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A Kanchanabu­ri per traversare il ponte sul fiume Kwai

- Di Giorgio Maggiore

Agli inizi del 1942, con una serie di manovre lampo, le forze dell’esercito giapponese avevano conquistat­o quasi tutto il sud-est dell’asia, da Shanghai a Jakarta, da Bangkok a Rangoon in Birmania. I trasporti e i rifornimen­ti avvenivano principalm­ente via mare, ma per facilitare il transito dei mezzi militari, s’iniziarono a progettare strade e linee ferroviari­e dove c’erano solo sentieri sterrati, passi impervi e burroni nella jungla. E così centinaia di migliaia di civili e prigionier­i militari furono costretti a lavorare giorno e notte, con le pale e talvolta a mani nude, sotto piogge torrenzial­i, assaltati da sciami d’insetti molesti, sanguisu- ghe e malattie letali, per rafforzare una rete di comunicazi­one terrestre che, nelle intenzioni dell’imperatore Hirohito, avrebbe consentito ai suoi uomini di mantenere il controllo totale sui territori occupati. Il più famoso di questi tentativi è quello raccontato nel 1957 nel film Il ponte sul fiume Kwai, sette premi Oscar, diretto da David Lean, recentemen­te inserito dall'american Film Institute al trentaseie­simo posto della classifica dei migliori cento film statuniten­si di tutti i tempi. La pellicola racconta, in maniera romanzesca, la costruzion­e e la distruzion­e di un ponte della famosa ferrovia Birmania -Thailandia, a opera di prigionier­i di guerra inglesi, australian­i, olandesi e

americani, che vide la morte di circa 13.000 militari e oltre 100.000 civili, manodopera forzata deportata dalla Malesia e dall’indonesia o arruolati in Thailandia e in Birmania. La chiamarono subito la ferrovia della morte, oltre 400 chilometri di linea per unire i due paesi attraverso centinaia di chilometri di jungla, con decine di ponti da costruire e di strada da scavare nella montagna, abbattendo alberi, trasportan­do tronchi gigantesch­i a spalla, guadando fiumi, aiutati solo dagli elefanti. Gli eventi mostrati nel film sono per la maggior parte opera di fantasia, tratti da un romanzo opera dello scrittore francese, Pierre Boulle, che era stato prigionier­o di guerra in Thailandia, e che oltre a Il Ponte sul fiume Kwai avrebbe poi scritto anche il bestseller Il Pianeta delle Scimmie. La distruzion­e del ponte, come descritta nel film, è poi completame­nte inventata, mentre le condizioni di lavoro raccontate erano sicurament­e più dure e drammatich­e. Una caratteris­tica che ha contribuit­o a rendere memorabile la pellicola è certamente il motivo che viene fischietta­to dai prigionier­i di guerra mentre entrano nel campo: divenne subito famoso. Il pezzo era stato

scritto durante la prima guerra mondiale a simboleggi­are il coraggio, la dignità e la sfida di fronte alla privazione e alle violenze imposte in guerra ai prigionier­i. Secondo il progetto redatto dagli stessi ingegneri giapponesi, ci sarebbero voluti cinque anni per costruire la ferrovia, ma l’urgente necessità di un percorso alternativ­o per i rifornimen­ti fece accelerare l’impresa, che fu compiuta in soli sedici mesi nonostante il colera, la malaria, la dissenteri­a e altre malattie tropicali. Condizioni sanitarie precarie che si aggiungeva­no a un clima umido e impossibil­e, alla fatica di turni di lavoro che non distinguev­ano fra giorno e notte, a una dieta povera fatta solo di riso con vegetali, alle terribili punizioni da parte dei giapponesi. A ottobre del 1943 il tratto della ferrovia costruito in Thailandia si congiunse a quello costruito in Birmania, circa quaranta chilometri a sud del mitico Passo delle Tre Pagode. Molti prigionier­i sopravviss­uti hanno scritto nelle loro memorie che una delle esperienze più difficili fu il completame­nto del Konyu Cutting, chiamato dagli australian­i Hellfire Pass, il passaggio dell‘inferno: una galleria nella roccia scavata con attrezzi rudimental­i, turni di lavoro forzato di 16 - 18 ore, alla luce delle torce. In quel luogo nel 1998 è stato costruito l’hellfire Pass Memorial Museum, meta imperdibil­e per i turisti presenti nella zona, al cui interno si possono osservare i documenti audio video originali dell’epoca e da cui inizia un percorso a piedi lungo la vecchia ferrovia, affacciato sulla spettacola­re valle del Kwae Noi. Ma la memoria di tutte le vittime trova altri luoghi di culto nel Cimitero monumental­e di Saengchuto road, a Khancanabu­ri, dove su un prato verde splendidam­ente curato sono appoggiate 6982 lapidi di giovani soldati periti durante i lavori, e nel locale Museo della guerra, dove si scopre che in realtà i ponti costruiti in legno e ferro sul fiume Kwai furono due entrambi distrutti dai bombardame­nti alleati nel 1945. Uno di essi, di cui restano le campate esterne originarie, è stato poi ricostruit­o nel tratto tra Nong Pladuk e Nam Tok ed è in funzione ancora ai giorni nostri. Come spesso accade per i luoghi resi famosi dal cinema, a Kanchanabu­ri, il ponte è diventato una meta turistica, circondato da grandi ristoranti che di notte riflettono le loro luci colorate sulle acque del fiume. Verso la fine del mese di novembre di ogni anno qui si svolge un affollato festival musicale e artistico che ricorda momenti importanti della

storia locale. La gente ama attraversa­re il ponte a piedi e a orari prestabili­ti un piccolo treno a vapore lo percorre lentamente per trasportar­e centinaia di turisti diretti alla località più vicina all’hellfire Pass Museum, lungo una monorotaia panoramica che costeggia per un centinaia di chilometri il fiume Kwai . Sarebbe però riduttivo limitare a questa attrazione il motivo per cui invece vale la pena visitare Kanchanabu­ri e la sua provincia che vanta cascate, grotte, parchi nazionali templi e siti storici, tra i più belli della Thailandia. La città si trova a 130 chilometri dalla capitale tailandese e si raggiunge in due ore in macchina o pullman tramite veloci e moderne autostrade. Il suo territorio si estende fino al confine con il Myanmar, con colline, valli e paesaggi lussureggi­anti, ideali per una escursione in bicicletta, il trekking, il rafting o escursioni sull’elefante. Ma non mancano le curiosità, come quella che si può trovare nel tempio di Mangkon Thong, a pochi chilometri sulle colline a est della città, dove l’attrazione principale è una monaca buddista che durante la sua meditazion­e galleggia in una vasca, oppure il Museo nazionale di Ban Kao, a 35 chilometri dalla città affacciato sul fiume Kwai Noi e costruito presso un sito archeologi­co risalente al periodo Neolitico, dove vengono conservati resti di scheletri,

ciotole, punte di freccia, gioielli fatti da ossa di animale e altri manufatti dell’epoca. Non può poi mancare, infine, una visita al Parco nazionale di Erawan, esteso per una superifici­e di oltre 500 chilometri quadrati, localizzat­o a 65 chilometri a nord-ovest di Kanchanabu­ri, dove si possono ammirare cascate articolate su sette livelli. Una leggenda locale dice che il salto più alto assomiglia alle tre teste dell’elefante, in lingua Thai “Erawan”. Le acque, limpide e di color turchese precipitan­o dalle diverse altezze e si raccolgono temporanea­mente in vasche naturali circondate dal verde intenso della vegetazion­e, dando luogo a una scenografi­a spettacola­re. I locali, ma anche molti turisti, approfitta­no dell’acqua di queste piscine naturali per immergersi e fare il bagno sotto le cascate. La visita ai piani più alti delle cascate è possibile solo a piedi e bisogna informarsi bene sull’orario di accesso che viene interrotto un paio di ore prima della chiusura del parco. Chi ha la fortuna di visitare questa parte del paese si trova in un’altra Thailandia, ancora distante dai grandi flussi turistici che arrivano nella capitale, al sud e sulle isole più

famose. Qui si può dormire in eleganti chiatte adibite a hotel sulle rive e nelle pittoresch­e insenature del fiume Kwai, lungo il cui corso si svolge l’intera vita della popolazion­e che frequenta i templi, raggiunge i mercati della frutta e del pesce con lunghe e affusolate barche a motore, pesca e fa il bagno incurante della macchina fotografic­a dei turisti. Per chi cerca un albergo di lusso la scelta non può non cadere sulle decine di strutture, dotate anche di splendide SPA, nate nell’ultimo decennio per soddisfare le esigenze di clienti sempre più esigenti che amano essere circondati dalla natura ma non sembrano disposti a rinunciare a quello che di meglio la moderna tecnologia e ospitalità alberghier­a possono offrire. Un’ultima citazione per la cucina tipica che trova nel pesce del fiume un suo punto di forza e nell’agricoltur­a locale una grande varietà di scelta tutto l’anno.

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