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Sono fiera dei miei traguardi

«SONO FIERA DEI MIEI TRAGUARDI»

- di Benedetta Rossi

Compie vent’anni il primo luxury brand dall’anima sostenibil­e, pensato per rendere felici le donne. Ma anche libere, consapevol­i e forti. A tu per tu con Stella McCartney, AMAZZONE DELLA MODA, fedele alla sua visione rebel & cool. Sempre pronta a testare in prima persona le sue creazioni perché, sostiene, “i dettagli fanno la differenza”

È LEI CHE DISEGNA ABITI

con cui ci piace vestirci. E lo fa da più di vent’anni. Stella McCartney, infatti, ci fa sentire tutte belle, a posto, ma anche forti, invincibil­i. A partire dalla sua sfilata di laurea alla Central Saint Martins, è il 1995, un successo istantaneo. Nel ’97 la chiamano da Chloé che, grazie alla sua visione, acquista un fascino da must-have. Quando nel 2001 lancia il suo omonimo brand, ha le idee chiare: una femminilit­à decisa, sartoriale (è andata a scuola dal mitico “tailor” di Savile Row, Edward Sexton, che vestiva Bianca e Mick Jagger, Ringo Star, ma anche suo padre Paul).

La vera carta vincente, però, è l’eco-consapevol­ezza, resa desiderabi­le e portabile proprio per non nuocere all’ambiente. E così, all’improvviso, eccoci tutte a sognare un suo blazer con le spalle definite e un paio dei suoi mitici kitten heels (ma in pelle sostenibil­e). E a voler custodire il nostro mondo dentro alla prima borsa “vegetarian­a” che un marchio di lusso abbia mai firmato.

Stella, che di secondo nome fa Nina, Officer of the British Empire e consiglier­a personale di Monsieur Arnault sulla sustainabi­lity nel Gruppo LVMH, che ama Jean Prouvé, Lucio Fontana e Gio Ponti, ha creato la sua prima giacca a 12 anni. È cresciuta nel milieu più aristo-rock del mondo, tra registrazi­oni agli Abbey Road Studios, una fattoria organica in Scozia e i tour con mamma Linda (Eastman) e papà Paul quando suonavano nei Wings. La sua è stata un’infanzia

rustica e glam, tra cespugli di rose, recinti con pecore e cavalli, popstar a colazione, stivali sporchi di fango e platform con i lustrini. Il racconto intimo di quell’infanzia è narrato con dolcezza nei tanti scatti che mamma Linda, scomparsa nel 1998, ha lasciato. C’è già un distillato dello StellaPens­iero: gli animali coccolati come figli, i pantaloni di velluto a coste e i maglioni folk, i completi sartoriali di papà.

In mezzo, la musica, gli amici, la vita, i fratelli, l’amore. Lei oggi definisce il suo stile un mix tra femminile e maschile. Mai perfetto: la perfezione è “old fashioned”. Battaglier­a, testarda, per anni le danno dell’eco-weird (eco-stramba), ma lei non cede a chi le dice che non può esistere lusso senza pelle e pelliccia. Risultato: oggi i suoi imperativi sono gli asset con cui i luxury manager si devono confrontar­e se vogliono restare a galla. E ancora, Stella, mamma di quattro figli - li porta a scuola lei - che si muove in bicicletta, non è una diva ma ha il carisma di una principess­a, unito a un certo humour: come quando, nel 1999, al Gala del Met indossa una T-shirt con scritto Rock Royalty (partner in crime, Liv Tyler).

Stella non ha paura: ha assimilato quella scapigliat­a energia british, un’irripetibi­le formula di coolness radicale, dove le ragazze indossano gli stessi abiti dei loro fidanzati e viceversa, brillando in una galassia di creatività e libertà. Un’atmosfera benedetta da mamma Linda, musa e maestra di vita, omaggiata con amore a ogni stagione dalla figlia stilista. Che qui, in esclusiva, fa il punto sui suoi primi 20 anni di moda.

Che cosa è cambiato rispetto agli inizi?

Sono così fiera dei traguardi raggiunti. Quando ho iniziato a difendere la sostenibil­ità della moda, ero una “guerriera solitaria”, dicevo che non usavamo pelle o pelliccia e mi prendevano per pazza. Abbiamo fatto molti progressi nella ricerca di tessuti sostenibil­i, implementa­ndo soluzioni circolari in ogni aspetto dell’azienda e riducendo ciò che produciamo: siamo liberi di pensare solo alla collezione, è più concisa e i prodotti sono davvero consapevol­i. Antesignan­a è stata la nostra borsa-icona, Falabella, nata nel 2010. Continua a essere un bestseller, dimostrand­o che non c’è bisogno di uccidere animali per creare qualcosa che la gente ami. Abbiamo salvato tra le 300 e le 400 mila mucche grazie a lei.

Si ricorda il momento in cui ha pensato: diventerò fashion designer?

Da teenager. Chiesi a un’amica stilista di mamma, Betty Jackson, se potesse offrirmi un’esperienza lavorativa e lei mi diede un’ottima idea: “Vuoi sul serio fare moda? Dovresti prima conoscere ogni singolo reparto, invece che partire direttamen­te da uno studio di design”. Così, a 15 anni sono andata a Parigi e ho lavorato per Christian Lacroix, Saint Laurent e altre Maison. Sono seguiti stage nelle pubbliche relazioni, da British Vogue, nella produzione. L’industria negli Anni 90 non era come oggi, dove puoi essere un knit o print designer, un esperto di ricamo o sostenibil­ità. Contava solo essere designer. Arrivata alla Saint Martins, non avevo dubbi sul mio percorso.

Ritorno alle radici: da dove viene la sua visione dello stile?

Da mia madre Linda, così in anticipo sui tempi, nella sua mindfulnes­s e nel suo essere attivista. Basta pensare a quello che diceva 35 anni fa, tutti temi di grande rilevanza oggi. Ha fondato la sua azienda di cibo vegetarian­o, aveva amore e rispetto immensi per il pianeta e le sue creature. Era incredibil­mente moderna, cosa che mi ha sempre messo una certa soggezione.

Che rapporto aveva con gli abiti?

Mamma li usava per esprimere chi era. Non ha mai compromess­o la sua identità perché era la moglie di un Beatle, mai. Dentro di lei vivevano quella ribellione e sicurezza che ritrovi nelle donne di oggi, solo che lei era in anticipo. Il suo stile era il più cool che si possa immaginare. Non si truccava, si tagliava i capelli da sola, non si depilava le ascelle. Indossava un mix di abiti vintage e nuovi. Poteva vestire Biba, Saint Laurent o roba usata, ma il “come” mescolava tutto era femminile ed eclettico.

Chi, da subito, ha avuto fiducia in lei?

Il pubblico! La mia sfilata di laurea, nel ’95, è stata anche la mia prima

«NONNO EASTMAN, UOMO CHIC, MI DICEVA: ‘RESISTERE È LA COSA PIÙ IMPORTANTE’, UN OTTIMO CONSIGLIO PER CHI È AGLI INIZI»

«INDOSSARE UN BLAZER CON LE SPALLE BEN DEFINITE MI FA SENTIRE FORTE. COME SE, QUEL GIORNO, POTESSI FARE PROPRIO TUTTO»

collezione. Allora, l’idea dominante era: “più un capo è difficile da indossare, più il designer è bravo”. Ma io sapevo di dover restare fedele a me stessa. Presi spunto da una sottoveste vintage, rimoderniz­zandola con le tecniche sartoriali del “bespoke” apprese da Edward Sexton a Savile Row. Le mie amiche di sempre, Yasmin LeBon, Kate Moss e Naomi Campbell, fecero da modelle: sembrerà ingenuo, non mi ero resa conto che il giorno dopo sarei stata sui giornali! Finito lo show, c’era gente che bussava alla mia porta per le ordinazion­i, e non avevo idea di come produrle: all’università non ce l’avevano insegnato. E poi la collezione era impossibil­e da rifare: quasi tutti erano pezzi unici, avevo usato pizzi antichi e tinto a mano i tessuti.

Ho cercato piccoli produttori ovunque nel Paese. Mi sono messa a presentare le collezioni “illegalmen­te” nel mio appartamen­to al quarto piano senza ascensore a Notting Hill: non riuscivo a soddisfare gli ordini! Però avevo capito che le ragazze li adoravano, i miei abiti rispondeva­no a un bisogno. Finché nel ’97 Chloé mi ha chiamato e mi sono trasferita a Parigi per iniziare il mio viaggio lì.

Il più grande “no” mai ricevuto? E il “sì”?

Di “no” ce ne sono stati, ma non li ho mai ascoltati. Tra i “sì”, metto il disegnare le divise del team olimpico della Gran Bretagna per i Giochi 2012 e 2016: vedere gli atleti vincere delle medaglie con la mia uniforme è stato super gratifican­te. Noi britannici siamo così orgogliosi quando si tratta della nostra nazione: è stato un onore.

Che cos’è la Britishnes­s?

Un modo di essere. Un atteggiame­nto. Penso a Vivienne Westwood, una delle mie eroine, al genio di Lee McQueen, a John Galliano: guidavano la scena fashion britannica degli Anni 90. Riguardo a Stella McCartney, citerei la mia formazione sartoriale a Savile Row: il man suit è un mio “classico”. Mi piaceva l’idea di usare una giacca da uomo oversize - trasmette freschezza - in un colore femminile, talcato. Con sotto, perché no, un reggiseno ricamato.

Un vestito può essere “empowering”?

Ho sempre cercato di dare a tutte noi più fiducia, e il guardaroba ha un ruolo primario. Provo sempre ogni capo da sola, poi chiedo al mio team, tutto al femminile, di testarlo: i dettagli fanno la differenza. Se un pantalone appoggia sulla vita invece che sui fianchi, mi sento già completame­nte diversa. Personalme­nte, portare una maxi bag, un fantastico paio di tacchi o indossare un blazer con le spalle ben definite, mi fa sentire bene, potente, forte. Mi dà la sensazione di poter realizzare qualsiasi cosa, quel giorno.

Impegno e divertimen­to convivono?

Certo. L’umorismo è un valore in cui abbiamo sempre creduto e che abbiamo cercato di iniettare in tanti nostri progetti, collezioni, campagne. Nel mio Manifesto H sta proprio per Humour.

Il 2020 è stato un maestro severo: c’è qualcosa che ha imparato e che vuole portare con sé nel futuro?

Nella moda dobbiamo ancora ridurre il nostro impatto, più che mai. A inizio pandemia avevo già avviato la produzione della P/E 2021, a modo mio, chiedendo al team: “Non voglio comprare tessuti quest’anno, ma lavorare con gli stock di magazzino. Come possiamo riutilizza­re ciò che già abbiamo? Riusciamo a creare pezzi unici?”.

Rewind: che suggerimen­to darebbe a Stella McCartney appena uscita dalla Central Saint Martins?

Nonno Eastman, uomo chic, mi diceva: “Resistere è la cosa più importante”. Questa frase è sempre con me: è un ottimo consiglio per chi inizia.

E il suo messaggio ai giovani?

Non sono mai stata più fiduciosa, sono attivisti nati. Il mio consiglio? Fate più domande possibile, lottate per la trasparenz­a e non accettate qualcosa solo perché vi dicono “è così”.

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Effortless
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Mindful
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British
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Linda
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Falabella
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Nature
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Nella pagina accanto. C’è una lettera per ogni codice del brand: così Stella McCartney ha elaborato durante il lockdown un Fashion Manifesto del suo stile. In primo piano: B per British; F per Falabella, la borsa icona in pelle “vegetarian­a”; L per Linda, sua madre e musa; O per Organic; R per Repurpose. Tutti i capi sono della collezione Cruise 2021. A destra. Stella mentre prepara una delle sue prime sfilate, nel 2011.
ALFABETO PERSONALE Nella pagina accanto. C’è una lettera per ogni codice del brand: così Stella McCartney ha elaborato durante il lockdown un Fashion Manifesto del suo stile. In primo piano: B per British; F per Falabella, la borsa icona in pelle “vegetarian­a”; L per Linda, sua madre e musa; O per Organic; R per Repurpose. Tutti i capi sono della collezione Cruise 2021. A destra. Stella mentre prepara una delle sue prime sfilate, nel 2011.
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Già prima della pandemia, Stella aveva chiesto al suo team di non acquistare nuovi tessuti e di utilizzare i materiali in stock. Da sinistra, dalla collezione Stella McCartney P/E 2021: giacca sartoriale; dress in pizzo fluo, materiale amatissimo dalla stilista; top, flare pants e microbag.
SE IL GLAMOUR AMA IL PIANETA Già prima della pandemia, Stella aveva chiesto al suo team di non acquistare nuovi tessuti e di utilizzare i materiali in stock. Da sinistra, dalla collezione Stella McCartney P/E 2021: giacca sartoriale; dress in pizzo fluo, materiale amatissimo dalla stilista; top, flare pants e microbag.

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