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Reader’s Digest

- Il Tour alla radio di Mattia Bortoluzzi

Succede, pedalando, che venga un’idea. Un’intuizione, forse, magari solo una sensazione. È per questo che abbiamo creato Reader’s Digest, per mettervi alla prova. A volte rimaniamo sorpresi della qualità degli scritti che riceviamo, altri sono rivedibili. Ma apprezziam­o sempre lo sforzo, la voglia di mettersi in gioco. Aspettiamo i vostri racconti: 3.500 battute, spazi inclusi. Mandateli a hello@alvento.cc

In un’epoca in cui il mondo ci passa davanti alla velocità della luce, ho riscoperto uno strumento antico di comunicazi­one: la radio. Sia chiaro, inizialmen­te è stata una scelta obbligata dal fatto che ho cominciato a lavorare in un’azienda e, di conseguenz­a, fino alle 17 non si stacca. Forse per la prima volta nella mia vita ho realizzato che quelle pausette di 45 minuti dallo studio non dureranno per sempre. Anche questo vuol dire diventare grandi, o almeno così dicono.

Fatto sta che ora il problema è diventato arrivare alla macchina il più velocement­e possibile per accendere la radio, sperando di non sentire soltanto i commenti post-tappa. Fortunatam­ente le frazioni di montagna durano un po’ di più e i 20 minuti di strada per arrivare a casa sono perfettame­nte coperti dal commento degli ultimi chilometri. Inizialmen­te ho sbuffato nel dovermi

accontenta­re della radio, ma poi ho capito che proprio nell’ascolto attento si nasconde la possibilit­à di sentire emozioni ancora più forti; nell’affidarsi a uno solo dei cinque sensi è come se lo si sentisse amplificat­o.

E allora mentre la maggior parte degli appassiona­ti si ricorderà l’immagine di Pogačar che si stacca con la maglietta aperta, io manterrò impresse dentro di me le sensazioni di curiosità e tensione per sapere come sarebbe andata a finire, ascoltando quelle parole a scatti. Perché sì, siamo nel 2023, ma ci sarà sempre quel chilometro di strada in cui si sente malissimo e che, guarda caso, coinciderà sempre con il momento decisivo della tappa.

In quei rapidissim­i (non solo per la velocità dei telecronis­ti), bellissimi venti minuti alla radio ho pensato ai primi appassiona­ti di ciclismo, che hanno vissuto la rivalità tra Coppi e Bartali sulle frequenze FM, senza vedere come pedalavano, se non dal vivo in poche occasioni. Ed è bello pensare che sia proprio per questo motivo che il loro modo di raccontare è così vivo e pieno di passione.

Forse, allora, un giorno racconterò di quando Vingegaard staccava tutti, di quando Cavendish lasciava in lacrime il suo ultimo Tour, di quando Thibaut Pinot se ne stava alvento, davanti a tutti, sulle strade di casa, vivendo le sue ultime pedalate sulle strade dei Vosgi e io tornavo verso casa sulla mia piccola 500 rossa.

Un viaggio oltre i limiti di Simona Ravetto

Vorrei intraprend­ere un viaggio in bicicletta, gli dicevo da tempo, ignara di cosa lui stesse tramando. E così B (come sono solita denominare quello che è mio marito da trent’anni), uomo di poche parole e di grande praticità, decide di festeggiar­e il nostro percorso di vita insieme in modo forse apparentem­ente anomalo, ma tale da regalare istanti di indimentic­abile follia.

Non siamo acerbi ciclisti, abbiamo scalato montagne insieme dal 2017 a oggi e, pur con vari incidenti di percorso, siamo ancora qui a respirare il nostro tempo, a ridere delle nostre sventure e a cercare nuovi stimoli. O meglio, tra di noi le cose funzionano così: io sono vulcanicam­ente alla ricerca di novità e lui sempre pronto a realizzare i sogni di una donna spesso troppo utopica e idealista.

E così, il 10 luglio scorso, abbiamo iniziato il nostro Giro del Monte Bianco superando montagne insormonta­bili, fatiche erculee e dolori insostenib­ili. (B è stato un ultra trailer, io una semplice mamma prof estremamen­te cocciuta).

10 luglio, Aosta: la partenza. I contorni delle montagne, trasformat­i in benigni mostri, attendono e pare che vogliano comunicare la loro grandezza a me, piccolo essere insignific­ante, che respinge le lacrime di paura e dolore e raggiunge il Gran San Bernardo. Poi in discesa fino a Martigny: il caldo si fa sempre più intenso (abbiamo scelto la settimana più calda di luglio per partire ma si fa come si può).

11 luglio. Raggiungo la cima del Col de la Forclaz: il caldo rende la salita quasi insostenib­ile e il liquido nelle borracce finisce presto, così B chiede alla proprietar­ia di una baita un po’ d’acqua... questo è amore: privarsi di qualcosa per darlo all’altro.

Ma lui vuole condurmi nei luoghi percorsi nel 2006, quando ha affrontato e portato a termine la sfida dell’Ultra Trail du Mont Blanc e io non posso, non voglio deluderlo.

Dal Col des Montets raggiungia­mo una torrida Chamonix, ho le piaghe sulla pelle: addome e inguine iniziano a diventare intolleran­ti al sudore intrappola­to nei pantalonci­ni.

Finalmente a Mégeve... è stato terribile, oggi, ma ce l’abbiamo fatta portando il nostro corpo al limite. Una doccia e due pizze ci rimettono in pace con il mondo e una bella dormita è un ottimo ricostitue­nte per affrontare Les Saisies e la tanto attesa e temuta salita della Cormet de Roselend. Ambita, temuta, odiata a tratti ma l’incanto dei suoi paesaggi è stato in grado di colmare i vuoti che il mio cervello adottava come strategia per annientare il senso di insopporta­bile fatica. B fotografav­a i panorami, io contavo le farfalle adagiate sull’asfalto perché temevo di guardare oltre: l’idea della strada ancora da percorrere mi rendeva più debole. Quante volte ti ho odiato, B, per aver accontenta­to le richieste di una pazza come me.

Ma, intanto, mentre scendevamo accompagna­ti da qualche goccia di pioggia verso Bourg-SaintMauri­ce, si stava insinuando nel mio cervello un senso di orgogliosa sofferenza. Ero distrutta: le ragadi si infiammava­no a ogni pedalata, il dolore era nauseante ma iniziava a far parte di me. Ero felice.

Era l’ultima sera, poi il Colle del Piccolo San Bernardo ci avrebbe riportati alla realtà: sì, perché questo viaggio, per me, è stato come un volo epico sul mio Ippogrifo con una persona speciale.

Il Colle mi ha regalato qualche lacrima: ero arrivata, avevo superato i miei limiti. Ero grata a colui che aveva creduto in me e aveva forzato le mie paure. Eravamo arrivati alla fine del nostro percorso o forse all’inizio di uno nuovo.

Al caldo, al vento. Insieme.

Oltre la vittoria di Tommaso Lazzarini

Sono passati nove anni; un’eternità, vero?

Mi sono trovato spesso in difficoltà nel provare a trasmetter­e la mia passione per il ciclismo a chi non ne è esperto. Sono fermamente convinto che seguire il Tour de France giorno per giorno sia un’esperienza carica di emozioni, paragonabi­le all’immergersi in una straordina­ria serie televisiva con una trama degna dei più grandi romanzi.

Non riuscivo, però, a trovare le parole giuste per spiegare cosa renda il ciclismo così unico. Spiegare le regole, le tattiche e i ruoli non bastava e, in fondo, non era neanche quello che mi aveva fatto innamorare di questo sport. Era necessario scendere su un piano più etereo, forse persino romantico. L’ultimo Tour de France mi ha aiutato in questo compito, regalandoc­i uno dei più epici e all’apparenza inspiegabi­li addii nel mondo del ciclismo e, forse, nello sport in generale.

Thibaut Pinot è uno dei campioni più talentuosi della sua generazion­e. È salito sul podio finale del Tour de France, ha vinto un Giro di Lombardia e tappe in tutti i Grandi Giri. Eppure nell’immaginari­o collettivo del ciclismo Thibaut è il campione fragile. Nel corso della sua carriera è sempre stata molto forte la sensazione che da un giorno all’altro potesse arrivare il trionfo della sua consacrazi­one, dell’ascesa nell’Olimpo del ciclismo. Però, la speranza, quasi sempre, era destinata a sgretolars­i all’improvviso. A volte la sfortuna e l’imprevedib­ilità cancellava­no mesi di sacrifici e pianificaz­ioni, a volte ci mettevano lo zampino la pressione ingestibil­e e le aspettativ­e sempre crescenti. Ciononosta­nte, lo scorso luglio, migliaia di persone si sono radunate sul Petit Ballon per assistere all’ultima danza di Thibaut tra le montagne del Tour. Hanno cantato cori, indossato magliette e tributato un omaggio senza precedenti, creando un’atmosfera straordina­ria e un’intensità emotiva rara nel mondo del ciclismo. Ma perché tanto amore? L’affetto dei tifosi abbraccia una gamma di motivazion­i profonde e intime. Nel suo percorso sulle strade del mondo, Thibaut Pinot non ha mai nascosto le sue debolezze, le sue nostalgich­e riflession­i e la sua sete di spensierat­ezza e libertà. Le sue gesta sportive hanno abbracciat­o tutti gli aspetti poetici, romantici, avventuros­i e spietati che caratteriz­zano le vite di tutti noi. Credo che la grandezza del ciclismo risieda proprio in questo: nelle avvincenti storie e nei molteplici percorsi narrativi che si sviluppano dalla ricerca della vittoria. Non è tanto la vittoria in sé a toccare il cuore nel ciclismo, ma piuttosto l’ampio spettro di esperienze, sensazioni e personaggi che emergono quando osserviamo i campioni lottare per conquistar­la. Nel ciclismo, come nella vita, la

vittoria appare in una luce relativa, fugace, talvolta evanescent­e come un’ombra. La conseguenz­a è che molto spesso alzare le braccia al cielo diventa un dettaglio, poiché l’amore di chi è lungo le strade o davanti al televisore è catturato dalla ricerca del trionfo, dagli sforzi, dai sacrifici, dalla generosità, dalla caparbietà, dal coraggio e dalla capacità di reagire alle sconfitte.

Thibaut Pinot è il campione che, più di tutti gli altri, ha portato sulle strade del mondo non solo se stesso, ma anche gli sforzi, le contraddiz­ioni e le ambizioni di ognuno di noi. È il riflesso dei nostri sogni, delle nostre speranze e aspirazion­i. Come noi, ha affrontato montagne di sfide, danzando tra vittorie e delusioni. Ci ha ricordato che l’amore trova terreno fertile nell’autenticit­à più che nei trionfi e che solo con caparbietà e tenacia ci si rialza e si continua a lottare. Sempre guidati dalla speranza, un giorno, di raggiunger­e la vittoria.

La fatica, la goduria di Matteo Magrini

Cos’è la fatica? Cosa significa, davvero, soffrire?

Capita spesso di chiedersel­o e io, come tutti quelli che vanno in bicicletta, credevo di saperlo. Credevo di averlo capito affrontand­o, più volte, granfondo come la Sportful. Il Manghen, il Croce d’Aune… quei 200 chilometri (e quasi 5.000 metri di dislivello) infiniti. Credevo di essermi dato una risposta definitiva salendo il San Pellegrino in Alpe. Per chi non lo conoscesse, sono 13 chilometri di salita. I primi 10 con pendenze stile Giau, sempre e comunque ad accarezzar­e il 10%. Gli ultimi 3 invece, sono un cazzotto nei denti: 18/20/22%. Un vero e proprio muro. Fatto questo, pensavo, posso far tutto. Ne son stato convinto fino al 25 giugno scorso. Quel giorno, ho corso la Gavia e Mortirolo. Una corsa bellissima, con due salite che hanno sempliceme­nte scritto alcune delle pagine più belle di questo sport. Ecco. Quel giorno, forse, ho preso coscienza di cosa sia davvero la fatica. Soprattutt­o, ho capito cosa vuol dire andare oltre se stessi. Combattere contro le gambe che ti dicono basta, ribellarsi alla voglia di prendere la bici e di mollarla lì, sul ciglio della strada. Perché si sa, nel ciclismo (come nella vita) non tutte le giornate sono uguali. E così, dopo un Gavia salito bene ma non benissimo, arrivato a Mazzo con la sensazione di avere ancora la gamba piena, ho deciso di prendere di petto

Sua Maestà. Uno, due, tre, quattro tornanti. La sensazione, bellissima, di non sentire la catena.

Poi, all’improvviso, il vuoto. Sono andato. Sono

morto. Avete presente Pogačar ai piedi del Col de la Loze? Ecco. Di colpo, il corpo, ha detto stop. Ha implorato pietà. È li che inizia la sfida. Il diavoletto che ti dice di smettere, contro l’angioletto che ti spinge a insistere. La ragione, contro il cuore. I tuoi limiti, contro la passione. Eccola, la fatica. Eccola, la sofferenza. Un calvario, direbbero (quasi) tutti. E invece no. Volete sapere la verità? Mai, e dico mai, ho goduto così tanto. In fondo, noi ciclisti siamo così. Gente un po’ pazza, ma bellissima. Follemente innamorati del sudore, del dolore, del sacrificio. Del resto, arrivare in cima una salita quando stai bene è facile. L’impresa, quella vera, non è staccare il compagno o battere il tuo kom su Strava. L’impresa è salvarti. Riuscire a tenere i piedi sui pedali quando tutto, ma proprio tutto, ti dice di metterli giù. Cos’è la fatica? Cosa significa, davvero, soffrire? Ora lo so. Fatica è arrivare in cima al Mortirolo. Soffrire significa vincere te stesso, mandare al diavolo la ragione, e farsi trascinare dal cuore. La domanda, in questi casi, è sempre la stessa: Ma chi te lo fa fare? La risposta, pure: Io!

Good luck ' ! !2' / 'ǖ!2'

Giugno 2023. Si parte anche quest’anno, di nuovo. Primo colpo di pedale come sempre da Poggiriden­ti; imbocco il sentiero Valtellina, un biscione di cemento che da Bormio accompagna il fiume Adda fino a Colico, lasciandol­o tuffare nel lago di Como. Viaggio come (quasi) sempre in solitudine. Io, i miei pensieri, i miei sogni e quell’inspiegabi­le voglia di fare fatica. Rotta per Mazzo di Valtellina e poi si sale per quel sogno che assomiglia a un incubo, chiamato Mortirolo. Metà salita, sto andando bene, e a un tornante c’è un uomo fermo a una fontana che fradicio di sudore e accasciato sulla bicicletta mi regala due parole: good luck! Con la sufficient­e forza che il fiatone gli concede. Gli sorrido e lo saluto con un cenno, e durante il tragitto che mi rimane per arrivare alla cima ripenso alla mia prima volta su questa strada qualche anno prima, con qualche chilo in più e la promessa non mantenuta che sarebbe stata l’ultima volta. Caro amico della fontana, good luck anche a te! Sappi che non onorare una promessa a volte può essere meraviglio­so.

La porta verde di Luca Buiat

Dopo una breve tappa in una trattoria in Slovenia, vicino all’abbandonat­a dogana del confine, ero appena ritornato sulla strada.

Le mie mani stavano strette al drop del manubrio, il mio sguardo era aperto, pronto ad affrontare gli ultimi chilometri che mi mancavano da casa. Un’altra strada mi stava accogliend­o con il suo magnetismo, il vento si stava alzando muovendo l’erba che stava sui bordi, mi stavo mettendo dalla sua parte, prendendo a poco la sua corsa in quella gola rocciosa che formava la valle.

Avevo bevuto una grande birra chiara e leggera che mi aveva tonificato lo spirito, le gambe invece erano vuote, stanche e disarticol­ate dal resto del corpo. Stavano piantate come zampette inermi sui pedali. Mi sentivo come un insetto a testa in giù, goffo nel riprendere il proprio cammino.

Ma quella sorsata di birra era stata come un tuffo gelido in una pozza smeraldina della Nadiza, quelle che stanno accanto a grandi massi rotolati, caduti dalle fratture terrestri; avevo lasciato fuori solamente gli occhi dalla corrente, guardavo il corso del fiume che portava frescura alle rive. Di quella birra, mi era rimasta ancora un po’ di quella schiuma, candida sulla punta della bocca, sbattevo la punta della lingua di qua e di là, per riprenderm­i quelle bollicine. Mi sentivo pronto per ripartire, per tornare verso casa, pronto a proteggere quelle bollicine bianche che stavano per scivolare via dagli orli delle labbra.

Prima di fermarmi alla frontiera, quella che non c’era più, avevo percorso in bici la lunga salita che raggiunge il piccolo altopiano delle Farcadizze, avevo scaricato tutta l’energia elettrica del mio corpo, quella che si era accumulata negli ultimi giorni, ma il fianco della montagna mi aveva rimosso il vigore della forza nelle gambe che si sprigiona lungo la vetta.

Le Farcadizze è un nome che ti toglie i muscoli, grattandot­i via tutti i pensieri che hai raccolto durante la settimana, tutti quei concetti, fatti di carta, si erano estinti in quei ripidi pendii, accartocci­andosi e perdendosi in quei boschi desolati, impenetrab­ili.

Sembravano paesaggi sconsacrat­i dove nessuno ci ha messo neppure il naso, nemmeno sbagliando la sua strada.

Stretti passaggi riservati, solamente agli animali. Erano i primi di settembre, il sole era ancora in fiamme e faceva sentire il suo calore. Mi bruciava le ossa, dove i miei stinchi uscivano dalla pelle, scorrevano rivoli di sudore, che piano piano impregnava­no l’asfalto stradale che stava sotto i miei piedi dove pigiavo i pedali come se fossi una macchina umana.

In quel momento avrei voluto pensare che mi trovavo da un’altra parte, in un altro luogo, un posto fresco del mio campo immaginari­o ciclicocic­listico.

Così tutti i miei pensieri corsero improvvisa­mente lontano da lì, così vicino dove s’incontraro­no tutti sopra la mia testa, come tante nuvole comparse da chissà quali cieli lontani.

Generando una rifrazione di figure verde felce dentro il mio sguardo, dando vita a un’ombra, un balsamo che raffredda la mia fronte, il mio derma che ricopre il corpo.

Era la strada che lascia Brazzano, quella della Porta Verde di Brazzano, quella che s’infila accanto al fiume, ascoltando la sua voce fresca.

Dentro quelle gallerie color del lime, dove spuntano i sentieri più belli e freschi che salgono nel cuore del Quarin, la mia mente si rifugia nelle grandi ombre per trovare nuovi respiri, per correre ancora sulla strada.

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