La mia casa è il mondo
Tessuti polinesiani, legni dell’Indonesia, bambù delle Seychelles, pietre raccolte a Ibiza. Tutto CONVIVE E SI MESCOLA come nella natura nel loft milanese della designer Giada Barbieri. Uno spazio aperto, anche mentale, per ritrovare impronte e tracce di una vita
CI SONO CASE PER TORNARE e riposarsi e case per non tornare mai ed essere sempre altrove. Quella di Giada Barbieri appartiene a questa seconda specie, nel senso botanico, animale e atmosferico. È a Milano, in un quartiere della città dove, se apri le finestre, ascolti un assolo di flauto, una prova d’orchestra. Ma dentro la musica è un’altra. Ovunque ti giri senti l’acqua di un fiume, i bambù giganti che ondeggiano sulla cima delle montagne, il mare, il risveglio degli uccelli e il fuoco, quello del vulcano e di un falò sulla spiaggia. Viaggiatrice eclettica e designer raffinatissima, Barbieri vive tra l’Indonesia e l’Italia. A 16 anni seguiva nei fondali delle Seychelles lo zio, Gian Paolo Barbieri, uno dei più noti fotografi di moda. A 19 ha lasciato la scrivania nella casa editrice del padre, lo scrittore Renzo Barbieri, ed è volata a Bali. Doveva essere un anno sabbatico. Ne sono seguiti 15. E altri 15 di andate e ritorni.
Il suo loft unisce varie direzioni di viaggio e il ritorno a Milano pochi anni fa, si compensa con i ricordi di una vita in Oriente.
Il ritorno a Milano è stato una nuova pagina bianca, per questo ho deciso di rifare completamente la casa. Quello che era uno studio di avvocati in un palazzo degli Anni 50 è diventato un open space. Ho voluto mantenere la memoria di questa riscrittura e ho lasciato grezzo l’intonaco sopra il letto, come un arazzo informale di due tonalità di grigio. Era la natura “primordiale” della casa e andava rispettata.
Anche nelle sue creazioni lei riporta alla luce la bellezza originale dei materiali...
Mi piace rifinire personalmente ogni oggetto, lo levigo e lo impreziosisco con inserti di osso, di perle, di ferro vecchio spazzolato e nelle fenditure del legno inserisco graffe di ferro antico e persino colature di stagno. Quando esce dalle mie mani, dopo essere stato sbozzato a Bali, è ormai un pezzo unico.
Bali 1990, inizia così il diario di uno spirito libero. Come era l’isola?
Era il centro di un arcipelago di incontri, di amicizie, di idee. Era facile, bello conoscere tante persone, c’era una grande semplicità, un’energia fortissima. E poi la natura, tropicale, meravigliosa. Ti guardavi intorno e la materia prima per realizzare i tuoi sogni era lì. Dovevi fare solo quello che le tribù dell’Indonesia praticano da secoli, mettere in risonanza l’uomo e gli alberi, il mare, le rocce, il sole. Lo spirito delle mie collezioni è nato così.
Primo oggetto, una ciotola di legno.
Ho cominciato a disegnare forme minimali. La ciotola che ha dato il via a tutto doveva diventare una candela, ma era così bella che l’ho lasciata vuota e ho fatto bene perché è piaciuta subito moltissimo. L’aveva presa Boffi e Don
“QUANDO LAVORO MI PIACE RIFINIRE PERSONALMENTE OGNI OGGETTO, LO LEVIGO, E LO IMPREZIOSISCO CON INSERTI DI OSSO, METALLI E PERLE”
na Karan aveva fatto un’ordinazione importante. Un successo che mi ha spinto a rimanere a Bali.
Cronaca di una giornata?
Partivo tutte le mattine da Canggu, dove abitavo, salivo su una Yamaha nera, decisamente vintage, e iniziavo il viaggio a ritroso nel tempo. Risaie, foreste, nebbia al sorgere del giorno, e poi scorciatoie che avevo imparato a riconoscere e finalmente dopo un’ora e mezza arrivavo in un villaggio di intagliatori di legno, il più remoto, quasi sotto il vulcano Kintamani. E lì, con i miei schizzi e un vocabolario scritto secoli prima da un missionario italiano, ho creato i contatti e la prima collezione.
Gli sgabelli sono diventati un “feticcio”.
In una casa sono la pietra miliare. Si parte da quel piccolo monolite e intorno si costruisce l’arredo.
Poi tavoli, sedie, cornici per le fotografie di Gian Paolo Barbieri, tutto in legno, a siglare l’alleanza più profonda con la natura.
Volevo che ogni oggetto fosse un pezzo unico, una scultura viva in grado di riassumere la ricchezza dell’arte indonesiana, e dall’altra le mie passioni, Brancusi, Luis Barragán e il design milanese. Rigore e presenza scenica. I legni delle foreste mi hanno permesso di giocare e alternare la dolcezza del benao, un’essenza chiara e morbida, con l’intensità dell’ironwood, durissimo e scuro. I Dayak lo usano per gli amuleti contro le tigri. Nella sua casa milanese c’è anche una tigre.
E pure un leone. Erano di mio padre, li teneva nel suo studio e da quando è mancato li ho sempre con me. Erano il suo lato selvatico, lui che non viaggiava mai e odiava gli aerei, tutto il contrario di suo fratello. In fondo sono figlia di entrambi e su uno scaffale della libreria ho i libri dell’uno e dell’altro. In mezzo c’è un mio ritratto, a unirli, a unirmi a loro.
La sensazione in questa casa è di socialità, come una piccola Bali.
Volevo ricreare uno spazio, anche mentale, per ritrovarmi vicino a ogni momento della mia vita. I miei mobili sono fatti anche per questo. Sulla consolle in salotto, per esempio, ho allineato tronchi di bambù gigante delle Seychelles, scatole di lacca della Cambogia, bracciali del Karnataka. Tutto deve respirare insieme, come nella natura, la pelle di nabuk accanto a una pietra con incisioni rupestri proveniente da Timor Est, un tessuto polinesiano, il tapa, ricavato dalla corteccia del gelso e un vaso ritrovato nei fondali delle Isole della Sonda. A tirare le fila ci sono i miei candelabri in ironwood, esilissimi. Li ho chiamati Masai.
Da dove viene la catena vicino al camino?
Da una fabbrica dismessa in via Mecenate, a Milano. L’ho trovata con Gian Paolo. E quei sassi?
Li ho raccolti sulla spiaggia di Cala Codolar a Ibiza. Che cosa sono roccia, ferro e fuoco insieme? Direi che sono un bellissimo autoritratto.
“AL MIO RIENTRO IN ITALIA, HO RIFATTO COMPLETAMENTE L’APPARTAMENTO. ERA UNO STUDIO DI AVVOCATI IN UN PALAZZO ANNI 50, È DIVENTATO UN OPEN SPACE”