IO TAGLIO DA SOLA
Ha iniziato a lavorare con il padre, da cui ha ereditato la passione per la moda. Ma ha saputo creare uno spazio tutto suo. E attraverso i jeans la sua fantasia non ha limiti
Sedute una di fronte all’altra siamo io e Angela Biani. Grande assente - ma presentissimo per tutta la durata dell’incontro - c’è lui, Alberto Biani, stilista veneto, padre e “capo” di questa trentacinquenne dal look universitario (dolcevita blu, gonna a pieghe longuette, calze opache, scarpe stringate maschili, non un filo di trucco) che, appena finito il liceo, era già nell’azienda di famiglia a fare di tutto, dalla vestiarista alle campagne vendita. Nemmeno la laurea in Storia e Critica del Cinema è riuscita a distoglierla dall’abbigliamento e così, ultimati gli studi, è finita dritta nell’ufficio stile di suo padre. «Una formazione assolutamente Biani», precisa subito Angela, «con tutto ciò che implica lavorare con il proprio genitore: grandi conflitti, grande amore, grande stima, tanta pressione». A questo punto ci starebbe bene il classico “ma mi ha lasciato massima autonomia”. Invece no, a casa Biani non funziona così. «Assoluta libertà? Neanche a parlarne. Mio padre è un grandissimo accentratore, perfezionista, vuole avere tutto sotto controllo. Però, se arriva a fidarsi, ti lascia carta bianca. Io sono riuscita a ritagliarmi un piccolo spazio e lui ne resta fuori». Scontri caratteriali a parte, fra i due il rapporto è solido, soprattutto costruttivo. Nessun consiglio dall’alto, quello che Angela ha assorbito dal papà-teacher lo ha rielaborato da sola, con coerenza aziendale. «Il modo in cui lavoriamo (fa parte di una squadra di tre assistenti, tutte donne, guidata da Alberto, ndr), anche se industrializzato, è quasi artigianale per come vengono curati i minimi dettagli. I riferimenti costanti di mio padre sono gli Anni 50 - fanno parte del suo immaginario basato sull’idea di eleganza assoluta, senza tempo - il cinema, il viaggio, i sarti inglesi di Savile Row, il guardaroba maschile, infatti ama curare moltissimo anche se stesso. E adora l’India, che torna sempre nelle sue collezioni, lo affascina il senso del colore di quel Paese. Ovviamente in questa visione siamo perfettamente sintonizzati, se così non fosse sarei già altrove». Ma in Biani
cosa c’è di Angela? «Uno sguardo diverso nella strada. Sono la più giovane del suo team, ho una percezione più immediata di ciò che accade nel quotidiano, viaggio spesso, appena posso mi calo nelle influenze metropolitane di New York, faccio molta ricerca vintage. In questo modo gli do una mano a individuare proporzioni più attuali e materiali sempre più innovativi, gran parte del nostro percorso stilistico prende il via proprio dai tessuti, praticamente tutti italiani con qualche made in England, per arrivare al giusto fit di un pantalone. E finché non lo troviamo andiamo avanti a oltranza, cosa che non accade negli altri uffici stile. Siamo un’azienda medio-piccola, non potendo competere con i big in termini di comunicazione, l’unico modo per confrontarci sul mercato è puntare tutto sulla qualità». Proprio per il suo background classico e sartoriale è stata arruolata come direttrice artistica di Seafarer (la prima collezione nell’autunno/inverno 2013), i jeans che i marinai americani indossavano agli inizi del Novecento diventati negli Anni 60-70 i pantaloni preferiti di grandi star, da B.B. a Jane Birkin. Impossibile non notare che anche Alberto ha iniziato con il denim (Fiorucci Jeans e dopo King’s Jeans di Adriano Goldschmied): vizio di famiglia o passaggio obbligato della formazione stilistica? «Il jeans è un esercizio meraviglioso, prima di buttarmi in questa avventura ero un’outsider assoluta. Mi sono avvicinata a Seafarer con l’idea di affrontare il denim come un tessuto, non volevo saperne di trattamenti pesanti, di lavaggi strani, per me la tela doveva essere pura, un solo lavaggio rinse, fit perfetto, vestibilità super sexy. Ho scoperto che si possono fare cose pazzesche. All’inizio è stata dura, lo ammetto, Seafarer è un brand (oggi in mani italiane, ndr) e allo stesso tempo un preciso modello a vita alta e a zampa. Tre anni fa eravamo in pieno skinny boom, non è stato facile farlo digerire anche a chi ha finanziato il progetto ma a darci credibilità, alla fine, è stata proprio l’idea di essere così focalizzati. Nel corso delle stagioni ci siamo permessi qualche strappo - fit boy, vita bassa, salopette - ma il core business resta quel jeans declinato in otto vestibilità diverse». Angela ha affrontato questo progetto consapevole del rischio che implica il metter mano a un marchio dalla storia e dalla personalità così definite, ma non si è tirata indietro, anzi. «Perché proprio io? Perché arrivo da un altro mondo, dove si fanno pantaloni classici a regola d’arte e questo era fondamentale per mantenere il target, alto e molto glamorous, del brand. Il messaggio che abbiamo voluto imporre è che Seafarer non è solo un jeans, è un pantalone, appunto. Il che, in termini di posizionamento rende tutto più complicato e ti costringe a qualche compromesso. Per esempio, quando mi suggeriscono: “Fai più skinny”. Ok, si può fare ma, dico, che cosa c’entra con noi? Non saremo mai competitivi su quel terreno. Lo stesso con Biani, ci hanno chiesto più femminilità, ma noi siamo altro. Per un po’ ci siamo adattati, con un notevole sforzo rispetto alle nostre convinzioni, poi da qualche stagione il vento è cambiato, è come se ci fossimo riappropriati della nostra identità. E percorrere una strada chiara, con un taglio molto maschile e al tempo stesso iper femminile, ci ha premiati. Piegarsi troppo alle volontà del mercato non è sempre vincente». Per chi non lo sapesse, la retta via di Biani è fatta di cappotti, giacche e, più di tutto, pantaloni impeccabili. I preferiti di Angela hanno le pince (i più difficili da realizzare e con una mascolinità non sempre immediatamente comprensibile), ma la scelta dipende molto dall’umore, proprio come quando deve decidere un film. «Potrei vedere il cinepanettone e il capolavoro concettuale, non ho pregiudizi. In the Mood for Love, del regista Wong Kar-wai, è stata la mia tesi di laurea, ma adoro anche Wes Anderson». E se dovesse vestire un’attrice? «Forse Valeria Bruni Tedeschi, è una donna interessante. Ma non mi dispiacerebbe vedere una super sexy con i nostri abiti androgini, sarebbe un bel contrasto. Altrimenti tutto troppo intellettuale, che noia!