Il gusto pieno della vita
Il piacere unico dell’aroma del caffè. Il profumo di una pizza verace. Con il Covid-19 tutto ciò si annulla, senza preavviso. Per sopravvivere in questa TEMPORANEA bolla di isolamento, non resta altro che affidarsi ai ricordi olfattivi, potenti come miraggi. In attesa di guarire l’anima e di ritrovare il mondo perduto
“PARLA CON ME”. Non saprei dire con precisione perché, ma era questa la domanda che il mio corpo sembrava urlarmi dopo essere stato colpito dal Covid-19. Sì, lui urlava, io cercavo di mettermi in ascolto ma la verità è che non (lo) sentivo. È che, non pago di avermi già tolto la libertà di muovermi, il piacere profondo di abbracciare un’amica, di festeggiare il compleanno di mia madre, come ultimo “regalo” il virus mi aveva spinta dentro una bolla ovattata, dove odori e sapori erano solo un concetto. Deve essere successo subito dopo la batosta - per me soprattutto emotiva del Primo Tampone Positivo: che fastidio la cancellazione della privacy, quel dover ricostruire i contatti della settimana precedente, tracciarli insomma, quel dover dichiarare al mondo la mia fallibilità; e che vergogna, che senso di colpa al pensiero di aver contagiato altri, colleghi, amici, parenti, la parrucchiera di fiducia, il rider di Deliveroo o il fattorino di Amazon.
Ci sono rimasta così male, non me ne capacitavo: io, un numero nel bollettino del Tg, uguale a tutti gli altri comuni mortali, nonostante la mascherina fashion sempre pulita, il distanziamento selettivo, il disinfettante di alta profumeria. Non quello della farmacia all’angolo, no, ma una soluzione persino sostenibile che le mani le igienizza, però si lascia dietro un sentore di tuberosa. Niente a che vedere con l’odore di ospedale, di medicine, con l’angoscia rigurgitata h24 dal televisore, dallo schermo retroilluminato del telefonino o del tablet, sempre lì a portata di digitazione compulsiva.
Non potevo sapere in quel momento che mi sarebbe mancato anche l’odore acre del disinfettante; non prima che i dieci giorni tra il Tampone Numero Uno e il Tampone Numero Due mi mettessero di fronte a un’altra me. Sconosciuta, misteriosa, perché un conto è il “sentito dire”, un altro è il vivere sulla tua pelle qualcosa che ti spiazza o che, addirittura, ti terrorizza. Sono sincera: non ricordo qual è stato il primo odore che “non” ho più avvertito, né se sia stata una cosa graduale o improvvisa. Mi pare più la seconda ipotesi, alla fine non ho tenuto nessun diario della mia personale pandemia: mi ero ripromessa che ci avrei provato, per testimoniare, per lasciare una traccia per i nipoti, per la Storia insomma. Poi però sono stata presa da un’incomunicabilità assoluta anche verso me stessa. Se il corpo mi aveva lasciata in panne, ammalandosi contro le mie intenzioni, contro la mia volontà, come
avrei potuto autoindirizzarmi pagine su pagine di autobiografia? Che senso avrebbe avuto prendere nota di qualcosa che non sapevo nemmeno bene che cosa fosse? E del resto, perché affliggermi più del dovuto? Durante la seconda ondata di Covid-19, nessuno, né i virologi né i medici né gli scienziati, sembrava avere un’idea unica, chiara, tranquillizzante. Così mi sono lasciata andare al caso, sono diventata fatalista. Forse il primo a sparire, non dileguandosi, semplicemente facendosi notare per la sua assenza totale e totalizzante, deve essere stato l’aroma del caffè alla mattina. Il giorno prima c’era, il giorno dopo, smaterializzato. E con lui tutta una quotidianità consolidata; accendere la moka, sentirla sfrigolare mentre la tele in sottofondo mormora notizie, io a capotavola e mio marito alla mia sinistra, dopo il bacio del buongiorno.
IL MIO È STATO UN VIRUS “di coppia”, lui è stato molto peggio di me che, alla fine, me la sono cavata con poca febbre e pochi dolori. Avevamo però questo territorio comune, una prateria senza orizzonte, avvolta in una nebbia desolata. Un deserto di profumi, aromi, odori, buoni o cattivi - ci sono mancati molto pure loro. Una landa anestetizzata chiamata “anosmia”, lo abbiamo imparato da Internet, dove - con l’olfatto - è stato messo in scacco anche il gusto. Che mondo è quello dove, oltre a non poter più toccare l’altro, non senti più nemmeno il suo odore? Dove, se sei giù, non puoi sprofondare un cucchiaio nella Nutella perché tanto ne avverti solo, sotto la lingua, la consistenza avvolgente e scivolosa? Ti salva un po’ la memoria, questo sì. «Ti ricordi il profumo della pizza verace, dei ricci di mare, del cabernet?», ci sfidavamo cercando di far salire il livello di serotonina. «E le patatine fritte, quelle del chioschetto con la tenda verde in Madison Square Park… e il bacon croccante…?”. Anche rivivere il fetore della subway sferragliante tra Manhattan e Coney Island, un misto di olio di giunture e sedili di pelle sintetica sudata, in quei giorni assumeva i contorni di un miraggio. Ci sembrava di non desiderare altro, mentre l’isolamento della malattia si richiudeva sulla sensazione di strampalata solitudine esacerbata dalla sparizione di due sensi così fondamentali. Tre, se ci metti anche il (con)tatto.
SAREBBE PASSATO? Il mondo avrebbe avuto ancora un profumo, per noi? Quanto sarebbe durata questa punizione? E se non ne fossimo guariti mai più? Troppi “se”, troppi “ma”, troppi “non so”. Troppa paura, mista a una strana eccitazione: succede quando davanti ti si spalanca l’ignoto. Per cercare di dare un senso, a un certo punto abbiamo iniziato a giocare. Io, da donna saggia, che pratica yoga e meditazione con regolarità, mi sono anche applicata per distillare pillole di mindfulness, della serie: “Ecco un’occasione per guardarti dentro, approfitta…”, ma sono ben lontana dall’ammettere a cuor leggero: “Sì, ha funzionato”. Molto meglio usare le riserve di energie scampate all’overdose di antibiotici e cortisone per far lavorare il cervello, per mantenerlo sveglio, perché non si addormenti. Guai se, nel sonno della mente, si fossero annullate anche le ultime certezze. Come in una partita a Taboo.
«Adesso, descrivimi il profumo di cucciola che aveva Sandy», è la nostra adorata meticcia, «a due mesi…». «E tu, l’odore del mercato di Arles a mezzogiorno…». Le parole contro i sensi, che sfida sovrumana, ma almeno la nostra impotenza ne usciva ridimensionata. È stato lì che ho scoperto le mie “madeleine”, per quanto Proust non sia il mio scrittore preferito, con buona pace degli innamorati della Recherche.
Ancora il caffè per esempio, mio padre sveglio presto, i libri da mettere in cartella, la radio accesa e la tazza grande che usava solo lui (no, non era personalizzata, è che tutti sapevamo, in famiglia, che era solo sua, punto). E poi l’olio di bergamotto sulla pelle abbronzata di mia madre: l’estate, l’intimità, la libertà. Forse, la felicità. Poi una mattina, finalmente, ho ritrovato negli occhi di mio marito gli odori e i sapori che pensavamo perduti. Che sinestesia: l’ho guardato e ho capito subito che il caffè era tornato caffè, lo zucchero pure, e così i biscotti, il latte, persino il detersivo per i piatti, persino il detestato igienizzante per le mani che uccide tutti i virus immaginabili. Non sono tornata negativa il giorno in cui sono riapparsi l’olfatto e il gusto, questo no. Ma la mia anima ha iniziato a guarire quando il suo piccolo mondo ha recuperato, di nuovo, il suo odore. Unico, familiare, insostituibile.