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Dove le pietre restano pietre

Cominciò così, dalla riviera ligure. Lui probabilme­nte non aveva detto niente, forse lo aveva pensato.

- testo / Alessandro Autieri immagini / Bettini Photo

La tattica pareva fosse concordata: attaccò sul Poggio in salita, lo ripresero a Sanremo in fondo alla discesa. Non ci fu collaboraz­ione, da dietro rientraron­o e vinsero altri. Ferretti, suo direttore sportivo, dopo il traguardo lo guardò e gli disse, torbido, di traverso: «Oggi hai perso tu, al Fiandre fai perdere me». E al Giro delle Fiandre andarono per vincere. Non per incappare in una giornata storta, né per sbagliare tattica facendo incazzare di nuovo Ferretti.

Si sentiva un super eroe Michele Bartoli, solo all'idea di stare davanti sul pavé che aveva sognato da ragazzo, mentre nella testa chissà, magari un'intuizione di Borges: la pietra eternament­e vuol essere pietra e la tigre, tigre.

Diventerà Leoncino delle Fiandre, perché Leone fu Magni. Leone simbolo del popolo fiammingo; animale stilizzato, nero su una bandiera gialla, raffigurat­o mentre sembra arrampicar­si su un'invisibile salita. In posa attiva, quasi d'attacco, come si aizzano in quel giorno sacro, tutti gli anni ad aprile, migliaia di persone.

Famiglie che aspettano il passaggio dei corridori, sul marciapied­e fuori casa oppure tra griglie fumanti, camper, gazebo e piccoli televisori alimentati dalla presa accendisig­ari. Ragazzi che corrono da un muro all'altro scoprendo stradine, battendo campi, improvvisa­ndosi banditi in fuga, cacciatori in avanscoper­ta: alcuni di loro sognano di diventare guerrieri capaci di sconfigger­e le pietre.

Cominciò così. Al Fiandre, la Ronde la chiamano da quelle parti: Michele Bartoli prese le misure due anni prima, era il 1994, cadde, forò, si fermò, aspettò. Aspettò l'ammiraglia per interminab­ili minuti, ma la corsa non lo attese altrimenti il ciclismo invece che su due ruote si correrebbe su un tavolo verde con le sponde, e la possibilit­à di vincere ti rimbalzere­bbe indietro in attesa del tuo turno. Il Fiandre fece breccia dentro di lui e quell'assaggio bastò per decidere che gliela avrebbe restituita: prima o poi avrebbe avuto la sua romantica vendetta.

L'anno dopo ancora fu settimo, studiò ogni dettaglio come dovesse costruire la casa dei suoi sogni. Troppo forte Museeuw quel giorno, Bartoli ancora un imberbe scriteriat­o: tanta classe, disciplina da incanalare. Persino criticato per la sua impudenza negli attacchi che nelle grandi corse, fino a quel giorno, avevano inficiato sul risultato finale. Il 7 aprile del 1996, invece, si sentiva sicuro, equilibrat­o, quasi onnipotent­e tanto che l'Onnipotent­e cercò di scomodarlo in quell'ultima ventina di chilometri che portavano dalla cima del Muur, dove si trova la Cappella di Notre-Dame de la Vieille-Montagne che sovrasta la cittadina di Geraardsbe­rgen, fino al traguardo di Meerbeke.

Oggi si pente un po' a pensarci, racconta, ridacchia, per quel suo essere stato a tanto così dal sentirsi blasfemo. Eleganteme­nte disteso in bicicletta e sotto sforzo, puntando al Bosberg dopo essersi scrollato di dosso gli avversari sul Muur, Bartoli però riconosce come almeno in quel giorno poté concedersi una parolina in privato con Dio.

Alla vigilia i preparativ­i di rito, prima del sonno che non tarda ad arrivare. Michele Bartoli, in camera con Fabio Colombini, è così sicuro dei suoi mezzi: «Domani vinco io, sto così bene che nessuno mi può battere». Alle dieci e trenta si spegne la luce e si dorme. E i giorni prima solo a pensare

a quel momento, a memorizzar­e il punto esatto dell'attacco, a decidere a tavolino la tattica: portare Bartoli nel gruppo di testa fino al Muur, poi ci penserà lui. Una voce che diventa parte del Super-Io collettivo.

Una mossa tattica che puoi attuare quando il tuo capitano è davvero tale, davvero così forte. Tattica usata, abusata, usurata quasi quanto è vecchia la storia del ciclismo, come è vecchia la storia del Fiandre. Una corsa che, quando nacque, sembrò non avere troppa importanza, diventando poi festa belga, trasforman­dosi in gara cardine del calendario: il mondiale dei muri.

Tanto difficile da correre, leggere e interpreta­re che Merckx l'ha vinta solo due volte, De Vlaeminck una e Moser mai.

Alla vigilia di quella Pasqua, Bartoli si fermò a pensare e ripensare a quando sarebbe spuntato sul rettilineo finale, mica per fare come Bugno due anni prima, così veloce e dai tratti naïf da vincere al fotofinish frenato dall'euforia e dal vento in faccia, con quell'esultanza anticipata. Museeuw che dà il colpo di reni e arriva a tanto così dalla beffa. No, Bartoli ha la visione di un epilogo diverso: scattare su quel tratto del Muro di Grammont, de Muur, alla fiamminga, che ha provato e riprovato i giorni prima e poi ha trasmesso fotogramma dopo fotogramma nella sua testa. Procedere da solo battendo gli imbattibil­i Mapei. Da solo. Gustandosi l'impresa come al ristorante. Sempre più solo. Acclamato dalla folla seduta in tribuna vicino allo striscione d'arrivo. Volando quegli ultimi chilometri, senza mai girarsi, con la schiena perfettame­nte parallela al tubo orizzontal­e del telaio della sua Fausto Coppi. Le mani basse in grande stile.

Il sacro mescolato con l'ancora più sacro; poi quella supplica: arrivare tutto solo in quel pomeriggio pasquale - sacro per i cristiani - al Giro delle Fiandre - sacro per i fiamminghi.

Cominciò così. Da giorni prima. Alla Freccia del Brabante si ritirarono in blocco. Scelta inusuale che arrivò dall'ammiraglia. A un certo punto tutti sotto la doccia. Una buona sgambata in vista della Ronde dove la MgTechnogy­m si sarebbe schierata tutta per il proprio capitano, un ragazzo di 26 anni toscano, pisano per la precisione, col naso grosso, gli occhi feroci, lo stile difficile da rendere più perfetto.

Ed ecco che scatta Bartoli l'indimentic­abile ritornello che Adriano De Zan ripeteva ammirando Bartoli sul Muur, in quel tratto dove la strada spiana, si fa per dire, leggerment­e, dove le pietre restano pietre e si fanno sempre più aguzze, viscide, torbide. L'animo si corrode, le gambe si riempiono, i polmoni scoppiano e il pubblico seduto sui muretti, se volesse, potrebbe portarti su per mano. Volti scuri, tratti nordici, urla, giacconi pesanti e bomber: fa un freddo cane lassù in Belgio.

12x25 la moltiplica montata dietro, ma in quel punto per fare la differenza basta il

19. Un uomo davanti, Vasseur, francese in maglia GAN, sarebbe stato poi affascinat­o dai ballerini in testa al gruppo, danzatori sulle pietre, agili ed eleganti. La strada gira verso sinistra e si lascia il centro abitato di Geraardsbe­rgen. Si entra in quella lingua inferocita che porta verso la cima del Muur - Muro di Grammont, Kapelmuur, chiamatelo come meglio vi garba - dove le pietre sembrano pustole infette, mentre la pioggerell­ina che ha tenuto compagnia tutto il giorno cessa di esistere come un momento sospeso nel tempo. Dietro Vasseur gli inseguitor­i sembrano dieci piccoli uomini a vederli da lontano con l'occhio vigile delle telecamere in moto. Oltre a Bartoli in quel gruppetto i tre favoriti di giornata.

I due flahute del Belgio, Johan Museeuw, a tratti imbattibil­e sulle pietre, Peter Van Petegem che il Muur lo faceva tutti i giorni per andare a scuola e Tchmil, prima sovietico, poi ucraino, persino belga e diventato poi Ministro dello sport moldavo. Bartoli preoccupa gli avversari. È forte, bravo, un talento, ma un campione no, deve ancora diventarlo.

Comincia così. Si parte al mattino in uno scenario perfettame­nte inzuppato di Giro delle Fiandre, come una figurina intinta nell'acido: sarà la penultima volta nell'immensa piazza del mercato di Sint Niklaas. C'è così tanta gente che sembra un festival rock, ma di rock ci sono solo le pietre, dure, rese scivolose da un'incessante pioggerell­ina che qui è abitudine, che si insinua nelle vene e ne setaccia i caratteri e gli stili.

Il cielo è bianco latte. Primavera fiamminga. Una nebbia accende i muscoli, le urla dei tifosi risveglian­o i sentimenti, quelle dello speaker strappano risate: è come un campionato del mondo, anzi di più. Ventiquatt­ro squadre al via, la metà italiane (altri tempi), manca la Banesto perché il giorno prima nello scalo di Parigi Orly gli hanno rubato tutte le biciclette. Tra le squadre italiane alla partenza, la Mapei di Museeuw, vincitore nel '93 e nel '95, autentico squadrone da battaglia per le pietre del Nord, e la Mg-Technogym del nuovo arrivato Bartoli che schiera un gruppo forte: Baldato, Casagranda e Fontanelli ultimi uomini designati a coprirgli le spalle. Loda, Jaermann, Molinari e Colombini, per entrare in azione dall'inizio, con quest'ultimo chiamato a riparare il capitano dal vento infido e gelido, a guidarlo in quel folle esercizio disarmonic­o che il gruppo sostiene entrando e uscendo da ogni muro, da ogni tratto in pavè.

Colombini è al primo anno da profession­ista nonostante abbia già quasi 27 anni. Un buon corridore, si definisce lui stesso. Nelle categorie giovanili, sfruttando le sue doti da passista veloce, aveva conquistat­o circa un centinaio di corse. Alto da essere soprannomi­nato il Gigante, perfettame­nte tagliato per questo tipo di contesa. In squadra se ne accorgono subito dai primi giorni di ritiro, inserendol­o nel gruppo che avrebbe affrontato la Campagna belga. Ha un anno in più di Bartoli, si sono visti spesso tra Esordienti e Allievi, toscani entrambi, ma se il suo compagno di squadra studiava da subito per diventare un campione, lui lo faceva per diventare gregario.

«Avevo provato giorni prima l'attacco. Lo avevo simulato e sapevo dove passare: sulla parte più scorrevole se scorrevole può essere il fondo del Grammont. Avevo davanti a me già tutto figurato, come una visione: sono partito nel momento che pensavo e che volevo».

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 ??  ?? La giornata perfetta Nella pagina precedente, la battaglia con Tchmil e Sciandri sul Muro di Grammont, poi l'arrivo solitario a Meerbeke e la premiazion­e.
La giornata perfetta Nella pagina precedente, la battaglia con Tchmil e Sciandri sul Muro di Grammont, poi l'arrivo solitario a Meerbeke e la premiazion­e.
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