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Forma e Sostanza del Nord

La campagna del Nord senza la Roubaix, ma pur sempre uno dei momenti clou del calendario World Tour.

- Foto di Ashley e Jered Gruber

del cielo, degli alberi, dei giochi. Troppo forte anche il richiamo dei genitori. Così: pastore. Non di anime, ma di pecore. Gregge, lana, latte, formaggio, transumanz­e. A ripensarci: il gruppo, la fuga, il cane che faceva la guardia, la pecora che si smarriva. Forse c'era già tutto lì. E da allora, lì, poco, pochissimo è cambiato. Luoghi che sanno ancora di terra e neve, di campagna e montagna, di estate e inverno, di paesaggi e panorami, di solitudine e natura. E di Meo.

Fu una gran fortuna, per me, incontrare chi scoprì Meo: Trento Montanini. Era del 1915. Battezzato Trento, come la città, perché suo padre era liberale e patriottic­o, e i suoi figli voleva impostarli secondo saldi e sani principi nazionalis­tici. Tant'è vero che il secondo figlio si sarebbe chiamato Trieste. E meno male che l'ispirazion­e tricolore si esaurì lì, risparmian­do altri cinque figli maschi e una figlia femmina. Trento – con quel nome così originale, non si sente il bisogno di specificar­e il cognome -, quinta elementare anche lui, ma altra tempra, altra categoria: se avesse corso in bicicletta, sarebbe stato uno scalatore, così leggero e svelto, insomma aeronautic­o, invece lettore dei contatore nel settore dell'energia elettrica, prima in bicicletta e poi in Lambretta. Ma del ciclismo, fin dall'inizio, Trento sapeva tutto. Sapeva anche di quel Giuseppe Mazzini, come il filosofo e politico che partecipò alla fondazione dello stato italiano, ma muratore, Peppino per gli amici, che prese il via al Giro d'Italia del 1928, senza squadra, ma da isolato, correva mangiava e dormiva arrangiand­osi, le prime due tappe le concluse, prima della terza spedì un telegramma a casa implorando mandatemi cento lire che torno a casa, i paesani organizzar­ono immediatam­ente una colletta, gli mandarono i soldi, e lui tornò. E quando tornò, venne accolto quasi come un eroe. Gli domandaron­o: E Binda? Povero Peppino, non doveva avere mai visto la testa del gruppo. Infatti rispose: Mi hanno detto che c’era.

Di Meo, Trento raccontava la prima volta: «Un giorno al bar arrivò Ciocco. Tutti lo chiamavano così, Ciocco, perché vendeva il cioccolato. E Ciocco raccontò di avere visto un ragazzo magro e secco, ma fortissimo, fortissimo anche se, come bicicletta, aveva un baraccone. Così gli demmo un'altra bici, rimediata con un pezzo qua e un pezzo là, e con quella bici gli regalammo una opportunit­à». Giorno dopo giorno, corsa dopo corsa, Trento, e non solo lui, ma l'intera Pavullo, e l'intero Frignano, e l'intero Modenese, si sarebbero accorti che quel regalo e quella opportunit­à erano soprattutt­o per loro. Un modo per sognare, in grande.

Povero Meo. Povero neanche tanto. In fondo se l'era goduta. Anche al Gran premio di Larciano, circuito di 120 chilometri a ingaggio, ingresso a pagamento, 30 corridori alla partenza. Era il 21 settembre 1970. Tre amici – Piero Pieratti, Eligio Bove e Alessandro Tommasi - decisero di andarci: pullman, e via. Arrivarono per tempo, anzi, con tutto il tempo di godersi l'attesa girando per le strade di Larciano in cerca dei corridori. Un'impresa disperata: i corridori erano tutti in bici a scaldarsi. Tutti tranne uno. Era lì vicino alla partenza, seduto a un tavolino del Bar Centrale. E non era da solo: di fronte a lui una ragazza, bellissima, con la fascia da miss. Quel corridore stava mangiando, oltre a lei con gli occhi, anche un gelato.

Se lo stava proprio gustando. Sarà un amatore, si dissero i tre amici. Per controllar­e, si avvicinaro­no e scoprirono che non era un amatore, ma un vero corridore. Meo.

E chi altro?

Quel Gran premio di Larciano fu vinto da Franco Bitossi. Di Romeo Venturelli, sull'ordine d'arrivo, nessuna traccia. Della miss, sul podio per le premiazion­i, neanche.

 ??  ?? Giro d'Italia 1960 Quinta tappa, la Pescara-Rieti, Meo abbandona la corsa per dolori alla pancia. Il patron della corsa, Giuseppe Ambrosini, pregò Meo di tornare in sella. Meo, per dissuaderl­o, gettò la bici in un fossato.
Giro d'Italia 1960 Quinta tappa, la Pescara-Rieti, Meo abbandona la corsa per dolori alla pancia. Il patron della corsa, Giuseppe Ambrosini, pregò Meo di tornare in sella. Meo, per dissuaderl­o, gettò la bici in un fossato.
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