Il giardiniere filosofo
di Mariatilde Zilio
CI SONO LUOGHI che ci abitano, ci formano, guidano le nostre scelte e ci accompagnano per tutta la vita. Sono dentro di noi sebbene a volte restino nascosti, per poi apparire improvvisamente, con una sensazione, un ricordo, un profumo. E riconoscerli è un attimo.
Così è anche per Luciano Giubbilei, garden designer cresciuto a Siena, accanto a uno dei luoghi più suggestivi d’Italia, piazza del Campo, unica e originale per la forma a conchiglia e per la sua integrità architettonica. Abitava lì vicino quando era bambino, negli Anni 70, e ci andava per mano con nonna Domenica, classe 1908, che si prendeva cura di lui. Ancora oggi, ogni volta che ripensa a quella piazza, ne capisce il valore profondo, la poesia, la semplicità, racconta. Anni dopo, con questo scenario unico negli occhi e nel cuore, parte. La meta è Londra dove studia garden design, una passione maturata giovanissimo nella campagna toscana. Ma torniamo alla piazza, là dove tutto è cominciato. «Ho iniziato a occuparmi di gardening partendo da questa immagine e da un legame profondo. Non ho un concetto preciso di giardino contemporaneo, penso allo spirito della tradizione italiana, giapponese, ma pure inglese, francese. Senza la conoscenza dei nostri concetti architettonici è difficile poterne disegnare uno. Noi, in genere, abbiamo molto rispetto per la struttura, i materiali, il contesto, siamo veramente una grande scuola». Sono anni di lavoro duro in Inghilterra - avevo la fortuna di avere una compagna
che mi ha dato la possibilità di pensare solo a quello, dice - e anche di successi: vince diversi Best Residential Garden assegnatigli dalla British Association of Landscape Industries. «I giardini che facevo all’inizio della mia carriera erano verdi, architettonici, essenziali, un po’ all’italiana e un po’ alla giapponese».
Tra le sue piante preferite, infatti, ci sono i ciliegi e gli aceri, poi i cardi e le querce sempreverdi, «dal colore così intenso che dà profondità». Italia e poi Giappone, d’accordo, ma Londra inizialmente che cosa gli ha dato? «L’Inghilterra è una delle nazioni più all’avanguardia in questo campo perché ha un’immensa cultura ma anche grande integrità, sotto il profilo sia pratico sia teorico», racconta.
«HO IMPARATO
due cose fondamentali, la prima è che per fare un giardino occorre tempo: per studiare, avere uno scambio continuo di idee con gli altri, lavorare con arbusti, cespugli, alberi e capire lo spazio che si vuole creare. Stando qui, mi sono misurato con tantissimi esperti e questo si è rivelato molto stimolante per la mia crescita. La seconda è stata la voglia di scoprire anche la parte “selvaggia” del gardening, nel senso di osservare come le piante crescono e interagiscono con la natura». Continua ad approfondire, a confrontarsi, a cercare strade diverse. E arriva così la svolta fiorita, la sfida di progettare con le perenni a fioritura colorata, che segna una nuova direzione nel suo lavoro: il giardino, disegnato per Laurent-Perrier, vince la medaglia d’oro al Chelsea Flower Show. Decide di imparare di più sui fiori e si cerca un mentore. Lo trova in Fergus Garrett, capo giardiniere del Great Dixter, storica presenza a Northiam, nel Sussex orientale. Questa collaborazione trasforma la sua visione e il suo modo di lavorare. «Garrett è uno dei più grandi in questo campo. Mi diceva sempre: “Luciano, le piante vanno da sole eh, tranquillo, non ti preoccupare. Tu pensa solo a disporle come e dove vuoi e poi tutto succede”. È stato molto importante per me, mi ha insegnato ad avere fiducia in quello che faccio».
C’è una frase che colpisce del fondatore di Great Dixter, Christopher Lloyd, giardiniere carismatico, talvolta controverso, e scrittore, scomparso nel 2006: “Se non ami le sorprese, non dovresti fare giardinaggio perché il giardinaggio è pieno di sorprese”. E forse, per uno scrittore come Lloyd, che viveva lì in una casa del quindicesimo secolo, è stato anche una costante fonte di ispirazione. Può esserlo ancora oggi? «Totalmente. Qualche tempo fa ero a Formentera, c’erano stati due giorni di tempesta e di vento, tutti gli alberi, i fiori e i cespugli si muovevano ondeggiando secondo le correnti d’aria, era meraviglioso». Oltre a quello sull’isola spagnola, sono molti i lavori che sta seguendo: per citarne solo alcuni, negli Stati Uniti (in West Virginia, a Dallas e a New York), poi in Toscana e nell’amata Siena, e in Inghilterra, al confine con la Scozia, per il giardino di un castello, il suo primo progetto aperto al pubblico.
TORNA SEMPRE
prepotentemente nelle sue parole la volontà di capire come le piante reagiscono agli agenti atmosferici, all’acqua, al vento, alla neve. Giubbilei è convinto che dalla natura si possa imparare, basta avere la sensibilità di osservare, in un prato o in un bosco, le erbe, gli arbusti spontanei, i fiori. Vedere come crescono e si armonizzano tra loro è un grande insegnamento perché, per fare giardinaggio, sporcarsi le mani è fondamentale. «Si fa un gran parlare di design, ed è corretto, questa professione lo comprende ma non lo esaurisce», dice. «I giardini non si possono solo disegnare, si fanno. Con la terra, l’amore, la cura». Come scriveva Russell Page in Edu
cazione di un giardiniere, il pollice verde è l’estensione di un cuore verde.
Dalla pratica alla teoria, escono due libri (editi da Merrell): il primo, The Gardens of Luciano
Giubbilei, di Andrew Wilson, Tom StuartSmith, con le foto di Steven Foster, e il secondo
The Art of Making Gardens, firmato dallo stesso Giubbilei. Entrambi descrivono i metodi e le fonti di ispirazione, l’approvvigionamento di piante, gli artisti che hanno lavorato e la