Salire al Nivolet, senza scendere dalla bici
Dove la prendi la forza? La forza di fermarti intendo. Quando all'uscita di Noasca vedi il tornante, quello su cui campeggia il primo aggettivo numerale, quello che ti annuncia che si comincia a fare sul serio, che inizia la sequenza, che tra poco il panorama si impennerà, alzarsi in piedi e tirare sull'impugnatura del manubrio sono un tutt'uno con il sollievo della partenza. È il segnale che attendevi per accendere l'interruttore mentale. Lo start informale e precario che rende reale il pensiero che ti accompagnava da giorni. Il principio del tormento, finalmente. La complessa e complicata inquietudine metabolica che ti mantiene al minimo, ora si dissolve e infonde nei tessuti la sveglia fisiologica delle giornate epiche, e non importa se il cielo è ancora cupo e fosco e il vento soffia nervoso di traverso. E non importa se qualche macchina ti supera senza riguardo e nessuno attende sul ciglio il tuo passaggio. L'impazienza di vedere l'asfalto che sale, l'irrequietezza dell'attesa che si scioglie con la pendenza che aumenta, sono la benzina che infiamma i polmoni e scaraventa i muscoli lungo la strada. Non c'è bisogno di altro, né della chimica cellulare né dell'incitamento convulso e frenetico del pubblico. Dentro il cervello c'è tutto quello che serve. Il viatico necessario che ci predispone alla scalata. Noi la conosciamo bene questa determinazione. Siamo consapevoli della risoluta fermezza che ci alimenta. Ci sfugge, invece, il coraggio con cui ci si arrende. Dove la prendi la forza per rallentare? chiedo a Benni, che è il mio compagno di scorrerie ciclistiche e che forse è più forte di me. Come resisti alla seduzione della prossima curva, come contrasti l'istigazione ad andare più in là e più su? Mi guarda obliquo, ondeggia, rilancia. Proseguiamo. Prima del tunnel, del tignoso tunnel che per anni ha reso insicuro e difficoltoso l'accesso al colle per le bici da corsa, si svolta a sinistra, per la strada vecchia, riportata a nuova vita per il Giro del 2019 e che ora rende la logistica dell'ascesa più agevole (ma non certo l'altimetria). Qualche occhiata in giro, uno sguardo alle case isolate di Pianchette prima dei due massi ciclopici, poi si risale. Più ferocemente, adesso in modo più crudelmente piacevole e definito. Due o tre tornanti in mezzo ai pini, quindi la strada prosegue dritta prossima al venti percento. Un muro atteso e annunciato, ma non per questo meno ripido. Uno schiaffo verticale e ossuto che non permette distrazioni, né l'ardire della rinuncia. La catena si tende, sale sul penultimo pignone (perché la prudenza e la distanza suggeriscono di avere una pallottola di riserva) e gira a strappi regolari, sincronizzati con la danza sui pedali. L'Orco che muggisce a sinistra, a destra il fianco scosceso della montagna e in mezzo l'erta che si fa agonia, splendida sofferenza, desiderato supplizio. Ma in breve si esaurisce, solo un assaggio di quello che si troverà più avanti. Ceresole Reale si raggiunge agevolmente, un docile falsopiano conduce fino al paese, porta d'ingresso al Parco nazionale del Gran Paradiso, e addirittura plana in leggera discesa costeggiando il lago che si allunga sul lato mancino, appena usciti dall'abitato. Il blu dell'acqua è livido, specchia le conifere che lo bordano e qualche piccola vela sfrutta l'aria che spira dal basso per increspare di onde concentriche la superficie liquida e rugosa. Ben presto si riprende a salire, ancora tra alberi, sempre più radi, prati punteggiati da rododendri e case isolate, in moderata ascesa fino a Chiapili dove la salita si fa solida, continua e vera. Oltre, sette chilometri tra l'otto e il nove per cento per arrivare al lago Serrù, il grande bacino artificiale che si staglia, azzurro, nel deserto ventoso dei duemila e duecento metri di altezza, dietro il poderoso argine di cemento armato della diga. Qui la salita matura, diventa una grande salita alpina, un nastro d'asfalto che si inerpica nel brullo paesaggio ormai privo di piante, circondato da rocce taglienti, interrotto dall'attraversare di acque indomite e impreviste. Non dà tregua, non ammette resa, non concede l'onore delle armi, splendidamente esigente. Benni, riesci a fermarti? Ce la fai a scendere qui? La voce è flebile, le borracce quasi vuote, le tempie che pulsano e premono contro il casco, insopportabilmente pesante, sembrano prossime a scoppiare. Andiamo avanti. Si va oltre, si superano le ultime baite affacciate sul pianoro che sovrasta un altro specchio d'acqua, il lago Agnel, gelidamente scuro sotto l'arco della strada che ondeggia in piano in attesa del balzo finale. Poco più di quattro chilometri al sette e mezzo per cento che conducono al valico, privi di protezione, senz'alberi, intagliati nella roccia viva e franosa. Sono le rampe conclusive, singolarmente crudeli, distintamente spietate. Aspettano il sacrificio estremo, l'agognato golgota ed esigono assoluta dedizione. La fatica accumulata, gli sforzi profusi, soprattutto l'aria rarefatta che toglie l'ossigeno necessario e confonde gli occhi, rendono questa estrema fatica una dolce tortura. Un sottile ed amabile dolore. E finalmente la vetta. Qui sì che ci fermiamo, semplicemente perché più in alto non si può salire, semplicemente perché è così che deve andare. Non c'è nulla oltre i duemilaseicentododici metri sul livello del mare che fanno del Nivolet la quarta cima più alta d'Italia. Da qui lo sguardo si rovescia sulla valle sottostante, accarezza il verde degli alpeggi, il bruno delle torbiere, lo scintillio dei laghi che ci hanno accompagnati, spettatori silenziosi e indifferenti, fino a questa sella maestosa. Ripercorre il nero dell'asfalto, i fianchi impervi, il vuoto che si apre davanti. Contempla ancora un momento le nubi ormai diradate e il biancheggiare del sole, poche volte così vicino, poi si ricompone, tira il fiato e si prepara alla discesa. Ed ora, signori, vento in faccia e giù a ritroso sulla strada che si torce e si avvolge come un serpente addomesticato che ha morso a fondo i muscoli indolenziti, tolto il respiro, annebbiato la vista, ma che ancora una volta non ci ha dato la forza di fermarci prima della cima.