PALERMO L’APPRODO FELICE
Aria tersa, salsedine, pietre calde di sole: è una meraviglia perdersi in città, respirarla, toccarla, viverla. Tra il mare e il monte, si erge lo splendore di PALAZZI ARABI E NORMANNI, di chiese barocche e antichi mercati. Ma parte dell’incanto è anche il cibo, dal profumo ipnotico
ENTRAVA, SI INCAMMINAVA lungo la chiesa, si inginocchiava, si sdraiava davanti all’altare e qualcuno, con movimento di nuvola che passa sulla luna, stendeva sul corpo di quella giovane donna un panno nero e su quel panno appoggiava un teschio. Finiva una vita, ne iniziava un’altra. Non più principessa di nobile casata, figlia di Gattopardo, ma principessa-monaca, reclusa in uno dei più famosi monasteri di Palermo, quello di
Santa Caterina di Alessandria.
Per ritrovare la città, per placare la nostalgia pulsante della sua storia millenaria, non c’era che salire sul tetto del convento e lungo le terrazze guardare “in grande”, fino a dove gli occhi spaziavano liberi, fino al Monte Pellegrino e le montagne che incorniciano la Conca d’Oro, fino al mare, al porto, alle navi che attraccavano e ripartivano per lidi lontani. Abbassando appena lo sguardo, quella stessa novizia settecentesca raggiungeva il Cassaro, u Cassaru in siciliano, la strada più antica, su cui correvano le carrozze, anche quelle della sua famiglia. Appena più in là c’era piazza Bellini, la chiesa normanna di San Cataldo e quella barocca di Santa Maria dell’Ammiraglio, detta la Martorana, un magnificat di mosaici d’oro. Oggi è la prima tappa dell’itinerario arabo-normanno, che fa di Palermo l’unica città al mondo a vantare otto siti Unesco.
Ecco, non conoscere ancora Palermo, non averla respirata, toccata, camminata, mangiata, è come stare su quella terrazza di convento, separate anche noi da quanto c’è di più vivo, più antico e più bello nel Mediterraneo. Eravamo in clausura e non lo sapevamo. Poi siamo state indecise se scegliere l’Hotellerie, elegante b&b in un palazzo storico a un passo dalla Kalsa, oppure il lusso supremo di Villa Igiea, dimora aristocratica dei Florio per gli amici nobili di tutta Europa, appena riaperta. E adesso siamo in strada, mattina tersa, gelsomini, fruscio di palme, salsedine, pietre calde di sole, e diamo ragione a Richard Wagner quando diceva che qui “c’è solo primavera ed estate”, e diamo ragione anche a Milan Kundera che più perentorio si chiedeva “ma come puoi vivere senza conoscere Palermo?”.
Alla domanda avevano già risposto le civiltà che da tremila anni sono giunte qui e hanno fatto della città la loro storia. I fenici la chiamano Zyz, il fiore, i greci, arrivati nel quinto secolo a.C., Panormos, “tutto porto”, perché circondata da due fiumi e così favorevole all’approdo. Nel nono secolo gli arabi la nominano Balarm e sotto la loro dominazione, per cultura, ricchezza, vivacità commerciale, diventa la località più prospera della Sicilia. Tocca ai normanni e nasce Balermus.
DUE DOMINAZIONI, quella araba e normanna, radicate nelle parole, perché quando in siciliano si dice cannata, la brocca per il vino, si pensa all’arabo khannaq, e così la fara, l’aria infuocata, viene da fadha, matarazzu, materasso, da matrak, fastuca, pistacchio, da fustuqa, e raisi, capitano, da rais. Quando giungo
no i normanni, nel 1061, altri termini entrano nel vocabolario dell’isola, per esempio accattari, comprare, da acater, che diventa acheter in francese moderno, oppure custureri, sarto, da coustrier, e vedi couturier, e poi quello più bello di tutti, foddi, pazzo, da fol.
E siamo pazze di felicità quando attraversiamo le sale del museo archeologico Antonino Salinas, vediamo le metope del tempio di Selinunte, e ci ritroviamo nella chiesa a cielo aperto di
Santa Maria dello Spasimo, un tempo guscio che ospitava una tavola di Raffaello, Lo Spasimo, e oggi sede di concerti jazz, compresi quella della Scuola Europea d’Orchestra Jazz. Tra le arcate cresce un albero, forse il più solitario di Palermo.
Volessimo vederne altri, insieme a 12 mila specie di piante diverse, dovremmo solo andare nell’Orto Botanico, “il luogo più meraviglioso al mondo e ha un che di fatato”, scriveva Goethe nel 1787. Sette anni prima erano giunte in queste serre dalla Cina, portate dagli inglesi, le primissime piante di mandarino e di nespolo e sempre da qui si erano diffuse in tutto il Mediterraneo.
FAME, SETE, CI STA. E ci sta andare al Mercato del Capo, nel cuore del quartiere arabo degli Schiavoni. Cibo di strada, coppi di pesce fritto, verdure in pastella, calamari, panelle, crocché e le femminili arancine di riso. Alla Vucciria spetta la movida della sera. In attesa altre luci ci guidano e sono i riflessi dei mosaici della Cappella Palatina, voluta da Ruggero II e consacrata nel 1140, l’immenso Cristo Pantocratore, e sono gli specchi d’oro della sala di Palazzo Valguarnera-Gangi, dove Luchi