata perché non ce l'avevo fatta. Quell'allenatore fu la prima persona che mi salvò, da me stessa in primo luogo.

A me non interessa nulla della caduta. I ciclisti sono gente dura, forte, dei pazzi che pedalano anche con le ossa rotte. Tu sei ferita ma vuoi solo tornare in sella. Per me sei ammessa.

Ero stata ricompensa­ta, avevo trovato qualcuno che sapeva vedere oltre la mia apparenza di ragazzina spaventata da tutto e tutti. Pensa che ero felice e non lo raccontavo a nessuno perché mi sembrava di essere stata raccomanda­ta». Del resto, le poche volte in cui, con fierezza, Edita racconta che farà la ciclista, sente solo critiche e commenti negativi: «Sembrerai un uomo, ti sformerai, avrai mascelle grosse e gambe deformate. Sarai tutta muscoli, è uno sport per uomini, dove credi di andare?». La sua ex allenatric­e di atletica torna a cercarla, le propone di tornare a correre a piedi. Edita rifiuta per orgoglio e lei le parla senza mezzi termini: «Hai sbagliato tutto e, purtroppo, pagherai caro. Il ciclismo è uno sport per belve, fallirai miserament­e. Se avevi qualche opportunit­à, l'avevi con l'atletica. Non so cosa tu ti sia messa in testa».

L'ambiente della scuola è un ambiente quasi militare. C'è competitiv­ità e nessuno le è realmente amico. Le ragazze più grandi fanno svuotare le valigie alle più piccole e si fanno consegnare qualunque cosa di valore. «A mia madre non ho raccontato nulla per molto tempo, perché sapevo che mi avrebbe fatta tornare a casa. Una volta strapparon­o alcune pagine dai miei diari e le fecero girare per la scuola. Avrei preferito essere picchiata. Ero terrorizza­ta: di notte continuavo a svegliarmi per la paura di qualche scherzo e scrivevo in codice, in modo che nessuno potesse capire. Non dovevamo nemmeno leggere perchè altrimenti si inizia a fare filosofia ed il ciclismo non è filosofia. Non potevamo truccarci altrimenti eravamo giudicate male e guai ad interessar­si ai ragazzi. Nonostante questo, non volevo andarmene. In fondo, la mia vita è stato un continuo tentativo di dimostrare di valere qualcosa anche quando nessuno lo notava. Non è colpa loro, è colpa mia.

«Non dovevamo nemmeno leggere perchè altrimenti si inizia a fare filosofia ed il ciclismo non è filosofia».

Quando anni dopo ho perso suicida una mia cara amica, me ne sono resa conto.

Lei era il contrario di me, una persona buonissima che si faceva in mille pezzi per tutti. Io ero arrabbiata col mondo, ma non lo affrontavo. Mi rifugiavo in quei fogli e mi isolavo dalla realtà. Quando è mancata lei, ho capito che era il momento di parlare, di farsi valere, perché altrimenti soccombi e nessuno può salvarti».

I primi viaggi per affrontare le corse sono qualcosa di nemmeno immaginabi­le oggi. Alla nazionale lituana servono i visti per attraversa­re la frontiera, spesso i permessi non si hanno in tempo ed allora ci si sposta lo stesso, di nascosto. Un meccanico della squadra adatta un furgone con dei sedili posteriori e un ampio baule in cui mettere le biciclette. «Studiavamo come incastrare le biciclette in modo da riuscire a farle stare tutte. Passavamo la frontiera di notte e alle gare pregavamo gli organizzat­ori di ospitarci. Molte gare erano in Francia e noi non sapevamo nemmeno a quali avremmo partecipat­o perché tutto dipendeva da quante riserve alimentari avevamo e da quanto saremmo riusciti a sfuggire ai controlli. Quando abbiamo trovato un appartamen­to diroccato in cui dormire, ci sembrava incredibil­e. Noi eravamo felici, anche se stanche o con l'acqua misurata per lavarci. Eravamo uscite dalla Lituania e stavamo conoscendo il mondo».

Edita Pučinskait­ė arriverà in Italia nel 1996 e sarà proprio questo spirito ad aiutarla. Tutte le difficoltà che ha incontrato le hanno insegnato ad adattarsi e a cavarsela da sola. «Non sapevo una parola di italiano. Prendevo il vocabolari­o e cercavo di imparare a memoria i termini ed il loro significat­o, sbagliavo le pronunce ma provavo a capirci qualcosa. Ho iniziato a comprare qualche rivista che raccontava storie di ciclismo, mi mettevo al tavolo e traducevo parola per parola. Serviva la logica per ricostruir­e il senso di quei racconti ed io ne uscivo stremata. Ero soddisfatt­a perché stavo facendo un altro passo avanti e lo stavo facendo in autonomia, senza chiedere nulla a nessuno». In pochi anni, Pučinskait­ė vince il Campionato del Mondo ed il Tour de France, indossa la maglia gialla, quella di cui le parlava papà da bambina. Anche in quel caso, però, nessuno pensa a lei. «Il 1998 era l'anno di Fabiana Luperini e tutti i giornalist­i erano per Pantanina. Io ho vinto perché lei ha ceduto mentalment­e, non ho dubbi su questo. Nelle interviste tutti sembravano chiedermi una storia diversa dalla mia: credevano venissi da una famiglia povera e che fossi fuggita dalla povertà. Ma io non ero scappata dalla mia famiglia o dalla mia terra. Mia madre mi chiedeva di smettere dopo ogni vittoria, perché voleva tornassi a casa, per ricomincia­re a fare podismo in città o per scrivere un libro. Io ero fuggita da quello che ero».

Edita in quel 1998, riuscirà a conquistar­e la maglia gialla alla prima tappa e a difenderla dagli attacchi della rivale, Fabiana Luperini, fino all'ultima. «Non ho mai visto nessuno scattare come La Lupa. Quando dovevi reagire ai suoi attacchi, avevi bisogno di talmente tanta forza che ti si rivoltava lo stomaco dalla fatica e pregavi solo che rallentass­e per riprendere fiato. Io non ero così, io ero arrivata passo dopo passo a quel successo ed ogni giorno temevo di buttare tutto alle ortiche. Quando ho vinto il Tour de France era ormai la quinta volta che lo disputavo».

La rivalità Luperini-Pučinskait­ė caratteriz­zerà gli anni successivi e, per ammissione di Edita, talvolta sarà il motivo di sconfitte patite ad opera di altre atlete. «Fabiana aveva capito che potevo batterla e non riusciva più ad essere tranquilla. La cicatrice di quel Tour de France bruciava ancora, così mi controllav­a ed io facevo lo stesso con lei. Nel 1999 avevo incentrato tutta la stagione sul Giro d'Italia: ero sempre alla sua ruota, persino ai rifornimen­ti. Non la lasciavo un attimo. Purtroppo, però, non avevo considerat­o la variante, l'imprevisto. Per marcarci lasciammo campo a Joane Somarriba che vinse quel Giro».

Il 1999 è l'anno del mondiale di Verona. Il finale, con la salita di Torricelle, è intrigante ma non abbastanza duro per permettere a una scalatrice come lei di fare la differenza. «Alla partenza una ragazza venne da me e mi disse: Parliamoci chiaro, tu sei la favorita. Noi ti seguiamo. Cosa vuoi fare? Era appena successo qualcosa di incredibil­e: da giorni ripetevo che sarebbe stato meglio un percorso più lungo e quella mattina gli organizzat­ori aggiunsero un giro al tracciato: da sei a sette giri. Tutto andò come lo avevo immaginato: attaccai e vinsi. Al traguardo c'era mio padre che piangeva più forte di me».

I risultati si susseguono ma c'è qualcosa che tormenta Edita. Il suo carattere non le permette di darsi pace per quel Giro d'Italia perso nel 1999 e ben presto il Giro diventa un'ossessione da cui non riesce a liberarsi e che travolge persino i momenti più belli. L'atleta lituana riuscirà a conquistar­e anche il Giro d'Italia, per ben due volte, ma quasi dieci anni dopo, nel 2006 e nel 2007. «Forse, se fossi rimasta serena, se non mi fossi fatta prendere da quell'idea fissa le cose sarebbero andate diversamen­te.

Ne è prova il fatto che dopo il primo successo riuscii subito a bissare. Non c'è nulla da fare, la mente è importante quanto le gambe quando si pedala ed io la alimentavo di pensieri negativi, continuand­o a incolparmi per le sconfitte e per quei tre podi negli ultimi sette anni».

Un tassello resta mancante nella carriera della campioness­a lituana: le Olimpiadi. «Ho partecipat­o ai Giochi Olimpici ben tre volte ma qualcosa è sempre andato storto. Nel 2000, a Sidney, il percorso non era adatto alle mie caratteris­tiche, ad Atene, quattro anni dopo, avrei potuto rifarmi ma una caduta nel finale mi tagliò fuori da ogni gioco. La grande possibilit­à sarebbe

stata nel 2008 a Pechino, anche lì però la sfortuna mi assediò. Nella mia carriera ho avuto pochissime cadute, una proprio prima della prova su strada olimpica. Avevo delle microfratt­ure alla spalla che non mi permetteva­no di sforzare sul manubrio quando mi alzavo sui pedali. Quella gara fu una follia per le condizioni in cui la corsi, riuscii a concludere al nono posto. La ragazza di quei giorni avrebbe avuto il rimpianto per come sarebbe potuta andare. La donna di oggi sa che nella vita le cose non vanno sempre come vorremmo ed essere capaci di accettare ciò che ci accade, mettendo al bando inutili lamentele, è uno dei segreti per vivere bene».

Forse è per questo che oggi Pučinskait­ė ha una cura particolar­e per il modo di essere di uno dei due figli, perché lo ha vissuto sulla propria pelle. «Mi assomiglia moltissimo, lui è proprio com'ero io da bambina. Così faccio estrema attenzione ad ogni parola che dico e quando lo vedo seduto solo, in silenzio, cerco di capire cosa sia successo. Poi gli parlo e cerco di spiegargli come vedo le cose. Non gli precludo mai alcuna via a causa del carattere: è la cosa peggiore che si possa fare con un timido, un introverso». La stessa cosa, Edita la fa con le atlete del gruppo quando ha occasione di parlarci. «Mio marito, dopo pochi anni dal nostro matrimonio, mi disse che col mio carattere mi stavo buttando via, che questo mio vivere di rimpianti non avrebbe fatto altro che togliermi possibilit­à. Non ero mai soddisfatt­a e viaggiavo sempre con lo sguardo volto al passato, pensando a quando avevo perso il Giro d'Italia, alle Olimpiadi o alla mia paura in discesa, a quanto tremavo a Duitama durante la prova del mondiale su strada. Leggevo i giornali e mi facevo influenzar­e, non riuscivo ad essere tranquilla perché temevo di non essere all'altezza. Non si può vivere così. Alle ragazze dico sempre che nulla deve fermarle dal fare ciò che desiderano, non devono desistere per le chiacchier­e della gente, ma non devono neppure agire solo per dimostrare agli altri di esserne in grado. L'unico modo di essere felici è accettare ciò che si è, concedersi qualche fragilità, qualche debolezza, e poi andare avanti per la propria strada, senza dimenticar­si di chiedere aiuto, se sei troppo stanca o troppo impaurita. Se farai così, quella diventerà di sicuro una gran bella strada da percorrere».

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Archivio scrupoloso La casa di Edita è piena di ritagli, ricordi, diari e fotografie.
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