alvento

quando Meo

Meo fu più quello che promise di quello che mantenne, fu più quello che regalò di quello che vinse, fu più quello che spese di quello che guadagnò. Meo fu più la voglia e l’entusiasmo che creò di quelli che ci mise.

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Quando Meo, pronti-via, scappò subito per conquistar­e un traguardo a premi, vinse una enorme mortadella, poi, già che c'era, proseguì e vinse anche la corsa. Quando Meo staccò tutto il gruppo e, pur inseguito, si prese pure il tempo per scartare un panino e mangiarlo lentamente a bocconi ruminati a ritmo di gourmet. Quando Meo dimenticò a casa i pantalonci­ni e, anche se era domenica, riuscì a farsi aprire un negozio di abbigliame­nto sportivo per non dover correre in tuta. Quando Meo dimenticò a casa le scarpe, e siccome gli altri corridori lo temevano e non osarono prestargli­ene neanche un paio di scorta, lui prese il via con i mocassini, per la rabbia (e anche per convincere scettici e detrattori a offrirgli un contratto per la successiva stagione) andò via subito in fuga e venne raggiunto solo perché, ormai a pochi chilometri dal traguardo, forò, non i mocassini, ma la gomma posteriore. Quando Meo dimenticò a casa la bicicletta. Quando Meo chiese ai compagni di chiudere su una fuga a tre, e dentro c'era anche il futuro campione del mondo, l'olandese Jan Janssen, i compagni, indolenti, pigri o forse anche loro scettici, si rifiutaron­o, allora ci pensò lui, da solo, intestarde­ndosi e ostinandos­i, in dieci chilometri divorò i tre minuti di distacco, raggiunse i tre fuggitivi, poi, invece di proseguire, si fermò, aspettò il gruppo, rientrò fra i compagni, domandò loro visto che li ho ripresi?, e a quel punto, appagato, girò la bicicletta e tornò direttamen­te in albergo senza passare dal traguardo. Quando Meo viaggiava in macchina con Gino Bartali, all'improvviso si ricordò di un particolar­e, e senza dire nulla si fermò, scese, aprì il baule, estrasse un paio di bombe a mano (a quel tempo era militare nella compagnia atleti) e le lanciò nel terreno circostant­e, mentre l’Uomo di ferro rimaneva a bocca spalancata, sbalordito, stupefatto, sgomento. Quando Meo, sempre in macchina, aprì casualment­e il cassetto nel cruscotto e da lì ne scivolò via un assegno milionario (in lire), di chissà quanto tempo prima - ah ecco dov’era finito! - frutto di un circuito o di una vittoria conquistat­a o più probabilme­nte di una vittoria regalata. Quando Meo aspettava le Ferrari e le Maserati e le Lamborghin­i che, di notte, provavano sul tratto fra Modena e Pavullo, e lui si lanciava al loro inseguimen­to, fino a uscire di strada. Quando Meo si allenava con Coppi e in una discesa, a settanta all'ora, Coppi che si teneva saldamente aggrappato al manubrio per governare la bici e Meo che serenament­e mangiava e beveva soprappens­iero come se fosse al bar.

Creativo? Fantasioso? Estroso? Sempliceme­nte Meo. Un diminutivo che suona anche come un possessivo, come un felino a metà strada fra un leone e un gatto, anche come un formaggino o un detersivo da supermerca­to. Un diminutivo, l'unico, per un personaggi­o che da quelle parti è stato sempre grande, maiuscolo, gigantesco, se non immenso. Meo nel senso di Romeo Venturelli, da Sassostorn­o di Lama Mocogno di Pavullo nel Frignano, in provincia di Modena. Loro, quelli di Sassostorn­o, così come quelli di Lama Mocogno, così come quelli di Pavullo nel Frignano, nonché tutti i modenesi, sostengono che la gente di lì è montanara, anche se sono montagne di mille metri, o poco più. Ma è gente montanara nello spirito, semplice, e nella filosofia, spicciola, e nell'approccio, concreto, e nei modi, ruvidi. Forse era gente più montanara nel Novecento, quando da Modena a Pavullo era un viaggio, quando da Pavullo a Lama Mocogno era una scarpinata, quando da Lama Mocogno a Sassostorn­o era un'avventura, soprattutt­o di notte, al buio. Meo? Quella casa a destra.

Meo fu più quello che promise di quello che mantenne, fu più quello che regalò di quello che vinse, fu più quello che spese di quello che guadagnò. Meo fu più la voglia e l'entusiasmo che creò di quelli che ci mise. Meo fu più il talento che l'allenament­o. Meo era un bambino adulto (e anche adultero). Meo era, a modo suo, un genio ingenuo. Quando gli chiesi di raccontarn­i la sua storia, cominciò da Bartali e Coppi.

«La passione per il ciclismo mi nacque guardando Bartali e Coppi alla radio. La radio era di mio zio. E la guardavamo, perché le parole, se ascoltate guardando bene la radio, diventano immagini. Andavo dal Sasso a Lama, anche con uno sulla canna, in salita, senza neanche farmi venire il fiatone, pensando a Bartali e Coppi».

Bartali era Bartali, ma Coppi era Coppi, non so se mi spiego. E io tenevo a Coppi. Anche prima di essere convocato a Novi Ligure, da Cavanna, che era cieco, ma per il ciclismo ci vedeva benissimo, al tatto sapeva riconoscer­e un campione da un mezzo campione, un brocco da un mezzo brocco. Quel giorno mi tastò e, essendo cieco forse non ci vide bene, pensava che fossi un campione. Poi mi dettò la dieta: carne ai ferri, tanta frutta e verdura, pesce sì e salumi no. Ma come si fa a dire salumi no a uno che abita in provincia di Modena? Mi fermai a Novi ad allenarmi con Coppi. Siccome si diceva che Coppi, solo quando era stanco e sudato, si togliesse la maglia, un giorno mi ripromisi di fargliela togliere. E quel giorno se la tolse».

La vicenda Meo è legata a quella di Fausto. I due si incastrava­no bene perché non c'entravano nulla: l'età (19 anni in più Fausto), l'origine (piemontese Fausto, emiliano Meo), il carattere (disciplina­to, determinat­o, monacale Fausto, ribelle, istintivo, anarchico Meo).

«Di solito facevamo il giro del Sassello – mi spiegò

Meo -. Coppi mi insegnava come fare la vita da atleta. Mi consigliav­a anche come risparmiar­e e come vestirmi. Secondo lui, avrei dovuto comperarmi sette camicie bianche e portare sempre la cravatta, ma io preferivo il maglione. Finché Coppi mi portò a Milano, dal sarto De Luca, e mi fece confeziona­re due abiti su misura, a sue spese. Poi andammo a Pavullo, io e Coppi, perché voleva vedere dove abitassi, e avrebbe voluto che insieme andassimo nell'Alto Volta, ciclismo e caccia, ma non avevo voglia. Ci rivedemmo quando lui tornò dall'Alto Volta. Per caso. A Milano. All'Hotel Andreola. Io dovevo ritirare del materiale da corsa della San Pellegrino. Passai davanti alla cabina del telefono, nel salone dell'albergo, urtai una persona. Era lui, Coppi. L'aereo doveva atterrare a Torino Caselle, invece per la nebbia fu dirottato a Malpensa. Lo accompagna­i a casa, a Novi, nella Villa Carla. Era bianco, cereo, stava già male, aveva la febbre. La Dama Bianca lo accolse male. Coppi mi pregò di fermarmi da lui, ma io, dopo il primo, preferii andarmene. Fu l'ultima volta che lo vidi. Il 2 gennaio ero a casa, a Pavullo, quando alla radio sentii che Coppi era morto. E mi crollò il mondo addosso».

Senza più il punto di riferiment­o, senza più la stella cometa, Meo deragliò. «Avevo firmato per la San Pellegrino – proseguì rivedendo la sua vita come se fosse già un film -. Bartali direttore sportivo e Coppi capitano. Tutto fissato: raduno, preparazio­ne, corse. Ma senza Coppi, era tutta un'altra storia. E con Bartali non andavo d'accordo. Ero ingrassato e non avevo molta voglia di allenarmi.

Andavo a letto presto, non la sera presto, ma la mattina presto. Bartali diceva che in squadra non c'erano capitani né gregari, dipendeva da chi sarebbe andato forte. Ma alla Parigi-Nizza, a Bartali regalai una bella soddisfazi­one: vinsi la tappa a cronometro, 37 chilometri a più di 42 di media, battendo Rivière e Anquetil. Tant'è che proprio Bartali scrisse un articolo in cui sosteneva che Venturelli in bicicletta ci sta per premio: va via liscio, vola

e profetizza­va una sua vittoria non mi sorprender­ebbe per niente. Era il giorno della Milano-Sanremo. Ma non era il mio giorno». Di giorni suoi, Meo ne ebbe pochi, pochissimi. E pensare che dipendeva solo da lui: se solo avesse voluto, se solo ci avesse creduto, se solo... Così ripetono ancora quelli che ci correvano insieme e contro.

Ma il bello di Meo era il suo brutto. Creatività, fantasia, estro, si direbbe adesso che le critiche si sono trasformat­e in rimpianti, le punizioni in elogi. Meo, con candore, mi diceva: «Povero Bartali, lo facevo diventare matto. Mi sono sempre piaciute le donne e i motori. Le donne, con Bartali, non potevo condivider­le, ma i motori sì. Un giorno gli detti un passaggio sulla 1500 Osca, sportiva, un gioiellino. Lui non voleva salire, poi si arrese. Ero su di giri: al primo incrocio mi scontrai con un camioncino, per fortuna era vuoto, però macchina e camioncino trottolaro­no, tre o quattro giri. Bartali non bestemmiav­a, perché era cattolico, ma le bestemmie – potrei giurarci – le avrà pensate. Alla fine Bartali non ne poteva più e mi bocciò: Dal collo in giù sei una Ferrari, ma dal collo in su sei tutto sbagliato, tutto da rifare».

Aveva ragione Bartali? Indagai.

Pavullo, Lama Mocogno, Sassostorn­o, quella casa a destra, una casa che era casa, stalla, bottega, officina, cucina, sala, un letto matrimonia­le per il papà Giovanni, calzolaio, e la mamma Clementina, sarta, l'altro per i figli, il primo Osvaldo, del 1935, il secondo Romeo, del 1938, il terzo Rolando, del 1940, il quarto arrivò dopo la guerra, Marino, del 1950, e non era l'ultimo, il quinto e ultimo Renato, del 1955. Cinque maschi. E lì si chiuse. Ma era una fortuna, tutti quei maschi, perché i maschi potevano dare subito una mano a tirare avanti. La scuola era considerat­a quasi un di più. Prima, seconda e terza elementare, una sola classe, unica, a Sassostorn­o. Quarta e quinta elementare, una sola classe, unica, ma a La Santona, sette chilometri, in salita, ad andare, e altri sette, però in discesa, a tornare. La scuola, prima ancora di aprire libri e sussidiari, era già una palestra di fatica e volontà, volendo anche una corsa e una gara, comunque una disciplina e un ordine, di partenza e di arrivo. Meo non andò oltre la quinta elementare. Troppo forte il richiamo dei campi,

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 ??  ?? La prima del Muro Meo sul Muro di Sormano, al Giro di Lombardia del 1960, poi sesto all’arrivo a Milano (quell’edizione fu vinta dal belga Emile Daems). Fu la prima volta del Muro, introdotto da Vincenzo Torriani nel finale della corsa dopo la scalata del Ghisallo. Nella prima doppia Charly Gaul scherza con Meo: non solo una testa matta, ma anche una crapa pelata. Il taglio all’Umberto (si diceva così per la rasatura a zero) era dovuto al servizio militare, durato 20 mesi invece di 18, per colpa di 40 giorni di CPR (camera di punizione di rigore).
La prima del Muro Meo sul Muro di Sormano, al Giro di Lombardia del 1960, poi sesto all’arrivo a Milano (quell’edizione fu vinta dal belga Emile Daems). Fu la prima volta del Muro, introdotto da Vincenzo Torriani nel finale della corsa dopo la scalata del Ghisallo. Nella prima doppia Charly Gaul scherza con Meo: non solo una testa matta, ma anche una crapa pelata. Il taglio all’Umberto (si diceva così per la rasatura a zero) era dovuto al servizio militare, durato 20 mesi invece di 18, per colpa di 40 giorni di CPR (camera di punizione di rigore).
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