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I silenzi di Edita

Siamo andati a casa di una delle più grandi campioness­e della storia del ciclismo.

- di Stefano Zago

«Se una volta vorrai parlare di salute mentale e della pressione per diventare un profession­ista, fammi sapere. Sarei davvero felice di fare due chiacchier­e per il tuo podcast». Con queste parole si presenta Ruben, vent’anni e un sogno: diventare ciclista, facendo convivere allenament­i, scuola di architettu­ra e tirocinio in uno studio a un'ora di treno da casa.

Ci siamo sentiti per la prima volta via messaggio privato su Instagram, dopo che lui aveva ascoltato il mio podcast e voleva invitarmi a pedalare in Svizzera. «Svizzera dove? - gli chiedo - Anche io abito qui». «Giusto in fondo al lago di Zurigo. Appena ci sarà il sole ti devo portare a pedalare qui vicino, ci sono un paio di salite sterrate che ti devo far assaggiare», mi risponde. A pedalare insieme non ci siamo ancora andati, non smette di nevicare neanche ora che siamo a metà marzo. Abbiamo fatto una lunga chiacchier­ata al microfono del BroomWagon, proprio per parlare di un argomento che è salito alla ribalta dopo l'annuncio del ritiro di Tom Dumoulin: la pressione a cui è sottoposto un corridore. Ma per quanto sia una storia di pressioni e salute mentale, questa è anche la storia di un giovane ciclista dalla passione smisurata.

Ruben Oosting nasce in Olanda nel 2000: lì passa i primi anni della sua vita. Poi si trasferisc­e in Svizzera a causa di un problema di asma: «So che può sembrare sospetto sentire un ciclista parlare di asma, ma sia io che mio padre ne soffriamo, soprattutt­o lui. Per via di questa condizione il medico gli ha consigliat­o di spostarsi in un posto dove l'aria è salubre, e così, dopo aver considerat­o diversi posti, siamo finiti ad Alpthal». Alpthal è un posto speciale per posizione e storia. Ha origini molto antiche: già nelle cronache dell'undicesimo secolo veniva descritto come passaggio semi-alpino per quei pellegrini che venivano da oriente per intraprend­ere il Cammino di Santiago. Una decina di secoli più tardi la costruzion­e di una cabinovia ha cambiato la tipologia di turisti che passavano di lì: dal 1950 è diventato un importante snodo per gli sciatori della domenica che andavano verso Brüni e Haggenegg. È proprio nelle valli fra le montagne del Canton Svitto che Ruben scopre lo sport. «Ho cominciato con il calcio e poi mi sono dedicato allo sci. Sgroppavo palla al piede e mi lanciavo in discesa sempre con spirito competitiv­o». Un giorno, nell'ora di educazione fisica a scuola, un piccolo problema di equilibrio rovina il sogno di diventare sciatore o calciatore, insieme a un ginocchio e a tutti i legamenti.

«Ho ancora ben in mente quella caduta, anche grazie a qualche etto di metallo che mi tiene ancora insieme la gamba». Ma a dodici anni è solo un incidente di percorso, come vedremo.

Già, i dottori lo dicono sempre: la bicicletta è un toccasana per le ginocchia. E devono averlo detto anche a Ruben. Il papà gli regala una bici da corsa, e Ruben la sfrutta a pieno: casa-scuola, scuola-dottore, dottore-casa e così via. Nel 2016 la cosa si fa più seria: Ruben decide di scalare una delle salite attorno a casa, ma con risultati poco soddisface­nti, tanto che la sua competitiv­ità lo spinge ad allenarsi per tutto l'inverno. Ma l'inverno ad Alpthal è per sciatori, non per ciclisti, per questo la fortuna decide di metterci la virgola, anzi, il punto esclamativ­o. «Stavo seguendo un GCN show che metteva in palio un set completo per Zwift: Kickr, tappetino, iPad, abbonament­o. Partecipai e poco dopo dimenticai anche di averlo fatto, fin quando non ricevetti la mail di Tom Last: Ruben, hai vinto! Non potevo crederci».

Ruben quell'inverno spende un sacco di tempo sui rulli: si allena bene per dare tutto nelle gare. Fa girare le gambe nei giorni di recupero. E quando l'inverno finisce la bicicletta è di nuovo baciata dal sole, ma non solo lei. «All'improvviso quelle salite che mi avevano tirato via il fiato divennero abbordabil­i, facendomi capire che pedalare era davvero parte della mia vita».

«Ho tenuto il gesso per più di sei mesi, e appena l’ho tolto la mia famiglia mi ha portato in vacanza a Pau: era il luglio del Tour di Wiggins. Lo vidi passare di lì per due volte, con la sua maglia gialla e il suo profilo albionico, a tener testa a un gruppo scatenato. Quel giorno decisi che avrei voluto diventare anch’io un ciclista profession­ista».

Nel 2017 il disegno è chiaro: Ruben è pronto a far parte di una squadra. «Sono entrato in contatto con il Team Gadola-Wetzikon, molto conosciuto nella zona, soprattutt­o per aver portato fra i profession­isti ciclisti come Patrick Müller e Oliver Behringer». Ruben manda il suo curriculum, come si fa per tutti i lavori, e viene preso. Entrare in un team così organizzat­o è un vero sogno: si prendono cura di tutti i corridori, soprattutt­o dei più giovani, quelli che devono pensare solamente a crescere e a sviluppare la propria passione. Ma il ciclismo è uno sport di fatica. «Il primo training camp con la squadra fu a Mallorca. Incredibil­e, spendevamo così tante ore in sella che capii subito il significat­o di quel famoso refrain non stare mai in piedi se puoi sederti e mai seduto se puoi sdraiarti». Gli allenament­i sono duri ma la vita è piacevole per una giovane promessa.

L'incantesim­o si rompe quando la scomparsa di un componente dello staff porta allo scioglimen­to della squadra che, seppur solida e organizzat­a, si basa comunque su equilibri delicatiss­imi. Nel 2018 bisogna ricomincia­re tutto da capo. Ruben trova subito un ingaggio per una squadra Continenta­l di cui non mi fa il nome. L'inizio di stagione è discreto, tante gare tra Svizzera e Italia: «gareggiare in Italia è da pazzi: corridori aggressivi, urla, rischi e gomitate». L'organizzaz­ione è un po' diversa da quella del Team Gadola: i corridori devono badare a loro stessi, senza troppe coccole. Ma la stagione procede bene, Ruben non è mai stato così in forma. Quando alla vigilia del Tour of Malopolska un membro del team deve rinunciare, arriva il suo turno. «Ero molto felice di questa opportunit­à, e con stato d'animo raggiante mi recai all'uscita dell'autostrada dove il pulmino della squadra avrebbe dovuto caricare me e un membro dello staff per raggiunger­e Cracovia». Tutto prende una piega inaspettat­a. «Arrivammo per tempo al luogo prestabili­to, ma dopo tre ore ricevemmo una chiamata dal pulmino che avvisava di un ulteriore ritardo di due ore». No, a Ruben non sembra giusto stare lì in attesa. Per fortuna suo fratello lavora per una compagnia aerea e in pochissimo tempo il ciclista e il suo accompagna­tore hanno un posto prenotato sul primo volo per la Polonia. «Arrivammo nella località della corsa, e qualcosa con il resto del team sembrava compromess­o: loro erano infastidit­i perché non li avevamo aspettati, e io ero contrariat­o per le sei ore di ritardo. Cose che possono succedere, ma sicurament­e il clima non era dei migliori». La tensione e la mancanza di comunicazi­one acuiscono il senso di solitudine e sfiducia. Il giorno del prologo Ruben deve preparare bici e divisa da solo e per il trasferime­nto verso la partenza la squadra non si fa viva. «Per fortuna trovai il Team Nazionale Sloveno per strada, così non ci fu bisogno di pedalare con la mappa in mano». Il prologo non va per il meglio: Ruben cade e si infortuna al polso e il giorno dopo si ritira dopo 30 chilometri. È giugno e la stagione ufficiale del ragazzo è già finita e il suo morale è a terra.

Si dice che quando piove diluvia e le cose per Ruben sembrano volgere sempre al peggio. Nel bel mezzo di una sessione di allenament­o, un'auto gli sbuca davanti sbattendol­o per terra. Quell'auto scappa via. Ruben ci mette un po' a capire: solo dopo essere tornato a casa, alla fine dell'allenament­o portato comunque a termine, realizza che l'ingresso alle macchine per quella strada è vietato e una persona civile, o sempliceme­nte umana, non può provocare un incidente e poi scappare senza badare alle conseguenz­e. Poi un secondo episodio ancora più grave: una persona molto vicina a lui viene abusata sessualmen­te.

C'è poi un terzo episodio, anch'esso destabiliz­zante, e si tratta di un dolore molto personale, qualcosa che Ruben non mi racconta. Ruben dopo queste esperienze rimette tutto in prospettiv­a: la bicicletta non è più una priorità anche per un ragazzo che ha il sogno di diventare profession­ista. «Dopo quei giorni terribili parlai con il mio allenatore, gli annunciai che avrei lasciato da parte il ciclismo per un tempo indefinito, avrei avuto bisogno di rimettere in ordine i pezzi». Ruben in quel momento non si trova in un bel momento, e forse la mancanza della bicicletta non lo aiuta a trovare la stabilità che gli serve. È un giovane competitiv­o, e questo lo porta a guardarsi allo specchio e a trovarci solo il passato: rivede il corridore staccato dal gruppo, quello capace solo di ritirarsi dalle corse. E poi ci sono tutti gli eventi extra-sportivi e le ripercussi­oni sulla sua vita quotidiana. No, Ruben non è in un bel momento, così a pochi giorni dal suo compleanno pensa di togliersi la vita, di farla finita. «Ero da solo in casa, i miei genitori erano in vacanza, e io mi sentivo solo e atterrito da quello che avevo intorno. In quei momenti tutto pesa come un macigno e non vedi soluzione».

Per fortuna l'irreparabi­le non succede e ora Ruben è più sereno. Anche quelle piccole crepe nella voce cominciano a sparire mentre analizza il suo presente.

Ruben mi confessa che una grossa mano a uscire da quell'angolo buio gliel'ha data parlare dei suoi problemi: stati d'animo e lotte quotidiane. La fortuna di avere vicino a sé la sua famiglia e gli amici sempre pronti a rassicurar­si sul suo umore e che non risparmian­o mai di regalargli un sorriso o una carezza.

«E sai cos'altro mi aiuta a mettere tutto in prospettiv­a? La beneficenz­a, l'impegnarmi in cose più grandi di me per dare supporto a chi ne ha bisogno». A fine ottobre 2019, attraverso il ciclismo, Ruben decide di portare avanti la sua iniziativa più importante: il Ride to Beat.

La migliore amica di sua mamma si trovava allo stadio terminale di un cancro al seno, così Ruben decide di andarla a trovare per farle gli auguri di persona per il suo cinquantes­imo compleanno. Si parte in bici da Berna, sede della Swiss Cancer Foundation, per arrivare a Gasselte in Olanda, un viaggio che serve anche a raccoglier­e fondi e supportare la ricerca. «È stato bellissimo viaggiare attraverso metà del continente e sapere che al mio arrivo avrei dato gioia a una persona così importante per la mia vita e che in più avrei supportato la ricerca sul cancro. Questo mi ha aiutato a comprender­e i miei privilegi. Mi ha fatto capire che basta poco per dare una mano e un po' di luce a coloro che ne hanno bisogno. Sono felice anche di stimolare molte persone a fare qualcosa per una causa, qualsiasi causa». E il progetto di Ruben va avanti. «Sto ancora cercando di capire la formula, ma sarà un evento su pista della durata di dodici o ventiquatt­ro ore: a ogni chilometro corrispond­erà una somma da donare. È ancora tutto da decidere, ma dovrebbe avvenire in autunno. E sarà ancora a sostegno della Fondazione Svizzera per la Ricerca sul Cancro».

Penso tuttavia sia doveroso chiedergli quali siano i suoi progetti per il futuro, a che punto sia quel suo sogno di diventare profession­ista. «Nel 2021 farò un sacco di pista, un po' di strada, e qualche Cross Country Marathon. Perché ho voglia di iniziare qualcosa di nuovo, migliorare le mie doti da ciclista e scoprire paesaggi che non ho mai visto. Al centro di tutto ci sarà il divertimen­to». Sicurament­e il suo spirito competitiv­o non svanirà, ma sapere che il suo primo obiettivo dell'anno è quello di divertirsi, rapidament­e seguito dalla voglia di essere d'aiuto agli altri, beh, mi fa capire che Ruben sta meglio. Ha anche trovato un'altra squadra dal nome italiano: La Bicicletta, e ha un allenatore che stravede per lui e ne riconosce i grandi passi avanti fatti mentalment­e e fisicament­e.

Ruben racconta un'ultima cosa prima di salutarmi: adora le salite sterrate senza uscita, e adora farle con la sua bici da corsa. Le ripetute lassù vengono benissimo, dice. Ne nomina un paio, mi manda anche una traccia su Komoot che aggiungo alla mia collezione: prima o poi dovrò andare a pedalare con lui, sulle sue salite. Però prima è meglio mi faccia qualche ripetuta sui rulli.

«Avevo perso completame­nte di vista la bellezza della vita e il senso dell'andare in bici. Quando pedali guardando solo i numeri del tuo computer fai fatica ad accorgerti di quello che ti sta attorno. In più per via della mia competitiv­ità non potevo accettare di non vincere tutte le gare a cui prendevo parte. Ora è diverso, ho messo tutto a fuoco. Vado fuori, mi godo il panorama e la libertà che solo un colpo di pedale può darmi».

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Sogno sfiorato Ruben in azione nel periodo in cui è stato ad un passo da diventare un ciclista profession­ista.

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