’68 non ti conosco
oggi i giovani ne sanno POCO o niente. Ma non è il caso di scandalizzarsi: nessuna GENERAZIONE è tenuta a occuparsi di quello che è successo mezzo secolo prima. Eppure, molto dell’epoca CONTEMPORANEA è stato plasmato da quell’ENTUSIASMO
I ragazzi di tutto l’Occidente si misero a gridare gli STESSI SLOGAN, ad ascoltare la stessa musica e a indossare gli stessi vestiti. In compenso, smisero di tagliarsi i CAPELLI
IL ’68 FU un movimento virale, il primo della storia. Esplose e si diffuse come se Internet fosse già stato inventato. In pochi mesi i giovani di tutto l’Occidente si misero a gridare gli stessi slogan, ad ascoltare la stessa musica e a indossare gli stessi vestiti. In compenso, smisero di tagliarsi i capelli. Fu insieme conformismo e rivolta. Però, se vai a cercarlo in un liceo oggi, il ’68, non trovi più nessuno che ne sappia qualcosa. Soltanto tre hanno osato rispondermi. Un ragazzo grasso ha detto: «È il numero di maglia di Ricardo Rodríguez del Milan!»; una ragazza con una specie di eskimo si è stretta nelle spalle: «Boh, è qualcosa tipo una rivolta?»; e un tipo brufoloso ha sghignazzato: «Il 68 non lo conosco, però il 69 sì!», ignorando che anche quella battuta era nata dal ’68. Non è il caso di scandalizzarsi: per un teenager di oggi il ’68 è distante quanto la Prima guerra mondiale per un diciottenne di allora. Nessuna generazione è tenuta a occuparsi troppo di quello che è successo mezzo secolo prima. Più si invecchia, più il tempo si accorcia: per un centenario un anno dura un giorno, per un neonato è lungo una vita. Quello che si è perduto con la memoria del ’68 non sono le mode - i capelli lunghi, i vestiti o le canne, che resistono, anzi prosperano - è l’idea che la giovinezza possa trasformarsi in azione politica, è l’istinto a reclamare per sé il diritto di godere del mondo e, se mai, di cambiarlo. Storia e politica sono anche conseguenze di fattori demografici. Il ’68 io, per esempio, l’ho capito un sabato sera a Tirana, in Albania. Ero andato a fare un giro a piedi sul lungo “bulevardi” a forma di fascio littorio, sul quale il regime comunista fece costruire i suoi palazzi e le villette in stile realista-brianzolo di Enver Hoxha e dei suoi gerarchi. A Milano, o in qualsiasi altra città d’Occidente, un quarantenne in jeans e maglietta si sarebbe sentito a proprio agio, invece quella sera a Tirana le strade erano invase da giovani, ragazze e ragazzi sui 20 anni che si riversavano nei viali, risalivano le vie, ridevano e si sfioravano con l’energia di chi ha il tempo e la forza di prendersi il mondo. In quel contesto demografico, apparivo incongruo, fuori posto, costretto dall’implacabile confronto a farmi carico, anche nell’abbigliamento, della mia età. Il ’68 fu un po’ come quel sabato sera in Albania. Lo stesso spaesamento dovettero provarlo gli adulti che alla fine degli Anni 60 si ritrovarono circondati da orde di ragazzi. Il boom di nascite del dopoguerra ringiovanì l’Occidente e ribaltò i rapporti di forza tra le generazioni. Se oggi i giovani arrivano per mare dai Paesi più poveri (come appunto l’Albania), allora l’invasione fu interna: il mondo dei padri fu invaso da quello dei figli.
LI RICORDO bene i sessantottini. Nella mia mente sono sempre inquadrati dal basso, perché ero un bambino. Rammento che i maschi indossavano barbe e baffi per sembrare più vecchi e che, come molti ragazzi, mischiavano la voglia di fare e di esistere con una certa tendenza a drammatizzare e al manicheismo, oltre che a dosi ragguardevoli di stupidità. Nel ’68 i giovani si fecero storia, interruppero la catena della tradizione scandita dal passaggio ordinato del testimone dai padri ai figli. Per la prima volta, dichiararono in massa il proprio diritto a decidere, rifiutando di essere carne da macello nelle guerre dichiarate dai padri. Non è un caso che tutto nacque dal pacifismo, dalle proteste in America contro la guerra in Vietnam, dal ricordo della Seconda guerra mondiale in Europa. Ma
Quello che si è perduto con la memoria del sessantotto è l’idea che la gioventù possa trasformarsi in azione e reclamare il diritto di cambiare ogni cosa
la rivolta contro la guerra dei padri si trasformò presto in guerra tra i figli. Basta scorrere l’elenco dei morti per capire che il ’68 fu anche una guerra tra ragazzini: Saverio Saltarelli, il primo caduto tra gli studenti, aveva 23 anni, Antonio Annarumma, il primo tra i poliziotti, ne aveva 22, Claudio Varalli aveva 17 anni come Sergio Ramelli, Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, invece, 18. La struttura demografica di una società è la sua struttura politica fondamentale, perché impone la distribuzione delle risorse e indirizza l’economia. Nel ’68 i ragazzi si illudevano di sovvertire il capitalismo, e intanto lo rivitalizzavano facendosi essi stessi mercato. Il ’68 fu, cioè, un processo politico in gran parte inconsapevole: più che costruire un futuro, intuì il tempo che stava arrivando e lottò per costruirlo. Per questa ragione, molto del mondo in cui vive chi ha oggi 20 anni è stato plasmato da quella guerra e da quell’entusiasmo. Non è tanto questione di libertà politiche e civili, sebbene provengano anche quelle in parte dalla spinta di allora. È questione di centralità politica ed economica dei giovani. Questa è stata la grande conquista e la grande sconfitta del ’68: i ragazzi, che allora in Occidente erano la maggioranza, pretendevano di cambiare il mondo, e invece glielo offrirono in pasto. Pretendevano di sovvertire il capitalismo e invece ne diventarono l’ingranaggio fondamentale.
NELLA SECONDA metà del Novecento la giovinezza diventa un target, si piazza al centro della produzione e della comunicazione. Negli Anni 70 si plasma la furia con cui, ancora oggi, i ragazzi si definiscono attraverso le cose che indossano e possiedono, insomma consumano, e la loro tendenza a definirsi imitandosi, per somiglianza invece che per differenza. Le mode giovanili diventarono di massa per la prima volta, per l’ultima indipendentemente dai marchi. I capelli lunghi, i jeans a zampa, le gonne a fiori o i sandali bastavano. Si cercavano oggetti, non firme. Un decennio più tardi, le cose erano state inghiottite dai loghi: Timberland, Moncler, Burlington, Levi’s. Le icone avevano preparato l’avvento dei marchi. Come chiede Checco Zalone in una delle battute più intelligenti del cinema italiano: “Della Che Guevara fate anche il borsello?”. Fu questa la vittoria più grande e la sconfitta più triste del ’68: aver convertito in consumo l’energia e l’insicurezza dei giovani, mettendoli al centro delle strategie di produzione e comunicazione. Fu un processo di addomesticamento, ma anche un passo in avanti visto che, prima, quell’energia veniva trasformata in forza militare.
CON GLI stessi marchi addosso e gli stessi telefonini in mano, i ragazzi non sanno che cos’è stato il ’68, ma sanno di esistere attraverso ciò che possiedono e hanno imparato il potere delle cose nel definire l’identità sociale e individuale di ognuno. È che i rapporti di forza si sono ribaltati di nuovo: sono i vecchi - cioè i giovani sessantottini di allora - a invadere lo spazio dei giovani e a usarli, a tenerli calmi, vendendogli cose. Nel 1971 in Italia per ogni ultrasessantenne c’erano due ventenni. Nel 2017 il 20,7% ha meno di 20 anni, il 37,4 ne ha più di 60. Di fronte a questa sproporzione, ai giovani non rimane che arrendersi e accontentarsi. Per questo appaiono sazi e tristi. Sanno di non essere abbastanza numerosi per reclamare qualcosa di più.