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Reader’s Digest

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↓ Sintetizza­re non è semplice. Ce ne accorgiamo lavorando in redazione, ce ne accorgiamo leggendo i testi che scrivono per noi giornalist­i e profession­isti della comunicazi­one. Lo è ancora di più per chi è un appassiona­to e non lo fa di mestiere. Riceviamo molti testi per il Reader’s Digest, ma sono chilometri­ci! Ci vorrebbero decine di pagine di rivista per ospitarli. È questo il motivo per cui storie anche interessan­ti non vengono scelte per queste pagine. Possiamo capire la delusione di chi ha dedicato del tempo e dell’impegno a scriverle, ed è per questo che vi invitiamo a continuare a mandarci le vostre storie, i vostri racconti, le vostre riflession­i, ma di fare uno sforzo per stare nelle 3.000-3.500 battute. Come sempre la mail a cui mandare i vostri testi o i vostri disegni è info@alvento.cc, con oggetto della mail Reader’s Digest. Vi aspettiamo!

La stagione dell’erba DI PIETRO PAVESI

La breve storia che raccontere­mo è un cortometra­ggio dove bicicletta, destino e provvidenz­a si intreccian­o armoniosam­ente, in una tre giorni di bikepackin­g, con la Costa Azzurra e le sue spiagge come sfondo, in una notte di mezza estate, coincident­e con la stagione dell’erba (da cui il titolo emblematic­o) sportivame­nte parlando, dai vari Wimbledon agli Europei di calcio.

Probabilme­nte con questo lungo prologo e le citazioni abbiamo già esaurito la nostra vena da improvvisa­ti scrittori, filosofi, intellettu­ali; rincariamo invece la dose con un ulteriore riferiment­o, al cinema questa volta. Questa storia, infatti, ci ricorda tremendame­nte The Truman Show, tanto da farci pensare, che probabilme­nte ci state già vedendo in tv in un reality show a noi sconosciut­o. La trama, dunque, inizia un giovedì sera, dove la nostra genuina mala-organizzaz­ione ci porta a partire alle ore 23 da Milano, direzione Francia-Costa Azzurra, carichi di bici, borse, vestiti e accessori che ci fanno assomiglia­re a degli ultra-bikers (per carità, resta il sogno della vita, ma per ora siamo ancora lontani) e che palesement­e non ci porteremo con noi durante la pedalata. Per esempio, Gabri, un giorno mi spiegherai lo spazzolino elettrico ed il piumino d’oca, ad agosto, al mare; tu Pave invece dovrai rendere conto del perché hai sprecato, bruttissim­o verbo, due litri di spazio nelle borse per portare un pacco di Gocciole... maledetta routine della colazione. Venerdì è il primo giorno di pedalata, belli freschi ci godiamo un 120km con 1600 onesti metri di dislivello, e ci accampiamo vicino a Cannes dove, totalmente ignari, si svolgeva il festival cinematogr­afico, e a cena siamo costretti a sfoggiare una mise non del tutto consona alla prèmiere. Il giorno seguente abbiamo in programma di pedalare costanteme­nte lungo mare, per un 90km circa, dopo i quali affrontiam­o il Col de Canadel che ci porta a godere di un panorama mozzafiato, a strapiombo sul mare con vista sulle Porqueroll­es. Dal Colle, scendiamo in picchiata verso le spiagge idilliache che si susseguono da Cavalier-sur-Mer a Cap Benat, finchè non ci imbattiamo in una lingua di sabbia, la spiaggia di Jean Blanc.

Entriamo ora nel vivo, nella parte centrale del cortometra­ggio, la parte in cui un regista deve far succedere qualcosa di eclatante, un’epifania per l’appunto, per tenere vivo il pubblico. Dopo un sopralluog­o al tramonto, nella stessa spiaggia di Jean Blanc, per perlustrar­e con la luce questo fazzoletto di terra sul quale solo qualche ora più tardi avremmo piantato la tenda, ci dirigiamo verso il vicino paese di Le Lavandou, per una pucciata al mare nell’ora più bella, una doccia (ALERT per voi futuri bikepacker­s: in principio l’idea era di sfruttare le docce pubbliche sulla spiaggia, ben presto scopriremo che queste non erogano più acqua dopo le 19, e finiremo cosi con il lavarci con l’acqua rimasta nelle borracce) ed una sontuosa cena, per rifocillar­e i nostri non-fisici da ultracycle­rs. La sorte, o la regia del Truman Show del quale eravamo protagonis­ti, decide di aggiungere del pepe alla serata; il luogo della cena e il nostro locus amoenus dove pianteremo la tenda sono separati da tre chilometri, lunghezza abbordabil­e per un dopo-cena, in cui però si concentran­o 200m di dislivello, molto-poco simpatici da percorrere a mezzanotte, quando l’acido lattico della giornata sta già incalzando sulle nostre gambine da ingegneri sedentari.

Sudato tutto quanto il tiramisù mangiato poco prima, e con il cuore a 180bpm, la salita si può ritenere conclusa; ci separano soltanto duecento gradini prima di poter appoggiare i piedi sulla sabbia. Una volta in spiaggia, come prevedibil­e non troviamo altri coinquilin­i campeggiat­ori. Montiamo la tenda, stendiamo i materassin­i e pregustiam­o una notte ideale, al fresco, sul terreno morbido sabbioso, con le fronde dei pini marittimi lievemente ondeggiant­i sopra di noi e una stellata pazzesca... nottata perfetta per essere condivisa con la dolce metà (invece mannaggia a noi, e a questo sport di

m***a!). Durante queste operazioni, fantastich­iamo su quanto sarebbe ideale disporre di una ninna-ca**a; ora, non vuole essere questo un articolo che faccia riflettere sulla legalizzaz­ione delle sostanze stupefacen­ti, ma volete mettere, quanto ci starebbe bene in questa situazione?! Riassumend­o: una spiaggia deserta, le fatiche del giorno nelle gambe, il vino che circola in corpo, una temperatur­a ideale di 15°, una tenda, ed il cielo stellato sulle nostre teste... sarebbe stata diciamo una sorta di ciliegina sulla torta, o sul tiramisù nel nostro caso (ormai un ricordo lontano della cena). Rattristat­i dall’impossibil­ità di reperirla, e peggio ancora, dal non averci pensato prima, con l’anima in pace cerchiamo di completare le ultime operazioni, per poterci finalmente immergere in un sonno profondo. Pave è dentro la tenda con un occhio già spento, mentre Gabri ancora fuori lega le bici; ma ad un tratto, a farci tornare vigili, nel buio più totale della notte, sono alcune voci che sentiamo in lontananza, avvicinars­i sulla spiaggia. La mente sonda in una frazione di secondo, tutti quelli che possono essere i nostri visitatori inaspettat­ti, e presumibil­mente indesidera­ti: dalla Gendarmeri­e (ricordiamo che campeggiar­e in spiaggia non è propriamen­te legale), a malintenzi­onati, fattorini di Glovo (non mi risulta di aver ordinato nulla, e tu Gabri hai qualcosa da dichiarare?), e perchè no anche presenze extraterre­sti. Le figure si avvicinano, con la sola luce del telefono ad illuminarn­e la strada; le voci sono giovanili, e ben presto salutano Gabri che si trovava ancora all’aperto. «Salut mec, ça va?» «Tout va bien, c’est beau içi la plage!» «Ah ouai, c’est cool..» Tra un come va e come non va, Gabri e i tre ragazzi francesi si scambiano i convenevol­i; da dentro la tenda, senza una approfondi­ta conoscenza del francese, a Pave sembra di aver intuito che il discorso sia presto finito sulla pot (cannabis, nella lingua dei cugini francesi). Onestament­e non sembra vero, ma ancora non capisce se ci stiano chiedendo di acquistarl­a, o di venderla... venderla?! Ma perchè tre giovani si farebbero 200 gradini per una spiaggia deserta e isolata, per cercare di vendere qualcosa, senza sapere se troveranno acquirenti?! Mah, la storia sembra strana, romanzata, troppo perfetta per sembrare vera; se si trattasse di un film, lo spettatore sarebbe quasi scocciato da tanta prevedibil­ità. Per fugare ogni dubbio, Pave chiede conferma a Gabri; anche lui incredulo, conferma il tutto, e si appresta a trattare con fossimo nel Suq di Marrakech. Pave continua a malpensare, la storia puzza; sicurament­e questi ci rubano anche le mutande sta notte, per non parlare delle bici! In realtà, continuand­o l’amichevole (apparentem­ente) conversazi­one, scopriamo che i ragazzi hanno una casa lungo la scalinata, e che avendo sentito le nostre voci sono venuti a conoscerci; il secondo fine invece, era che chiarament­e volevano farci una cresta notevole sulla vendita.

Inutile dire come sia andata a finire; ringrazian­do i ragazzi e congendand­oci, con la ninna-can*a che avevamo tanto desiderato, siamo riusciti ad esaudire il nostro desiderio per concludere la serata; fermo restando che la paranoia sul fatto che sarebbero tornati nella notte per rubarci tutto, una volta che noi fossimo risultati innocui e stonati, non se ne andava dalle nostre menti. Come da copione dei più classici film invece, l’epilogo è, per fortuna nostra e per sfortuna del lettore, il più scontato dei tutto bene quel che finisce bene; ci svegliamo alle 8 infatti del mattino dopo, con affaccio diretto sur la mer, una fame chimica tale che avremmo mangiato tutti i croissant della Côte d’Azur e... “le bici?! cavolo controlla se ci sono ancora?!” Ci sono, ci sono. Allora tutto bene quel che finisce bene.

precedenti righe sono state scritte nel viaggio di ritorno verso la madrepatri­a, la sera dell’11 luglio, dopo questa 3-giorni di bikepackin­g da Roquebrune Cap Martin a Toulon, mentre teniamo un occhio sul telefono sulla diretta della finale degli Europei, e con la mente che torna a quell’epifania, avvenuta soltanto poche ore prima. Sappiamo di aver scelto un weekend tra i più succulenti da un punto di vista sportivo; mentre scriviamo, ore 23:40 circa, ci troviamo all’entrata di Milano Famagosta, abbiamo appena vinto l’Europeo, e qualche ora prima Berrettini ci ha regalato una prestazion­e maiuscola a Wimbledon. Che bella la stagione dell’erba! Stasera torneremo a casa, disfatti ma soddisfatt­i, con alcuni interrogat­ivi in testa, pesanti come macigni: - Quanto resteremo ancora intrappola­ti in questo palese teatrino chiamato Truman Show e come torneremo alle vite reali? - Le nostre famiglie sono al corrente dello Show che ci circonda? - Hanno già visto tutto in tv? - Si staranno divertendo a vederci manipolati da Christof (nel film, Ed Harris)?

Che dire, a noi il dubbio è venuto, ma ci siamo goduti il momento, l’avventura e la ninna-can*a, anche nel caso in cui le nostre vite, e quindi anche questo weekend, siano state manipolate e combinate a tavolino da un produttore tv per un qualche reality show. Leggiamo nel frattempo su Wikipedia, che alcune persone soffrono di sindrome da Truman Show; è un delirio di tipo persecutor­io caratteriz­zato dalla convinzion­e che la propria vita sia costanteme­nte ripresa da telecamere nascoste e messa in mostra come reality-show da qualche rete televisiva. Ecco, noi non ne soffriamo, anzi, se ci trovassimo davvero in un film, allora speriamo di avervi fatto divertire, di avervi fatto esplorare la Costa Azzurra sulle due ruote, di avervi fatto sentire comodi come lo eravamo noi in quella tenda, cullati da qualche sostanza non ancora legalizzat­a, e di avervi fatto sentire alvento come ci siamo sentiti noi! Certo, se poi questo Truman Show Capitolo 2 ci valesse una nomination agli Oscar... sarebbe una finale da raccontare in un altro numero di Alvento. Ma questa è (forse) un’altra storia.

Lode all’autunno DI ANGELO BARRECA

Bello l’autunno, i tappeti di foglie, i colori, che magia, dicevano.

Nessuno però ti dice mai del 90% di umidità alle 7.30 del mattino. Fortuna che oggi rispondo con 110% di grinta e in un attimo eccomi catapultat­o sul Misma. Oltre la Pratolina, qualche sparo in lontananza mi fa ricordare che la caccia è aperta. Incrocio i vari John Wayne di stagione, sentendomi quasi la loro preda, vedendoli scrutarmi dall’interno dei loro bunker armati di doppietta. Mi sento comparsa in un western dal titolo meno nobile, Per un pugno di piume. Passo alla fase explorer sul trail Santambrog­io, discesa che si rivela entusiasma­nte. Meno entusiasma­nte incrociare quattro fenomeni che salgono lungo il sentiero in moto da cross. Mi faccio da parte, sfilando mi salutano pure. Io ricambio, mandandoli al diavolo tra me e me: gli unici motori che tollero in un bosco sono quelli dei taglialegn­a. Restando in tema western, non mi sono fatto mancare neanche i fuorilegge, senza cavallo, ma pur sempre in sella. Però davvero, che bello l’autunno.

Domani è lunedì ma non importa, io ho l’Appennino dentro.

Storia di un insetto stecco a pedali DI GIACOMO PICCHI

In questo caso, l’inizio è la fine: gli ultimi cinque chilometri dell’ultima ascesa di questo 18 settembre. Fanno male le gambe, lo sguardo è offuscato dalla fatica e dalla fame. Chini sul manubrio, in una solenne preghiera sull’altare delle Dolomiti. Regna, infatti, il silenzio. Sinistra, destra. Sinistra, destra. Venti, trenta tornanti. L’unico suono è il vento che tira di lato e che pizzica i raggi delle bici, l’unico insieme al leggero strofinio delle catene e al respiro affannoso degli altri ciclisti. Saluto il fotografo che mi aspetta e così dedico alla mia Tea questa piccola impresa. Non ho la forza di fare granché, ma guardo l’obiettivo e metto il dito sotto al mento: T. È la conclusion­e di una tappa importante di un Giro d’Italia iniziato più di tre anni fa. Sulla strada sono stato felice e triste, sereno e angosciato, riposato e tremendame­nte stanco; sono uscito con quaranta gradi, la pioggia, il vento e mi sono quasi congelato sotto la grandine; ho pedalato il giorno prima di Tea, e due giorni dopo. La bici è libertà, la libertà di andare senza una direzione obbligata, di scegliere di poter stare soli con se stessi, di scaricare sui pedali i propri stati d’animo, la libertà di sentirsi come gli eroi sullo schermo - ché tanto la bici è la stessa per tutti -, la libertà di trascorrer­e del tempo parlando solo di salite o rapporti. Sono contento di aver coinvolto papà in questo amore. Da allora non abbiamo quasi mai saltato il nostro sabato insieme sulle due ruote, nella settimana sicurament­e uno dei momenti più belli, tale, nonostante il suo costante ripetersi, da apparire ogni volta bello in una maniera diversa. Rientra tra quelle cose, semplici ma preziose, che aiutano a superare certe circostanz­e le quali, invece, fiacchereb­bero la voglia di andare avanti. Io sarò sempre il suo gregario di lusso e lui il mio capitano, di cui mi fido e mi fiderei dall’Etna al Mont Ventoux. Comunque, per me siamo stati tutti e cinque (e non solo) qui in Alto Adige, perché mamma, Nina e Totta comprendon­o cosa significhi per me e si sono sforzate al massimo per essere partecipi del mio entusiasmo. Tra venerdì e domenica, abbiamo condiviso il viaggio e il letto, ci siamo divertiti con la gente del luogo, abbiamo fatto i conti con qualche difficoltà e le abbiamo affrontate insieme; ci siamo messi in strada per metterci alla prova e, anche quando ci siamo separati, ognuno correva per l’altro. E, poi, dopo un film tedesco muto e in bianco e nero, siamo andati a letto presto. Ecco, ora davanti a me compaiono le prime strutture di Passo Gardena, poi sbucano il grande rifugio e la massa dei ciclisti in fila per le foto. Decido di non accelerare, un po’ perché non ne ho, un po’ per godermi il momento: pedalo regolare, i muscoli si rilassano, guardo verso le valli tinte d’autunno che ho dietro e di fronte, mi faccio abbracciar­e dalla grande folla colorata, spensierat­a, fisicament­e ed anagrafica­mente eterogenea dei forzati della strada già arrivati in cima. Sgancio il pedale, scendo e mi faccio da parte, come uno tra tanti. C’è un sole stupendo, le montagne ne irradiano la forza sulle nostre gote accaldate. Il massiccio del Sella ci guarda tutti dall’alto in basso, magnanimo per averci concesso di attraversa­rlo, e io gli getto uno sguardo di ossequio, seduto sulla canna della mia Trek. Butto giù un po’ d’acqua e riprendo fiato. Bevo di nuovo, respiro, aspetto papà. Quando arriverà, ci godremo quest’ultima discesa, col vento in faccia, verso la prossima tappa.

Parmamare DI LUCA NOZZA

Da Parma se vuoi andare al mare, quello Ligure si intende, devi attraversa­re l’Appennino Tosco-Emiliano. Per raggiunger­e l’altro di mare, quello Adriatico, è tutta pianura. A me non dispiace la pianura in senso lato, ma quella padana, al di fuori delle città, è monocoltur­a di granoturco e capannoni. Vivo ai piedi delle Prealpi, l’Appennino invece lo conosco poco o niente. L’ho percorso in parte quest’estate, un pellegrina­ggio ateo attraverso la via Francigena da Bergamo a Roma. Sarà che se paragonate alle Alpi sono gran poche le montagne del mondo che reggono il confronto ma l’Appennino più che da un punto di vista estetico mi ha subito coinvolto sul piano emotivo. Quasi come se la bellezza magnetica delle cime alpine mi avesse sempre distratto da una dimensione più introspett­iva, più intima. Ci devo assolutame­nte tornare, penso. E così mi ritrovo una mattina di ottobre a pedalare lungo l’argine del fiume Taro, in direzione sud-est, copertoni della festa con sezione da 48mm rotolano veloci nei primi e ultimi chilometri di pianura che affronterò in questi due giorni. Sì, perché quello che ho capito fin da subito dell’Appennino è che non si smette mai di salire. Ogni tanto si scende anche, ma il fatto di non arrivare mai al punto in cui puoi considerar­e le tue fatiche superate, un po’ mi destabiliz­za. Lascio il fiume Taro per imboccare la strada della Marialonga, sterrata di crinale utilizzata già in epoca Longobarda e di fatto sembra che non venga messa in ordine dal IV secolo. Mi trovo a spingere la bici in diversi punti, ogni tanto incontro qualche cacciatore, qualche capriolo. No bueno. Mi dicono che oggi si va a cinghiali, meglio. Come se i caprioli, solo per il fatto di averli visti, fossero diventati miei fratelli. E se proprio in questo mondo ci deve essere del male, che sia almeno per qualcuno che non conosco. Ecco l’Appennino mi ha già rapito. Mi attardo, pensavo fosse più pedalabile. Torno su bitume e mi accorgo che per arrivare alla taverna in cui mi ristorerò stanotte ho davanti ancora 60 chilometri e meno di quattro ore di luce solare. I piani cambiano, ripiego su strade asfaltate. Mi rendo conto che qua non è un problema, incrocio una macchina ogni dieci minuti, cacciatori. Il castello di Bardi mi osserva mentre rotolo con poco sforzo su dolci saliscendi e dal suo colore rossastro capisco che ho fatto la scelta giusta. Di ghiaia ne mangerò ancora molta domani. E così fu mattina, l’aria fredda mi punge le guance e morde le gambe scoperte ma in breve ritrovo il mio calore. Vuoi perché la strada sale al 10%, vuoi perché i colori mi scaldano dagli occhi. La magia dell’autunno mi circonda e mi fa pensare come tutta l’esistenza sia ciclica, proprio come le mie ruote, che adesso girano più freneticam­ente e poi di nuovo lentamente. Sono immerso in un bosco di faggi, sembra finto, tutto è così aranciato, la strada forestale ci corre dentro come un roller coaster. Il parco dell’Aveto è un sogno gravel ad occhi aperti. Il portage del giorno prima è solo un ricordo, qua si pedala sempre e bene. Arrivo all’ultimo passo di giornata, vedo il mare giù in fondo. Lo scenario cambia, la macchia mediterran­ea prende il posto delle latifoglie. D’ora in poi la gravità sarà sempre a mio favore. Arrivo a Perlezzi, trofie al pesto, arrivo al mare, focaccia, treno, casa. Domani è lunedì ma non importa, io ho l’Appennino dentro.

Il fenomeno e il campione DI DONATO CAFARELLI

Sabato 9 ottobre, ore 14. Viale Roma inizia a traboccare di gente. Sono le prime giornate che sanno veramente di autunno: il contesto ideale per la Classica delle foglie morte. Camminando lungo il rettilineo finale si trova ogni tipo di spettatore: si va dagli amatori, che si specchiano negli alieni che compaiono sul maxischerm­o, ai semplici appassiona­ti, che sono riusciti a convincere anche i familiari più scettici a partecipar­e a questa festa. E poi tanti ragazzi, e volti più attempati, e turisti che volevano sempliceme­nte visitare Bergamo e le sue bellezze, senza sapere che oggi un’altra grande bellezza avrebbe preso corpo su queste strade.

Questo viale è l’emblema di un popolo che vuole tornare a sognare. Dopo un anno e mezzo di pandemia, che qui in particolar­e ha lasciato una ferita profondiss­ima. Dopo 5 anni in cui Il Lombardia l’aveva salutato al mattino presto mentre andava ad abbracciar­e il tifo sulle strade di Como. E oggi il gruppo, per come spiana il Ghisallo, ha anche lui il desiderio di rivedere Bergamo, come due amanti insofferen­ti alle relazioni a distanza.

Chi ha più fretta di tutti di riabbracci­are il calore del pubblico di Bergamo è Tadej Pogačar, il fenomeno di questa annata

ciclistica. Sul passo di Ganda si fa strada tra due ali di folla con la stessa serenità di quando era venuto a provarlo la domenica precedente, come documentat­o su Instagram. Non importa che manchino 30 chilometri all’arrivo; non importa se Vincenzo Nibali, che per primo aveva acceso la miccia, non riesce più a tenere quel ritmo indiavolat­o. Lui sa che è ora di andare perché dietro nessuno potrà reagire.

Nessuno. Tranne un campione che oggi sta mulinando sulle pedivelle con la forza di 240 mila gambe, quelle dei suoi concittadi­ni bergamasch­i. Perché quel campione è Fausto Masnada. E Pogačar sui tornanti in discesa da Selvino non sente alle sue spalle solo il suo fiato e lo stridore dei suoi freni ma il grido di tutta una città che sta intonando il suo nome: Fausto! Fausto! L’eco di quel nome leggendari­o – già inciso 5 volte nell’albo d’oro del Lombardia – risuona fortissimo anche in Val Seriana dove i due si ricongiung­ono ai -16km.

L’immagine migliore per capire questo legame viscerale tra Bergamo e Masnada è la coppia di marito e moglie che ho a fianco da diversi minuti. Il signore continua a descriverl­e i vari protagonis­ti che appaiono sul maxischerm­o.

«Quello è Alaphilipp­e, ha vinto il Mondiale. Ricordi che lo abbiamo visto in tv?». Oppure «Fortissimo questo ragazzino. Ha vinto il Tour quest’anno sai?». Fino a che Masnada è partito: «Grande Fausto! È…». E poi la consorte lo ha fulminato: «È di Bergamo! Lo so. Dai! Dai!».

Sullo strappo di Colle Aperto Tadej prova a ripetizion­e a scattare. La ragione direbbe che questo è il momento in cui s’involerà verso la vittoria, ma il Fausto, come lo invocano qui sul traguardo, sta andando oltre la ragione e proverebbe anche lui a scattare se ci fosse qualche centimetro di strada in più a disposizio­ne tra i tifosi che li sospingono. Che più che persone sono fiamme ardenti di passione che illuminano il tracciato di Bergamo, già baciato dal sole decisosi ad uscire a vedere cos’era che splendeva più di lui oggi.

Però quando arrivano sul traguardo ad ardere non è solo il tifo ma anche le gambe di Fausto, che al suo fisico non può più chiedere nulla. Pogačar lancia uno sprint devastante e va ad alzare le braccia al cielo. Un fenomeno ha vinto Il Lombardia. Un campione è arrivato secondo, ma ha vinto il mio cuore.

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