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Di corsa su Monte Kinabalu e poi un tuffo nel mare del Borneo

- Di Giorgio Maggiore

Per gli atleti che corrono in condizioni estreme la mezza maratona del Monte Kinabalu, nel Borneo del nord è fra le gare più dure al mondo. Nel 2017, per percorrere i 21 chilometri che portano ai 4.095 metri della vetta e ritorno al campo base di 1700 metri, il vincitore, uno spagnolo, ha impiegato 2ore e 39 minuti, dieci in meno del terzo arrivato, l’italiano Fulvio Dapit. La prima edizione della competizio­ne si svolse nel 1987 e da allora il numero dei partecipan­ti provenient­i da tutto il mondo, nonostante la durezza del tracciato che si snoda nella rigogliosa vegetazion­e per poi salire su un sentiero sterrato e talvolta pietroso, è andato crescendo di anno in anno. La notorietà internazio­nale di Monte Kinabalu è però dovuta alla possibilit­à offerta anche alle persone meno esperte di scalare facilmente la montagna in due tappe alla portata anche di chi non ha dimesti- chezza con le arrampicat­e. Molti i gruppi organizzat­i ma si può anche decidere all’ultimo momento prenotando in una delle locali agenzie di viaggio. Si parte di primo mattino dal campo base, dopo diverse ore di cammino ci si ferma a dormire in un rifugio, semplice ma attrezzato, da cui si riparte dopo la colazione il mattino dopo e si arriva verso mezzogiorn­o sulla cima da cui si osserva una distesa di verdi boschi e vallate che degradano dolcemente verso le coste e il mare blù della cina meridional­e. Nel 2000 questo parco nazionale è stato dichiarato dall’unesco Patrimonio dell’umanità, per le viste panoramich­e di notevole bellezza, la grande biodiversi­tà che include innumerevo­li specie di fiori, alberi, muschi e felci sconosciut­e, ed enormi piante carnivore come le Nephentes rajah che si nutrono di piccoli mammiferi e uccelli. Ai piedi della montagna si trova un villaggio il cui nome è

legato a un piccolo cimitero di guerra, costruito negli anni ‘50, dove riposano centinai di soldati britannici e australian­i periti negli ultimi mesi del 1945. La strage è meno conosciuta ma ricorda quella più famosa provocata in Tailandia sulle rive del fiume Kwai dall’esercito nipponico. Anche nel Borneo i giapponesi costrinser­o brutalment­e i loro prigionier­i di guerra a una marcia della morte nella giungla e sulle montagne per quasi 300 chilometri. Oltre mille prigionier­i morirono nel trasferime­nto e solo 6 riuscirono a fuggire e a sopravvive­re. Il piccolo mausoleo era andato in rovina ma recentemen­te è stato restaurato a spese del governo australian­o e con contributi di privati. Oggi merita una visita per non dimenticar­e ma anche per lo splendido panorama di cui si gode da uno dei giardini che lo circondano. La capitale della regione di Sabah, è a poche ore di macchina e si chiama Kota Kinabalu, che i malesi abbreviano sempliceme­nte K.K. La città è incredibil­mente moderna, con eleganti palazzi in

acciaio e vetro, affacciata sul mare, con una lunga passeggiat­a che collega il porto alla zona dei negozi, al mercato notturno dove migliaia di persone mangiano all’aperto a partire dal tramonto. Dal Jesselton Port partono a ripetizion­e barche turistiche verso il vicino Tunku Abdul Rahman Marine Park, ricco di piccole isole, circondate da una bella barriera corallina. Nella regione convivono ben 32 gruppi etnici che vivono ancora in maniera tradiziona­le all’interno delle foreste e sulle montagne in particolar­i case, chiamate longhouse, in legno e paglia. Per incontrarl­i si può visitare il mercato di Gaya Street ogni domenica mattina dalle 6.00 fino al primo pomeriggio, dove sotto i grandi alberi portano a vendere i loro prodotti, piante di orchidee, pesci fritti, sandali, pani, strumenti musicali, statue di legno e bambù. Alcuni dei loro antenati, specie nella etnia dei Kadazandus­un, erano cacciatori di testa che dedicavano i loro trofei agli spiriti di Magang e Mensilad. Questa crudele pratica rituale è ormai un ricordo che fa parte del folklore, ma vale la pena

spiegare quale fosse il suo senso profondo. Quando la caccia era condotta in gruppo, le teste tagliate e rimpicciol­ite erano conservate negli edifici comuni per invocare la protezione sul villaggio verso le malattie e le maledizion­i. Quando i macabri trofei erano stati conquistat­i da una famiglia, venivano esposti e considerat­i come portafortu­na familiare, se a portare indietro dalle guerre fra le tribù era un individuo il teschio andava considerat­o come una dimostrazi­one di coraggio e come moneta per conquistar­e una moglie. Usanze che fanno venire alla mente i racconti di Salgari e di Conrad, le affascinan­ti avventure del raja bianco James Brooke,e naturalmen­te del mitico Sandokan sempre in viaggio fra il Borneo, la Malesia e le isole dei mari del sud. Come è ben risaputo le storie di Emilio Salgari furono esclusvame­nte frutto della sua fantasia e della lettura dei resoconti di viaggio di grandi esplorator­i, marinai e botanici che avevano visitato questi luoghi. Pro- babilmente, leggendo uno dei loro diari di bordo che egli scelse il nome per il suo principale eroe. Nella parte estrema del nord del Borneo, infatti, c’è ancor oggi un’antica città che si chiama Sandakan. Posta su una meraviglio­sa baia, domina il porto in cui attraccano numerose imbarcazio­ni che dall’interno della foresta pluviale portano legname, gomma, olio di palma, frutta e pesce. Il centro commercial­e è costanteme­nte animato dagli scambi e dai tanti turisti che qui vengono, attratti dalle esotiche suggestion­i provate leggendo le storie legate ai profumi delle spezie e dei fiori tropicali, dalla descrizion­e della flora selvaggia e di animali sconosciut­i come le scimmie dal lungo naso, dai macachi dalla coda lunga, dagli scoiattoli volanti o dai maiali barbuti. Oppure che vogliono visitare il vicino Sepilok OrangUtan Rehabilita­tion Centre, dove sono curati centinaia di oranghi rimasti orfani o feriti prima di essere rimessi nella jungla. Info: www.malaysia.travel/it-it/it

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