Cattivi Propositi
Di Maria Laura Rodotˆ
poi va be’, una si sposa veramente. Con la donna che ama. In un altro Paese, dove si può. L’altra volta, quella normale, era stata in Campidoglio, in pompa magna, ma con minore convinzione. Mi ero sposata come si sposano le donne di 30 anni, dopo molti casini, per mettere ordine nella mia vita. Fu l’inizio di un incredibile disordine, ovviamente, però alla fine è nata una figlia meravigliosa, non di mio marito, di un altro. Questa volta è stata in uno di quei palazzi pubblici che imitano la grande architettura italiana in modo goffo e sontuoso, la City Hall, insomma il Comune di San Francisco. Senza famiglie, amici coi pupi, parenti ignoti, imbucati. Solo noi due, in fila con tante coppie, etero e gay, tante, come noi, vestite di bianco (l’altra volta avevo un tailleur rosso, sono segnali che vanno capiti; lo facevo e lo faccio di lavoro, cercare di interpretare i segnali scemi, ma non lo so fare con me stessa). Tonia aveva una camicia bellissima presa in un negozio per losangeline casual chic. Io - pidocchia conclamata - un vestito lungo bianco di lino in saldo da Gap per 17 dollari e 90 (e me ne vanterò finché avrò fiato). Ci serviva un testimone che firmasse per noi. Abbiamo chiesto alla coppia davanti. Lui ha detto di sì, lei - forse un pochino omofoba - lo ha portato via. Ha firmato per noi il ragazzo della coppia successiva, un giovane Native American con una lunga treccia nera, lì per sposarsi con un ragazzo coi pantaloni da rapper. Il nostro funzionario era perfetto. Sui 60 e con i baffi, in un vecchio film gli avrebbero dato la parte del giudice di pace. Siamo andate con lui e altre coppie che parevano una rappresentanza dell’intera umanità - bianchi, neri, asiatici, latinos, gay, lelle, vecchi, giovani, gente in bermuda e spose da matrimonio napoletano - alla Rotunda, sotto la cupola, vicino a dove fu assassinato Harvey Milk. Il suo busto è lì, e sorride agli sposi. Le spose piagnone non scoppiano in lacrime solo perché somiglia in modo buffo a Sean Penn. Poi, ti sposi veramente. È matrimonio, non le malformulate “nozze gay” che paiono una cosa da carro allegorico. Il giudice da vecchio film ha una toga nera. Appena sposati il maschio beta e l’omofoba in tenuta caramellata, tocca a noi. Fa tutte le domande che si sentono al cinema. La sposa sensata e mezza tedesca risponde a tono. La sposa terrona vestita Gap, soprannominata “Fast and Furious”, è agitatissima e vuole che faccia presto, cerca di velocizzare la formula di rito inserendosi con “yeah”, “sure”, e pure “absolutely”. Poi ci si scambiano le fedi. Poi: “Vi dichiaro sposate secondo la legge del Great State of California e degli Stati Uniti d’America”. Ci si bacia. Gli altri sposi e i loro amici e i turisti nella Rotunda applaudono. Siamo sposate veramente, anche se in Italia no, ché Alfano non vuole. Ci facciamo duemila selfie, uno a figura intera nello specchio dei bagni. Una turista lombarda ci vede e porta via le bambine. “E chi se ne frega”, diranno giustamente le lettrici. Però no, vi chiedo di fregarvene, per le bambine portate via: se una di loro, tra qualche anno, scoprirà di essere lesbica, o bisessuale, come la vivrà? Per i gay e le lelle che non possono permettersi matrimoni all’estero, e fecondazioni assistite e adozioni di quelli che per loro sono figli. E che sono vittime, in Italia, ancor più che di discriminazione, di ipocrisia. Specie le donne. Le criptolesbiche che non hanno mai avuto il coraggio di dirlo a se stesse, o di provare, e sono vissute infelici. Le lesbiche colte e ben connesse, per decenni hanno teorizzato che fare coming out non era necessario, anzi era una mezza cafonata. Le donne che coming out lo hanno fatto, e hanno perso, più che amici, amiche; improvvisamente trasformatesi in italianissime adoratrici del fallo, intolleranti, arrabbiate. Però se ne trovano di nuove, straordinarie (e si viene festeggiate dagli amici della figlia, ragazzi/e straordinari, che la nostra classe dirigente criptopirla, si teme, non merita).