IL TERZO UOMO Tom Pidcock
Tom Pidcock ha chiuso la sua prima grande classica, al 15° posto, nel gruppetto di testa beffato dalla sparata di Jasper Stuyven. Subito alle spalle del britannico si sono classificati Julian Alaphilippe e Michał Kwiatkowski, due campioni del mondo e vincitori della Sanremo; forse basterebbe già questo per dare consistenza alla prestazione di Pidcock nella corsa più lunga mai affrontata in carriera, forse l'uscita in bici più lunga della sua vita. Non sapeva dove andava perché prima della Sanremo non aveva fatto nemmeno una ricognizione, era rimasto ad Andorra ad allenarsi e ambientarsi nella sua nuova casa. Ma soprattutto perché non sa mai dove sta andando, e come lui non lo sa nessuno dei suoi tecnici, dei suoi preparatori, dei suoi tifosi. È questo il suo bello: di lui si conosce soltanto lo smisurato talento; il resto è un salto nell'ignoto.
Nonostante debba ancora compiere 22 anni, Pidcock è noto ormai da tempo al mondo del ciclismo. È già uno di famiglia per chi segue le corse, su ogni terreno e in ogni stagione. Il motivo è semplice e complicato allo stesso tempo. Tom è stato un talento precoce, un polivalente vero, esploso nel cuore del movimento più vivace di questo inizio millennio, o quanto meno quello con la maggior attenzione mediatica. D'altro canto Pidders (così è unanimamente soprannominato) è un ragazzo che ha deciso di darsi il tempo di crescere, di coltivare con pazienza le qualità che lo rendono sin dall'adolescenza superiore a quasi tutti i suoi compagni. Sarebbe potuto sbarcare nel World Tour già da teenager, seguendo la tendenza predatoria tanto in voga in un'epoca in cui i giovani promettenti vanno accalappiati ancora in età scolare, ma ha scelto di non farlo, ha scelto di crescere. E il bello è che non ha ancora smesso, forse non ha nemmeno intenzione di smettere di crescere.
La prima definizione di Crescere nel vocabolario Treccani è: diventare più grande, per naturale e progressivo sviluppo. Nella storia di Pidcock qui emerge già il primo intoppo, perché Tom è ormai un giovane adulto ma continua a rimanere piccolo. Il suo metro e settanta per 59 chili di peso lo rende un'anomalia in un ciclismo sempre più fisico. In gruppo il suo profilo scompare tra spalle e toraci da palestra. Ma è sempre stato così, sin da bambino Tom era quello piccolo. Ai tempi delle prime pedalate non riusciva nemmeno a tenere i piedi sui pedali: la madre glieli legò con un laccetto. Da quel momento, Pidders non ha più smesso.
«Ho pedalato quasi ogni giorno della mia vita da quando avevo quattro anni; oggi non mi sembra che ci sia nulla in bicicletta che stia al di fuori della mia comfort zone», ha raccontato in una recente intervista. Crescere per Tom non ha avuto a che fare con la statura, quanto con l'aumento dell'energia sprigionata sui pedali. Già verso i dieci anni ha cominciato a partecipare alle prime corsette nel suo Yorkshire. La prima gara è ricordata in famiglia ancora come un piccolo trauma: Tom non ci credeva di aver perso da una ragazza. Risultato rielaborato negli anni: quella ragazza era Pfeiffer Georgi, oggi professionista nella DSM.
Gli anni di quelle prime corse, piccolo e magro in mezzo a slanciati preadolescenti, spesso più grandi di lui, sono bastati però a fargli capire che il suo futuro era correre in bicicletta. E che sarebbe stata sempre una sfida. «Non ho mai pensato a cosa avrei fatto da grande, perché lo stavo già facendo. Anche se erano tutti più grandi e più forti di me, ho capito che avrei potuto batterli se fossi arrivato per primo all'ultima curva. Penso che sia lì che ho imparato a vincere le gare in bicicletta. Sono ancora più piccolo degli altri, ma ho imparato a vincere attraverso abilità e tattica, credo che sia questo che mi
«Ora non ricordo molto di quello che è successo, ma ricordo abbastanza da capire cos'è Instagram e anche per dire che oggi probabilmente avrei vinto. Quindi tutto questo è un po’ una merda. Oggi abbiamo perso la battaglia, ma non la guerra».
Tom Pidcock su Instagram nel 2019, dopo una brutta caduta al Tour de l'Avenir
«È leggero e scattante come Julian Alaphilippe ma ha la testa di Mathieu van der Poel. Corre con il cuore: quando vede un'opportunità per vincere, prova subito a coglierla, senza fare troppi calcoli».
permette di avere successo oggi». E in effetti il successo, così come la crescita, ha accompagnato Pidcock per tutta la sua giovanissima carriera. In ogni campo.
Già prima di avere l'età per competere tra gli juniores è un riferimento a livello nazionale (su strada e fuoristrada, con titoli anche su pista e nel circuito criterium). Nel 2015 si spinge oltremanica e comincia a raccogliere soddisfazioni in campo internazionale: si presenta a sorpresa agli europei juniores di ciclocross e arriva ottavo, a fine stagione è quinto al mondiale. L'anno successivo le vince tutte, mondiale compreso. Su strada non è da meno: nel 2016 vince la Philippe Gilbert (una sorta di Liegi per juniores), l'anno dopo la maglia iridata a cronometro e la Roubaix Juniors. Risultati che attirano l'attenzione delle squadre più importanti, tanto che Pidcock si può permettere di dividere tra due mentori altisonanti la sua prima stagione Under 23: nel ciclocross corre per la Telenet-Fidea di Sven Nys, su strada entra nel team di Bradley Wiggins. Ed è proprio con la formazione giovanile britannica che Pidders inizia il percorso che lo ha portato dove è ora.
L'eroe e la guida di Tom Pidcock è sempre stato suo padre, Giles, ex ciclista con qualche convocazione tra le nazionali giovanili divenuto animatore di formazioni e competizioni ciclistiche nello Yorkshire. Giles è stato colui che ha inserito Tom nel mondo del ciclismo, ma è stato con l'arrivo alla corte di Wiggins che il corridore ha conosciuto quelli che sono tutt'ora gli uomini-chiave della sua carriera. Uno è Andrew McQuaid, il figlio di Pat, l'ex presidente UCI. L'altro è un ex corridore fiammingo di seconda fascia, Kurt Bogaerts. Originario delle Fiandre Orientali, Bogaerts ha trovato la sua casa ciclistica in Irlanda, a fianco della leggenda Sean Kelly. Con Kelly, e con la famiglia McQuaid, Bogaerts ha avviato progetti di formazione, gestito squadre e lanciato corridori al professionismo, tra cui Sam Bennett.
Dal 2018 però si è concentrato su un nome soltanto: Tom Pidcock. Un talento che si incontra una volta sola nella vita, che lo ha stregato per la sua versatilità ma soprattutto per la sua forza mentale. «È leggero e scattante come Julian Alaphilippe ma ha la testa di Mathieu van der Poel. Corre con il cuore: quando vede un'opportunità per vincere, prova subito a coglierla, senza fare troppi calcoli», ha raccontato il tecnico belga lo scorso inverno. «Non sarei in grado di descriverlo, perché non si può inquadrarlo in una categoria. Possiamo solo metterlo alla prova su diverse corse e analizzare le sue prestazioni, ma la chiave per una carriera di successi sarà lasciarlo correre libero. Io lo vedo come un nuovo Sean Kelly».
Non sappiamo se Pidcock riuscirà a raccogliere i successi del leggendario corridore irlandese, ma la sua trasversalità ha spinto McQuaid a dargli fiducia. Nel 2018 il manager crea una squadra tutta per lui, la Trinity Racing. Affida la gestione tecnica a Bogaerts e Pidcock irrompe tra gli Under 23 come un cannibale.
Nel ciclocross vince un mondiale, un europeo, due Coppe del Mondo e una marea di corse; su strada conquista nuovamente la Roubaix di categoria e si toglie lo sfizio di conquistare il Tour Alsace vincendo a La Planche des Belles Filles; ma al mondiale di casa, ad Harrogate nello Yorkshire, deve accontentarsi di un bronzo, perdipiù ottenuto a tavolino. Per Pidcock e Bogaerts è un segnale: Tom deve ancora crescere. C'è mezzo World Tour che bussa alla sua porta a fine 2019, ma a sorpresa il corridore decide che non c'è fretta: ha solo vent'anni, preferisce restare tra gli Under 23 ancora una stagione. Nelle spiegazioni della sua scelta c'è tutto il crescendo pidcockiano: «Credo che arrivare tra i professionisti significhi avercela fatta, avere delle certezze. Ma io le mie certezze le ho già: nel World Tour non c'è niente di cui abbia bisogno in questo momento, o che desideri. Io voglio godermi le corse. Voglio divertirmi
«Il Fiandre mi ha insegnato una cosa: sono un corridore e mi piace correre. Mi sono divertito, ho fatto degli errori, ho dimenticato le basi dell'alimentarmi in corsa, ma non vedo l'ora di tornare qui. Forse non dovevo attaccare se volevo fare risultato, ma preferisco rischiare e saltare, piuttosto che trascinarmi per un ventesimo posto».
ancora, e, facendolo, continuare a migliorare. Voglio gustarmi fino in fondo il mio essere giovane». Per uno che ha sempre dichiarato di avere come obiettivo la conquista delle tre maglie iridate in strada, ciclocross e mountain bike (impresa riuscita nello stesso anno solo alla francese Pauline Ferrand-Prévot nel 2004/2005) c'era un solo modo per divertirsi: continuare a vincere.
Consigliato da Bogaerts e desideroso di esplorare a fondo i propri limiti, Pidcock ha optato per una transizione graduale verso il professionismo. Ha cominciato a sfidare i big nel ciclocross e scelto un calendario ibrido su strada, allungando nel frattempo con decisione il proprio sguardo sulla mountain bike, con l'obiettivo delle Olimpiadi di Tokyo. E mentre l'umanità si accartocciava intorno alla pandemia, la stella di Pidcock ha preso a stagliarsi decisa sull'orizzonte. A febbraio 2020 è argento ai mondiali élite di ciclocross. A settembre domina il Giro d'Italia Under 23 su strada. A ottobre, dopo aver portato a termine il durissimo mondiale di Imola tra gli élite, balza in sella alla mountain bike e nel giro di due settimane vince Coppa del Mondo e mondiale Under
23, a cui affianca il trionfo nella prima edizione della corsa iridata in e-MTB. Stanco? Appagato? Neanche per sogno. A dicembre è di nuovo a lottare nel ciclocross, e questa volta ai massimi livelli.
C'è una data che segna lo spartiacque, almeno l'ultimo sin qui, della carriera adulta di Pidcock. È il 13 dicembre del 2020. Quel pomeriggio, 1.232 giorni dopo il suo diciottesimo compleanno, Tom è diventato maggiorenne. Sono parole sue, quelle con cui ha commentato la sua vittoria al Superprestige di Gavere: la prima da professionista in una gara importante del ciclocross, ma soprattutto la prima davanti a chi le gare le vince tutte. Perché hai voglia a crescere e a crederci. Hai voglia a dare dimostrazioni di talento sin dall'infanzia. Ma correre nel ciclismo di oggi, e nel ciclocross in particolare, vuol dire sfidare due avversari come Mathieu van der Poel e Wout van Aert. Il primo le vince quasi tutte, il secondo raccoglie tutto ciò che riesce a sottrarre al primo; per un terzo non c'è nulla, nemmeno le briciole. Almeno fino a Gavere, quando tutto è cambiato: quel pomeriggio Pidcock ha vinto in presenza di van der Poel, e lo ha fatto attaccandolo direttamente. Erano sette anni, dal successo di Zdeněk Štybar al mondiale di Hoogerheide, che un corridore straniero rispetto a Belgio e Paesi Bassi non vinceva una corsa di primo piano tra gli uomini élite. In quel momento, forse a sorpresa e di sicuro involontariamente, Tom Pidcock è diventato il terzo uomo. E poco importa se il tentativo di bis una settimana più tardi è fallito, con i due quotatissimi rivali che lo hanno raggiunto e staccato nel finale della prova di Coppa del Mondo di Namur; Pidcock era ormai entrato di diritto nella categoria dei pesi massimi, con tutti i suoi 59 chili.
Diventare maggiorenne per Tom ha significato cambiare il suo rapporto con il mondo del ciclismo, ma soprattutto con quei due lì, quelli che fino ad allora poteva solo guardare da lontano, con ammirazione e un pizzico di fanatismo. Mathieu van der Poel è ancora in parte il suo idolo, il corridore diventato campione del mondo nel giorno in cui lui indossò la prima maglia iridata tra gli juniores, ma oggi è anche il suo compagno di giochi nei tornei online di Fortnite, e il suo rivale in corsa. Se fino allo scorso inverno l'ambizione del piccolo Tom era gareggiare con i giganti del ciclismo attuale, oggi il suo obiettivo è correre contro di loro. La maturità di Pidcock sta nella consapevolezza di poterli e doverli sfidare, e dunque la capacità di accettare la sconfitta: «Con loro ho imparato a non correre per vincere, ho capito l'importanza del battermi anche per un piazzamento e non soltanto per la vittoria». Oggi che siede allo stesso tavolo dei fenomeni, però, Pidcock vuole giocarsi le carte vincenti, che per un ciclista britannico significa una sola cosa: indossare la maglia che fu della gloriosa Sky.
La formazione di Sir David Brailsford annuncia l'ingaggio di Pidcock alla vigilia dei mondiali di Imola. In uno stringato tweet, i Grenadiers comunicano quattro acquisti di primo piano: insieme al britannico ci sono Daniel Martínez, Laurens De Plus e il ritorno di Richie Porte. Il quinto ingaggio non entra nei comunicati principali, ma la dice lunga sull'investimento fatto su Pidcock: è il DS Kurt Bogaerts. È un passaggio ovvio, quasi scontato, per quanto il vecchio mentore Wiggins avesse sconsigliato Tom dall'intraprendere questa strada. Ma l'uomo del futuro del ciclismo britannico non può vestire una maglia differente da quella della squadra nazionale. Oltretutto Pidcock arriva nel momento più opportuno: la Ineos di oggi non sembra più la Sky di Wiggo. Lo stile di corsa è cambiato, la dimensione Tourcentrica sembra accantonata in nome di un approccio più creativo alle corse lungo tutta la stagione. Brailsford non fa nulla per nascondere la sua eccitazione: «Tom è uno dei corridori più entusiasmanti al mondo: incarna lo spirito di una nuova generazione che è già protagonista in tutte le discipline e ha la vittoria nel sangue».