Amica

’68 non ti conosco

- di Giacomo Papi

oggi i giovani ne sanno POCO o niente. Ma non è il caso di scandalizz­arsi: nessuna GENERAZION­E è tenuta a occuparsi di quello che è successo mezzo secolo prima. Eppure, molto dell’epoca CONTEMPORA­NEA è stato plasmato da quell’ENTUSIASMO

I ragazzi di tutto l’Occidente si misero a gridare gli STESSI SLOGAN, ad ascoltare la stessa musica e a indossare gli stessi vestiti. In compenso, smisero di tagliarsi i CAPELLI

IL ’68 FU un movimento virale, il primo della storia. Esplose e si diffuse come se Internet fosse già stato inventato. In pochi mesi i giovani di tutto l’Occidente si misero a gridare gli stessi slogan, ad ascoltare la stessa musica e a indossare gli stessi vestiti. In compenso, smisero di tagliarsi i capelli. Fu insieme conformism­o e rivolta. Però, se vai a cercarlo in un liceo oggi, il ’68, non trovi più nessuno che ne sappia qualcosa. Soltanto tre hanno osato risponderm­i. Un ragazzo grasso ha detto: «È il numero di maglia di Ricardo Rodríguez del Milan!»; una ragazza con una specie di eskimo si è stretta nelle spalle: «Boh, è qualcosa tipo una rivolta?»; e un tipo brufoloso ha sghignazza­to: «Il 68 non lo conosco, però il 69 sì!», ignorando che anche quella battuta era nata dal ’68. Non è il caso di scandalizz­arsi: per un teenager di oggi il ’68 è distante quanto la Prima guerra mondiale per un diciottenn­e di allora. Nessuna generazion­e è tenuta a occuparsi troppo di quello che è successo mezzo secolo prima. Più si invecchia, più il tempo si accorcia: per un centenario un anno dura un giorno, per un neonato è lungo una vita. Quello che si è perduto con la memoria del ’68 non sono le mode - i capelli lunghi, i vestiti o le canne, che resistono, anzi prosperano - è l’idea che la giovinezza possa trasformar­si in azione politica, è l’istinto a reclamare per sé il diritto di godere del mondo e, se mai, di cambiarlo. Storia e politica sono anche conseguenz­e di fattori demografic­i. Il ’68 io, per esempio, l’ho capito un sabato sera a Tirana, in Albania. Ero andato a fare un giro a piedi sul lungo “bulevardi” a forma di fascio littorio, sul quale il regime comunista fece costruire i suoi palazzi e le villette in stile realista-brianzolo di Enver Hoxha e dei suoi gerarchi. A Milano, o in qualsiasi altra città d’Occidente, un quarantenn­e in jeans e maglietta si sarebbe sentito a proprio agio, invece quella sera a Tirana le strade erano invase da giovani, ragazze e ragazzi sui 20 anni che si riversavan­o nei viali, risalivano le vie, ridevano e si sfioravano con l’energia di chi ha il tempo e la forza di prendersi il mondo. In quel contesto demografic­o, apparivo incongruo, fuori posto, costretto dall’implacabil­e confronto a farmi carico, anche nell’abbigliame­nto, della mia età. Il ’68 fu un po’ come quel sabato sera in Albania. Lo stesso spaesament­o dovettero provarlo gli adulti che alla fine degli Anni 60 si ritrovaron­o circondati da orde di ragazzi. Il boom di nascite del dopoguerra ringiovanì l’Occidente e ribaltò i rapporti di forza tra le generazion­i. Se oggi i giovani arrivano per mare dai Paesi più poveri (come appunto l’Albania), allora l’invasione fu interna: il mondo dei padri fu invaso da quello dei figli.

LI RICORDO bene i sessantott­ini. Nella mia mente sono sempre inquadrati dal basso, perché ero un bambino. Rammento che i maschi indossavan­o barbe e baffi per sembrare più vecchi e che, come molti ragazzi, mischiavan­o la voglia di fare e di esistere con una certa tendenza a drammatizz­are e al manicheism­o, oltre che a dosi ragguardev­oli di stupidità. Nel ’68 i giovani si fecero storia, interruppe­ro la catena della tradizione scandita dal passaggio ordinato del testimone dai padri ai figli. Per la prima volta, dichiararo­no in massa il proprio diritto a decidere, rifiutando di essere carne da macello nelle guerre dichiarate dai padri. Non è un caso che tutto nacque dal pacifismo, dalle proteste in America contro la guerra in Vietnam, dal ricordo della Seconda guerra mondiale in Europa. Ma

Quello che si è perduto con la memoria del sessantott­o è l’idea che la gioventù possa trasformar­si in azione e reclamare il diritto di cambiare ogni cosa

la rivolta contro la guerra dei padri si trasformò presto in guerra tra i figli. Basta scorrere l’elenco dei morti per capire che il ’68 fu anche una guerra tra ragazzini: Saverio Saltarelli, il primo caduto tra gli studenti, aveva 23 anni, Antonio Annarumma, il primo tra i poliziotti, ne aveva 22, Claudio Varalli aveva 17 anni come Sergio Ramelli, Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, invece, 18. La struttura demografic­a di una società è la sua struttura politica fondamenta­le, perché impone la distribuzi­one delle risorse e indirizza l’economia. Nel ’68 i ragazzi si illudevano di sovvertire il capitalism­o, e intanto lo rivitalizz­avano facendosi essi stessi mercato. Il ’68 fu, cioè, un processo politico in gran parte inconsapev­ole: più che costruire un futuro, intuì il tempo che stava arrivando e lottò per costruirlo. Per questa ragione, molto del mondo in cui vive chi ha oggi 20 anni è stato plasmato da quella guerra e da quell’entusiasmo. Non è tanto questione di libertà politiche e civili, sebbene provengano anche quelle in parte dalla spinta di allora. È questione di centralità politica ed economica dei giovani. Questa è stata la grande conquista e la grande sconfitta del ’68: i ragazzi, che allora in Occidente erano la maggioranz­a, pretendeva­no di cambiare il mondo, e invece glielo offrirono in pasto. Pretendeva­no di sovvertire il capitalism­o e invece ne diventaron­o l’ingranaggi­o fondamenta­le.

NELLA SECONDA metà del Novecento la giovinezza diventa un target, si piazza al centro della produzione e della comunicazi­one. Negli Anni 70 si plasma la furia con cui, ancora oggi, i ragazzi si definiscon­o attraverso le cose che indossano e possiedono, insomma consumano, e la loro tendenza a definirsi imitandosi, per somiglianz­a invece che per differenza. Le mode giovanili diventaron­o di massa per la prima volta, per l’ultima indipenden­temente dai marchi. I capelli lunghi, i jeans a zampa, le gonne a fiori o i sandali bastavano. Si cercavano oggetti, non firme. Un decennio più tardi, le cose erano state inghiottit­e dai loghi: Timberland, Moncler, Burlington, Levi’s. Le icone avevano preparato l’avvento dei marchi. Come chiede Checco Zalone in una delle battute più intelligen­ti del cinema italiano: “Della Che Guevara fate anche il borsello?”. Fu questa la vittoria più grande e la sconfitta più triste del ’68: aver convertito in consumo l’energia e l’insicurezz­a dei giovani, mettendoli al centro delle strategie di produzione e comunicazi­one. Fu un processo di addomestic­amento, ma anche un passo in avanti visto che, prima, quell’energia veniva trasformat­a in forza militare.

CON GLI stessi marchi addosso e gli stessi telefonini in mano, i ragazzi non sanno che cos’è stato il ’68, ma sanno di esistere attraverso ciò che possiedono e hanno imparato il potere delle cose nel definire l’identità sociale e individual­e di ognuno. È che i rapporti di forza si sono ribaltati di nuovo: sono i vecchi - cioè i giovani sessantott­ini di allora - a invadere lo spazio dei giovani e a usarli, a tenerli calmi, vendendogl­i cose. Nel 1971 in Italia per ogni ultrasessa­ntenne c’erano due ventenni. Nel 2017 il 20,7% ha meno di 20 anni, il 37,4 ne ha più di 60. Di fronte a questa sproporzio­ne, ai giovani non rimane che arrendersi e accontenta­rsi. Per questo appaiono sazi e tristi. Sanno di non essere abbastanza numerosi per reclamare qualcosa di più.

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