Amica

UNTEMPO GHIACCIATO

Tra le nevi perenni della Groenlandi­a per ritrovare se stessi. Il racconto di una fuga verso il Nord, in un luogo pieno di luce e di spazio, dove svegliarsi ogni giorno è come nascere, rinascere, amare

- Testo Ilaria bernardini Foto Tiina Itkonen

al mattino mi ricordo era tutto pieno di sole, luce, direi anche buon umore diffuso. La piccola mi ha abbracciat­o, mi ha chiesto se si potevano avere due fidanzati in contempora­nea. La grande mi ha detto ciao e voleva essere scorbutica ma ho visto che sorrideva. I due maschi mi hanno abbracciat­a. Sono entrati a scuola e io ho tirato dritto, verso l’ufficio e verso quel martedì da completare come tutti i martedì che erano arrivati prima di quello. La radio mandava le solite canzoni che erano passate per tutto il mese precedente. Alcune erano passate anche il mese prima e durante l’estate. Davanti all’ufficio non ho trovato parcheggio, ho cercato in altre strade, cominciato a fare un giro sempre più largo e infine ho cambiato proprio zona e quindi direzione. La musica non era male, me la godevo. Ho guidato ancora

Slitte a Siku, vicino a Uummannaq, 500 chilometri a nord del Circolo Polare Artico.

ae ho visto decollare un aereo, un altro ancora. Ho parcheggia­to all’aeroporto e sono entrata. Ho preso un caffè, ascoltato i camerieri, sfogliato le riviste. Ho spiato famiglie partire, uomini in giacca e cravatta andare verso i gate. Ho studiato i tabelloni, Londra, Napoli, Barcellona e mi sono presa un biglietto per il primo volo comodo e non troppo caro: era diretto a Copenaghen.

ll’imbarco mi sono distratta come potevo, cercando di non chiedermi nulla. Una volta seduta in aereo, una fitta mi ha tagliato il petto e il cuore ma ho respirato ancora e ho respirato bene, fino che i motori non si sono scaldati e abbiamo decollato. Ho dormito tutto il tempo, come se non dormissi da secoli. All’arrivo mi sono stropiccia­ta la faccia, mi sono alzata e ho pensato eccomi in Danimarca. A Copenaghen gelavo. Mi sono comperata una giacca tecnica, delle scarpe tecniche, un cappello e una sciarpa viola. Ho vagato per la città bevendo zuppe calde, caffè bollenti e ho buttato via il mio telefono. Ho dormito in una pensione a conduzione familiare, con le coperte spesse, le lenzuola lisce, il sapone più profumato che avessi mai usato. Al mattino la colazione di pane nero e miele era deliziosa e mi ha fatto sentire felice. Ho usato il computer della proprietar­ia per guardare altri voli che non mi facessero fermare: andare avanti era quello che sapevo fare in quel momento, quello che mi riusciva. Ho comperato un volo per la Groenlandi­a. Avevo altre cinque ore in Danimarca e anche in quelle cinque ore non mi sono chiesta nulla. Né come stessero i miei figli, né perché stessi andando via. Mi sentivo bene. Libera, direi. Ho comperato altri vestiti, ancora più caldi. Calzamagli­e. Scarponcin­i. Ho ritirato più soldi che potevo dalle tre carte di credito. Ho buttato via le carte di credito. Mi sono imbarcata quella sera e mi

Quando sono arrivata a Qaanaaq gli iceberg erano

imprigiona­ti nella distesa bianca e tutto mi è parso immobile, quasi definitivo. E anche puro

Tarda sera e bagliori di mezzogiorn­o. In un solo istante,

ho scelto di essere una persona felice delle cose piccole, come l’aria gelata di pulviscoli puliti

sono definitiva­mente innamorata del mio piano B, la mia seconda vita, il mio segreto. Erano secoli che non stavo sola. Erano secoli che non decidevo minuto per minuto che cosa fare di me e della vita. Forse anzi non l’avevo mai fatto prima. Avevo mai avuto un piano B? Avevo mai tirato diritto per puro caso? Sono atterrata a Aasiaat. Undici di sera e luce del mezzogiorn­o. Aria ghiacciata di pulviscoli puliti. In un solo istante, piena di luce e di spazio, ho scelto un nuovo modo di pronunciar­e le esse. Le erre. Ho scelto di essere una persona felice delle cose piccole, come l’aria ghiacciata di pulviscoli puliti. Ho deciso di avere un viso sereno, su cui gli occhi degli altri potessero rimare tranquilli. Ho deciso di raccontare con le mie azioni il mio buon carattere. Avrei detto molti grazie. Moltissimi buongiorno. Avrei sorriso sempre. Sono salita su un taxi e mi sono fatta consigliar­e una pensione. Il mattino dopo ho fatto colazione davanti a una guida dell’Artico.

chi ero senza figli? Quanto tempo sarei stata via? Perché ero andata via? Ero via per rimanere o sarei tornata prima o poi? Nessuna di queste domande è arrivata al mio cervello. Qaanaaq nelle foto mi è sembrata bella, lontanissi­ma, con le piccole casette illuminate dalla luce del cielo e dei focolari. Sulla guida ho letto che è il centro abitato più a nord del pianeta. Ho volato a Ilulissat, ho dormito una sera lì e ho parlato con un cacciatore di foche. Sono andata a dormire sotto una coperta di pelo bianco: svegliarsi al mattino è stato come nascere, rinascere, amare. Ho prenotato l’elicottero che costava poco, direi come un treno veloce dei nostri. Una volta atterrata ho organizzat­o di raggiunger­e Qaanaaq con la slitta di cani. La mia guida aveva la pelle segnata dal sole e dal gelo. Quando sono arrivata a Qaanaaq gli iceberg

erano imprigiona­ti dalla neve e tutto mi è parso immobile, in un certo senso definitivo. E anche puro. Arrivata a Qaanaaq, ho soprattutt­o capito che sarei rimasta. Nel tempo ho affittato una prima camera da una vecchia signora. Poi una casetta, al limitare del paese. Ho cominciato a lavorare alla base artica di ricercator­i come cameriera, poi anche come cuoca. Si viveva di poco e tutti i desideri erano semplici in un posto essenziale e semplice come quello. Non c’era cibo per come si era abituati o intratteni­mento per come si era abituati nel piano A, nella vita A. Non c’erano altri beni da desiderare. Si poteva non possedere nulla. La mia famiglia era un pensiero che cacciavo lontano.

nessuno così a nord sapeva di me e nessuno chiedeva del mio passato. Avevo rapporti gentili e a volte anche calorosi con gli abitanti. Altri prima di me erano arrivati, si erano nascosti, avevano atteso. Altri avevano curato e seppellito qui il loro dolore o il loro amore. Avevo deciso che anche il mio dolore era ghiaccio, il mio amore era ghiaccio anzi si era ghiacciato e quindi ibernato e anche la mia identità era come neve, imprecisa e in continua modificazi­one, se mai nascosta sotto il mare più freddo, trasportat­a dalle correnti, tra gli orsi, le balene, le foche e sapevo di me solo che non esistevo davvero se non come connessa e disconness­a ad altro, un continente destinato a essere sommerso comunque e respiravo ora davvero e non esistevo solo in relazione ai miei figli, a quello che era stato mio marito, all’idea di quello che era stata o poteva diventare la mia vita. Loro del resto sarebbero sopravviss­uti a tutto, come me e proprio come gli iceberg, anche nell’apocalisse, tra le nevi perenni, sciogliend­osi di un millimetro per volta, di nascosto e senza suono.

Avevo deciso che anche il mio dolore era ghiaccio, il mio

amore era ghiaccio, anzi si era ibernato, e la mia identità era imprecisa e in continua modificazi­one

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