ALLE SORGENTI DELL’ORZATA SOGNI GRAVEL IN VAL GRAVEGLIA
Un po’ di cose, nella mia vita, sono andate in un certo modo anche grazie ad una bici da corsa. Quando avevo sei anni, mio nonno mi regalò una Bianchi, che non era celeste ma rossa. Era bellissima, e quel manubrio, il manubrio da corsa, ai miei occhi rappresentava qualcosa di diverso e di cosmico, forse perchè immaginavo arrivasse direttamente da un cartone animato pieno di robot e di navicelle spaziali.
Chissà perché, ma erano gli anni Ottanta, e temo che non uscirò mai del tutto vivo da quella nostalgia.
A volte capita, che qualcuno nella nostra vita ci regali le coordinate per un sogno da realizzare, ed è importante, con il tempo, essere pazienti e capire il valore simbolico del dono che ci è stato fatto
Perché spesso, dietro ad un gesto, c'è una intuizione che ha a che fare con chi non sappiamo ancora di essere, ma piuttosto, con chi saremo un giorno, magari oggi stesso, non in ritardo, ma semplicemente adesso.
Quella piccola bici da corsa era la mitologica creatura che prometteva di portarmi ovunque e altrove. E oggi, dopo qualche anno di separazione, la bici ha mantenuto le sue promesse, perché è tornata ad essere il richiamo che ulula nel vento lontano, che sa di asfalto evanescente e di ghiaia che si trasforma in un bosco profondo. La gravel ha chiuso il cerchio di quello che desideravo realmente, unendo l'estetica unica della bici da corsa, alla possibilità di abbandonare la strada più ovvia per andare a curiosare in giro, ma a volte semplicemente poco oltre il bordo della periferia.
Ho così scoperto che nelle cose più vicine e apparentemente scontate, si possono svelare pagine di stupore inaspettate.
Probabilmente avevo bisogno di essere più paziente e ancora più lento, per andare a cercare quella terra di mezzo, fatta di case di campagna, di piccoli orti, di castagni che lasciano lo spazio ai faggi e poi, quasi in cima, al cielo.
In fondo, il gioco dell'infanzia spesso era quello di fantasticare sul futuro e di capire chissà quali luoghi avrei scoperto, poco oltre il cortile della casa dei nonni. A volte quando sono in bici, passo davanti al terrazzo di quella casa e rivedo ancora mia nonna mentre tenta di farmi mangiare la cena, io che mi distraggo e scanso i cucchiai di minestra, per poi perdermi con gli occhi nel bosco di fronte e immaginare di essere ovunque.
E oggi, il gioco di un uomo adulto, che cosa è diventato? Credo di conoscere in parte la risposta e so che ha due nomi: la mia valle, che è sempre la stessa dagli anni Ottanta, e la mia bicicletta, che ora non è più rossa ma è ramata, ed è una bella ragazza d'acciaio in effetti.
Oggi abito a pochi chilometri dal luogo in cui ho imparato ad andare in bici.
La valle è sempre la val Graveglia, con una curiosa combinazione di lettere che contengono la parola gravel.
E la cosa mi fa sorridere, perché dovrei pensare ad un qualche tipo di destino indefinito, ma forse è semplicemente la catena lievemente cigolante della mia vita che scorre su gomme rattoppate.
Esco di casa, probabilmente starò via per poche ore, so che non andrò ovunque per davvero, ma so che pedalerò in una direzione precisa, cercando qualcosa.
Prendo la prima stradina in salita che si stacca secca e stretta, dalla provinciale.
Una stradina dalla pendenza acida, con l'asfalto sbriciolato che non chiede scusa a nessuno. Una striscia fragile che si arrampica in mezzo ai muri in pietra, o seggi, come vengono chiamati qui.
Terrazze di terra in lotta con la gravità e che adesso spanciano in fuori, per colpa degli anni e dell'abbandono che avanza. Gli ultimi ulivi sono letteralmente appesi, tortuosi e strapiombanti, forse perché cercano di vedere il mare, che è sempre laggiù, scintillante come in una promessa, e dunque anche i rami stessi diventano nodi che un marinaio saprebbe stringere ancora di più per resistere a qualunque cosa anche quassù, dove le mareggiate sono diverse, ma ci sono lo stesso anche se non si vedono.
Spesso c'è molto silenzio, magari rotto dal rintocco di un piccolo e sonnecchiante campanile.
Le case intorno si fanno forza tutte insieme; c'è una vecchia vigna disordinata, una rosa diventata bacca, un gatto senza nome e un minuscolo cimitero che veglia sul nulla.
Un cane abbaia lontano, una motosega appare e scompare, ancora più distante in un bosco remoto, e poi basta, silenzio.
Pedalando mi capita di incontrare degli odori, credendo di sentirli per davvero suppongo, ma potrei anche immaginarli e basta, ingannandomi forse.
Una volta, chiaramente, mi salì al naso un purissimo odore di orzata, una cosa che non bevevo quasi mai e che continuo a non bere da chissà quanto tempo. Quell'odore era l'ennesimo tuffo lento nel passato, nella cucina della mia infanzia, con mia nonna che faceva la pasta a mano e io che la osservano attraverso una bottiglia di vetro, spessa e opaca, finemente lavorata e appoggiata sul tavolo.
Sì, era una bottiglia di orzata, di sciroppo di orzata, con il suo inconfondibile odore - per me - di cose belle e di cose dolci, di campagna e dei miei nonni, delle vacanze estive e della mia prima bici da corsa, ancora un po' troppo alta per arrivarci bene, ma abbastanza per pedalarci sopra in qualche modo. Ecco insomma, tutte quelle cose, che non ci sono quasi più, ma che adesso ci sono in modo diverso e a cui è necessario dare un nome.
Quindi pedalo, spesso lentamente, cercando di rimanere vicino a casa, perché forse in questo momento è il posto a cui sono più legato, pur senza ammetterlo del tutto.
Cerco sempre stradine secondarie che poi scompaiono e diventano sterrate.
Perché qui non c’è niente di facile e le persone sono coraggiose e spesso silenziose. Gli orti sono guadagnati con il duro lavoro, lottando contro il poco spazio disponibile e sono il ritratto più veritiero di chi vive in questi posti da sempre. Lingue di terra sobrie e generose, pezzi di terreni ben curati e indipendenti, come le persone che hanno deciso di rimanere e di resistere.
Ma a volte anche le sterrate scompaiono e diventano semplicemente uno spazio sospeso e pianeggiante, con l'erba corta e una bella vista sulle montagne che raggiungerò forse domani o un'altra volta, o che magari aspetteranno ancora un po'.
Appoggio la bici al tronco di una vecchia quercia ormai crollata.
Ecco, se devo pensare ad un odore proprio adesso, non mi viene in mente niente, ma a volte capita, perché ci sono giornate più difficili di altre. Allora salgo di nuovo in sella e metto le mani nella piega bassa del manubrio; una cosa da amatori, da vecchi corridori insomma.
Pedalo ancora un po' e indosso la giacchetta perché ora l'aria è più fredda, il sole inizia a scendere e da qui in alto vedo le prime luci tremolanti che si accendono in qualche paesino solitario più in basso.
Poi ad un certo punto noto una freccia di legno con scritto sopra: Alle sorgenti dell’orzata (tempo: quello che occorre). Stringo il manubrio in basso, con forza, mi alzo in piedi e butto giù un paio di denti. Forse questa sera tornerò a casa più tardi, ma qui, proprio adesso, credo di sentire un odore a cui appartengo. E allora immagino una Bianchi rossa, un terrazzo, mia nonna che mi chiama e una bottiglia di orzata che non c'è più.