C’era anche lui
lassù, sul Monte Lussari, il 27 maggio 2023. C’era anche lui in quel piccolo spazio ricavato in cima, insieme ad alcuni compagni di squadra, seduto davanti al maxischermo che trasmetteva le fasi salienti della penultima tappa del Giro d’Italia, la sola che ancora avesse da dire qualcosa per la classifica generale, prima della passerella finale verso Roma.
Sepp Kuss, nervoso da sembrare distratto, simulando quasi disinteresse, osservava la prova degli ultimi concorrenti e ogni tanto lanciava un’occhiata di traverso, prima a destra e poi a sinistra; lo so perché anche io ero lassù e mi ero fissato a osservarlo, mentre lui era più fissato su Roglič e Thomas, in piena lotta per provare a cambiare la storia di un Giro d’Italia fin lì vissuto sul filo dell’equilibrio e dell’attesa. Una linea sottile, che nessuno pareva riuscire a spezzare e che aveva unito l’Abruzzo al Friuli, facendo giri strani. Imbacuccato, Kuss, perché, nonostante l’estate in arrivo, in cima a quel bizzarro cucuzzolo c’era un freschetto tipico delle zone di montagna tra Friuli, Austria e Slovenia.
Kuss era presente, solido. Difficile non fare caso a quella faccia che attira simpatia al primo sguardo. Kuss era ben presente. Non aveva usato l’inedita salita come luogo da visitare in gita, lassù nella piccola località turistica che spicca dalla Val Canale, circondata dalle splendide Alpi Giulie che segnano il confine con la Slovenia e dove pare ci siano un sacco di cervi (ma dicono di stare attenti pure a lupi e orsi, non si sa mai). Niente panino o terrina di riso freddo, che poi ti rimane da mangiare per giorni e giorni e ti fa venire la nausea, niente tenda e sdraio anche se per certi versi a fine tappa sarà così, stava mangiando qualcosa seduto su una sedia che gli aveva passato qualcuno dell’organizzazione: aveva appena affrontato il Lussari in bici munito di picchetto affilato dall’ambizione e da una forma sempre in crescendo, quel Monte Lussari che ancora qualcuno si ostina a chiamare Lùssari con l’accento sulla prima sillaba. Kuss lo aveva appena aggredito dando tutto quello che gli era rimasto con l’impressione che, nonostante gli sforzi per il suo capitano, di benzina ne avesse ancora parecchia. KOM su Strava in 29’20’’, sesto posto di tappa – che gli permetterà quel giorno di guadagnare un altro posto in classifica generale: quattordicesimo, scavalcando Aurelién Paret-Peintre, quattordicesimo dopo essere stato fedele scudiero di Roglič in salita. A volte probabilmente si sarà sentito pure il più forte dove le strade si impennavano, ma i gregari, anche se di lusso, sono così: «Posso avere una giornata buona, avere gambe super, posso avere una giornata meno buona, ma i miei compagni di squadra sanno che possono sempre contare su di me».
Quando a Primoz Roglič salta la catena dopo essere passato sopra una canaletta, Sepp Kuss si alza dalla sedia e se ne va, ritorna quando probabilmente qualcuno della squadra gli deve aver detto qualcosa che si potrebbe tradurre in ci siamo, Rogla sta volando. In quella squadra dove, grazie all’intuizione di Richard Plugge, team manager della Jumbo Visma, Sepp Kuss da un po’ di tempo viene chiamato The Mailman, il postino, un soprannome che qualche appassionato di basket ricorderà: era Karl Malone, detto così per l’invidiabile costanza di rendimento e non mi pare proprio una bestemmia pensare a Sepp Kuss nel ruolo di quello che consegna sempre la posta, come spiega proprio Richard Plugge. Prima del Giro 2023, Sepp Kuss ha partecipato a tutti e quattro i successi nei Grandi Giri della squadra olandese, dopo Giro, Tour 2023 è salito a sei su sei, un postino con una percentuale del 100%. Poi alla Vuelta succederà qualcosa di leggermente diverso. Ci arriveremo. Ora un passo per volta e torniamo al Lussari.
Gli dicono, probabilmente, che Roglič è ripartito e sta volando, o forse avrà sentito lo speaker urlarlo in inglese. Lui torna di corsa e si siede. Giacca invernale e cappellino della squadra, magrissimo in viso, tirato dallo stress, quando Thomas passa all’intertempo ed è in ritardo abbastanza per perdere la maglia rosa, le mani di Kuss si spostano sul viso, l’espressione da stressata si fa incredula. È fatta e sarà fatta. Quando Roglič, in mezzo a un fiume di tifosi accorsi dalla vicina Slovenia, passa il traguardo – trionfando nella crono e portando a casa il Giro d’Italia – Kuss e i suoi compagni fanno festa, portandolo in trionfo. Liberano la gioia, saltano come tifosi in curva al goal vittoria più importante della stagione.
Leadville. Colorado. Ora ci spostiamo di migliaia di chilometri e non solo, anche di un secolo e mezzo.
Indietro nel tempo, s’intende, per il futuro ci stiamo attrezzando. Siamo a tremila metri sopra il livello del mare. Da qui arriva una parte della famiglia di Sepp Kuss, da una cittadina che ha una storia intrisa di selvaggio West, di miniere, saloon, ferrovie e pistoleri. Di immigrati arrivati in massa dalla Slovenia, come gli stessi nonni di Sepp Kuss. «Non sa una parola di sloveno – ha detto una volta Roglič – ma conosce bene uno dei piatti tipici, la potizza (una sorta di dolce, simile alla gubana friulana, nda)».
C’è Frank Zaitz, che è uno dei protagonisti di questo viaggio. C’è questa storia interessante, di quelle a metà fra il sangue che non smette mai di scorrere narrato da Paul Thomas Anderson e le scanzonate avventure di Paperon de’ Paperoni a caccia di oro. C’è chi si è fermato a Cleveland, chi, attratto dall’odore delle miniere, ha viaggiato un po’ più a lungo verso Ovest arrivando fino in Colorado. C’è chi era stufo di una paga così misera, di una vita ai margini, di un sogno impossibile da raggiungere con due dollari e mezzo il giorno scovando poche once d’argento al soldo di Horace e Baby Doe Tabor. Insomma, c’è tutta questa gente, fra cui Frank Zaitz, scappato diciassettenne da un piccolo villaggio del distretto di Gorica, in Slovenia, che decise di mettere su un prospero commercio di liquori, da vendere attraverso i saloon. Leadville viveva in quegli anni un momento prolifico. Allontanandosi dalle claustrofobiche miniere tutto era come un feuilleton dai toni leggeri e scanzonati: da lì arrivava Molly Brown, attivista politica, diventata celebre come l’inaffondabile per essere sopravvissuta al naufragio del Titanic. Mentre tra i figli degli sloveni fondatori del mercato di liquori c’era Dolph. Sì, Dolph Kuss, papà di Sepp.
A Dolph piace sciare e gli piace così tanto, che dello sci nordico diventa una leggenda delle sue zone. Da Leadville, nel frattempo caduta in disgrazia, si sposta a Durango, poche miglia più a Sud, con il confine del Nuovo Messico ormai a tiro. Dopo un po’ di tempo conosce Sabina. Si sposano. Entrambi Maestri di sci, estrosi, emancipati, amanti dell’avventura; Sabina è sorda da un orecchio e nonostante tutto suona l’ukulele, ha lo sci nordico nelle vene e, quando il figlio Sepp ha solo pochi mesi, se lo porta nello zaino in giro sulla neve.
Dolph, Sabina e Sepp si gettano tutti i fine settimana all’avventura; oltre allo sci praticano rafting e trekking, oppure si dilettano in lunghe e lente passeggiate in compagnia di tre asinelle, una delle quali, Hilda, si lascia agilmente cavalcare da Sepp, trattandolo come il suo cucciolo. «Se gli cadeva qualcosa dalle mani, Hilda, con fare materno, si fermava e aspettava che lo raccogliessimo. Sepp lo vedete calmo in bicicletta e penso che questo sia dovuto alla tranquillità delle nostre passeggiate in mezzo alla natura» racconta Sabina.
E per Sepp fare sport diventa un aspetto normale della sua esistenza. Si sveglia la mattina e vede le montagne rocciose che paiono sfidarlo; padre e madre sciano, e da quelle parti c’è l’ingombrante leggenda di un certo John Tomac a cui tutti i ragazzini si ispirano. «Conosco il papà di Lenny Martinez – racconta il giorno della sua vittoria di tappa alla Vuelta 2023 sul Pico del Buitre, un nome che è tutto un programma, quando Lenny Martinez, secondo di tappa, vestirà la Roja – è una leggenda della mountain bike, ma io sono cresciuto con il mito di Tomac: visto da dove provengo, non poteva essere altrimenti». Proprio a Durango, nel 1990 – Sepp non era ancora nato – si disputò il primo Mondiale di mountain bike della storia e Tomac sarebbe stato tra i favoriti per vincere entrambe le gare in programma – non andò così ma si rifece l’anno dopo.
Sepp si distingue per la sua versatilità: la famiglia vive di sport e il giovane ragazzo segue quelle orme come Leonardo Di Caprio in Revenant all’inseguimento di Tom Hardy. Pratica kayak, mountain bike, hockey e sci di fondo – suo padre è stato allenatore della nazionale americana olimpica di sci nordico e sua madre l’ha insegnato per quarant’anni e lo fa tutt’ora, quando non segue il figlio alle corse. Sceglie l’hockey «per non deludere i suoi amici e compagni di squadra» ma presto lo abbandona perché il suo fisico minuto sembrava tendere verso qualcos’altro. Inizia a pedalare: da sua mamma eredita capacità aerobiche fuori dal comune. E dopo averla seguita dentro uno zaino sulle piste da sci, ora le va dietro durante interminabili escursioni in bicicletta.
Sport, ma anche studio: nel 2017 si laurea in marketing. Sport di fatica. Eccome. Ruote grasse, tradizione del luogo, e poi ruote strette e lisce che lo portano a scalare a tempo di record varie salite. Si esalta nelle sue prime corse in America e nel 2018 si fa notare dalla Jumbo-Visma. Il suo spirito, che non è altro che dedizione al lavoro e ai compagni di squadra, qualità in salita, capacità di fare gruppo, contagia Primož Roglič, che esige di averlo con sé al Giro e alla Vuelta del 2019. Che Primož vincerà con di fianco proprio Sepp.
Leggero in bici, come nella testa, trasmette serenità in squadra ed è così tranquillo e rilassato che i suoi amici a volte non capiscono se faccia sul serio: si racconta che quando ritorna a Durango ed escono in mtb, si stacca in salita tra le risate generali, prima di offrire qualche giro di birra a tutti. Se lo guardi e vedi quegli occhi neri vispi e quei capelli come il carbone, capisci da dove arriva e perché va così forte: americano, sloveno, ci sono persino origini italiane in quella famiglia emigrata nel nuovo mondo a fine Ottocento.
«Posso avere una giornata buona, avere gambe super, posso avere una giornata meno buona, ma i miei compagni di squadra sanno che possono sempre contare su di me».
Nel 2019 conquista la sua prima corsa in Europa, dopo aver fatto incetta di traguardi al Tour of Utah 2018. È un arrivo in salita della Vuelta e lui ha il via libera, finalmente, dal proprio capitano. Dopo aver staccato i compagni di quella gita premio, resiste al ritorno di Geoghegan Hart e Guerreiro e assaporerà ogni momento battendo il cinque a tutti i tifosi trovati a bordo strada nelle ultime centinaia di metri di corsa. «Volevo ringraziare i tifosi» racconta con la sua disarmante semplicità a fine tappa. «Il ciclismo è l’unico sport dove vengono tifati anche gli ultimi e sapete perché? Molti dei tifosi pedalano e sanno cosa vuol dire far fatica. Il mio è un gesto per omaggiare chi rende grande questo sport e ci aiuta a sopportare la sofferenza».
Un po’ alla volta inizia a farsi conoscere come uomo squadra dotato di carisma, talento, carattere. Uno che si tifa volentieri perché sembra banalmente uno di noi, ma che corre tra i professionisti. Uno che se volesse potrebbe tranquillamente provare a vincere una classifica: «Mi piacerebbe avere le mie chance di provarci – raccontava mesi fa durante il Tour chiuso al dodicesimo posto finale, ma uscendo dalle prime dieci posizioni soltanto a causa di una caduta – magari un anno portiamo al Giro una squadra per le volate di Kooij e infilano pure me nella selezione, libero di provarci». Sostiene quanto sia complicato mentalmente stare sul pezzo tutti i giorni, senza poter staccare. Alla Vuelta, però, cambierà tutto.
La sua presenza in squadra ha portato la Jumbo Visma a vincere sei grandi giri: tre Vuelta e un Giro con Roglič, due Tour con Vingegaard, lui sempre lì, di fianco ai suoi capitani. «Eppure mi sento così emotivo, se mi stacco sono capace di andare in crisi irreversibile», ma allo stesso tempo sa interpretare il ruolo come nessuno, attualmente. Duttile, «so leggere la gara in modi diversi» coglie le diverse sfumature che gli si presentano in corsa. «Attacco quando c’è da mandare in difficoltà qualcuno. So stare a ruota o fare il ritmo che mi viene richiesto dai capitani». Che sia sul Lussari, sul Ventoux o sull’Angliru, Sepp Kuss c’è sempre. Come alla Vuelta 2023, dove il racconto che state leggendo all’improvviso subisce il suo colpo di scena: Sepp va in fuga, approfittando della superiorità della sua squadra, lasciando coperti i capitani designati Vingegaard e Roglič. Ma stavolta sarà il preludio a qualcosa di diverso, che in parte contraddice quello che fino alla vigilia della Vuelta conoscevamo di Kuss. Quello che ci era noto di lui anche attraverso le sue parole, non solo attraverso sguardi, numeri, risultati. Un fedele uomo squadra che difficilmente si metterà in proprio per vincere la classifica finale di una corsa lunga tre settimane. Conquista la tappa e per soli otto secondi non veste la maglia di leader, secondi preziosi persi passando a battere le mani a tutti nelle ultime centinaia di metri della Cima del Falco, come sul Santuario del Acebo quattro anni prima. Pochi giorni dopo, però, vestirà la roja che non mollerà mai più, fino a Madrid. Alimentando polemiche e dibattiti. Infuocando ulteriormente il tifo per lui lungo la strada e da casa, sui social. Il soprannome GC KUSS (letteralmente Kuss, Classifica Generale), diventa un profilo su Twitter, un hashtag, un tormentone, diventerà persino una maglia celebrativa nella passerella finale a Madrid. Kuss avrà un adesivo attaccato alla bicicletta con su scritto GC Kuss, mentre chiuderà le ultime pedalate sul traguardo della capitale spagnola. Nei giorni decisivi, a turno, Vingegaard e Roglič lo hanno staccato andando a vincere le tappe, ma distanziato di quel poco che bastava a Kuss per mantenere la maglia rossa. La Jumbo gestisce a suo piacimento il podio finale e ci sale con tutti e tre i corridori – mai successo e, per quanto sia un fatto storico, per il bene della competizione spero non si ripeta mai più.
Tre sul podio, ma uno dei corridori più celebrati e amati che va a compiere un autentico miracolo ciclistico. Il gregario che batte i capitani, seppure sia sembrato in certi momenti per gentile concessione dei due, grazie a una superiorità manifestata lungo la strada nei confronti degli avversari, senza precedenti. A fine Vuelta, Kuss ha provato a spiegare, imbarazzato, intimidito, l’entusiasmo e il seguito che negli Stati Uniti non si vedeva da anni per un corridore, e che si trasmette in tutta Europa. Kuss amato ovunque anche nel vecchio continente: «Perché piaccio così tanto ai tifosi? Perché sono umano, perché sono un globero (termine che indica un amatore che cerca di imitare i professionisti, ma più ci prova e meno ci riesce)».
«Perché sono più ciclista che corridore». Da oggi è GC Kuss, poi domani si vedrà.