Sicilia o Giappone: chi ha inventato il fake food?
L’Italia e il Giappone si contendono un importante primato. Avere la popolazione con il maggior numero di centenari e di anziani al mondo. Un fenomeno spiegato dagli esperti con l’attenzione mostrata verso la qualità del cibo e alle diete tradizionali che, pur molto diverse fra loro, si sono mantenute pressoché inalterate nel tempo. È proprio nell’ambito del cibo che l’italia, in particolare la Sicilia, e il paese del Sol Levante vivono un’altra competizione legata alla capacità di riprodurre fedelmente e in maniera realistica gli alimenti esposti nelle vetrine di pasticcerie e ristoranti. Oggi li chiamano fake food ma dove in effetti si tratta di un’arte che è andata sviluppandosi nel tempo, ed è parte integrante una tradizione che si tramanda di padre in figlio. I siciliani, soprattutto a Palermo e sulla costa occidentale impararono dagli Arabi a preparare la pasta reale, nota anche come marzapane, mescolando farina di mandorle e zucchero, ma la leggenda vuole che furono alcune monache a modellare per prime i frutti finti, facendoli il più possibile simili al vero e appendendoli poi ai rami spogli del proprio giardino per renderlo più bello anche d’inverno. La notizia si sparse in città e da allora in tutte le pasticcerie iniziò la gara a chi proponeva la scelta più ricca di fruttini colorati di pasta di mandorla. La tradi
zione rimane ancora viva, e in Sicilia non c’è vetrina di bar e pasticceria che non esponga una cornucopia di meline e banane, fragole e castagne, artisticamente modellate. Anche per il Giappone esiste una storia che racconta come, intorno agli anni ‘30 del secolo scorso, nacque nel villaggio di Gujo Hachiman, il sampuru, ovvero l’arte di riprodurre il cibo con la cera, sostituita oggi dalla plastica. Gujo Hachiman si trova in una valle fra le montagne a metà strada fra Tokyo e Kyoto, vicino a Nagoya, è attraversata da due pittoreschi corsi d’acqua, e ospita ogni estate un popolare festival della danza. Gran parte di tutte le riproduzioni di cibi falsi ( shokuhin sampuru), che immancabilmente compaiono nelle vetrine dei ristoranti giapponesi, vengono da questa cittadina. Sarebbe sbagliato però considerarli solo un aspetto kitsch della tradizione nipponica, oppure il segno di una gastronomia di basso livello che non riesce a migliorare la propria immagine rinunciando alla illustrazione del menu attraverso la plastica, perché invece i food sample rappresentano da oltre 90 anni una componente fondamentale della cultura gastronomica del Paese. Così come per ogni carta preziosa, un origami, un testo calligrafico o una ceramica antica, dietro ogni pietanza riprodotta e dipinta, c’è il lavoro di artigiani, spesso artisti famosi, che hanno speso anni per imparare a creare e colorare a mano fedelmente ogni gambero, ogni uovo o bistecca che compare nelle vetrine dei più importanti ristoranti giapponesi del mondo. La tradizione racconta che il primo Sampuru fu creato nel 1932, da un artigiano locale di nome Takizo che riprodusse con la cera una omelet guarnita di riso. Egli raccontò che in una fredda serata invernale osservò la cera che colava da una candela e che andava raffreddandosi componendo una figura che gli ricordava il cibo. Lavorando la cera ancora calda costruì la forma di una frittata che poi colorò fino a renderla molto simile
all’originale. Il momento non poteva essere migliore, visto che i giapponesi cominciavano a trovare nei menu dei loro ristoranti pietanze provenienti dall’america, come gli hamburger coperti di ketchup, quasi del tutto sconosciuti. Le copie di questi cibi create da Takizo potevano servire a mostrare ai consumatori cosa potevano aspettarsi ordinandolo e, soprattutto, invogliarli a farlo. La leggenda vuole che l’improvvisato artista creò un piccolo catalogo e iniziò a girare da ristorante a ristorante offrendo in prova i suoi prodotti. C’è chi oggi ritiene che fu allora che iniziò una vera rivoluzione nelle abitudini alimentari di un intero paese. Cinquant’anni fa la riproduzione in cera, lenta e costosa, fu soppiantata dalla creazione di modelli in plastica e silicone, con una tecnologia che apriva l’orizzonte a infinite possibilità, ma soprattutto permetteva di costruire sampuru che non si sciogliessero al sole. Le vetrine dei ristoranti si riempirono rapidamente di riproduzioni verosimili e coloratissime, che resero facilmente comprensibili agli occhi degli stranieri e dei turisti anche i piatti giapponesi più complicati. Dal punto di vista sensoriale, si riusciva, inoltre, a esaltare anche il senso della vista che nella cultura e nella tradizione nipponiche ha un’importanza straordinaria. Oggi a Gujo Hachiman ci sono diverse fabbriche che impiegano molti operai locali, che trascorrono tutta la loro vita professionale costruendo modelli di cibo falsi. I sistemi di lavorazione sono cambiati, ma le rifiniture sono quasi sempre realizzate a mano. In primo luogo si costruisce una forma in silicone, in cui si versa della plastica liquida, una volta
raffreddato il prodotto grezzo viene pulito, raffinato e colorato. Appena asciutto si applica una vernice trasparente che fissa e protegge e rende più lucido il piatto finale. Il processo può prendere da alcune ore di lavoro fino anche ad alcune settimane. Tutto dipende dalla difficoltà della riproduzione, e il tocco finale su alcune riproduzioni, specie quelle dei pesci multicolori, con le loro squame lucide e riflettenti, è riservato solo ai veri maestri. Chi non ama il cibo, chi non apprezza a diversità di ogni specie animale o vegetale, non può essere un buon artista di Sampuru. È questo quello che dicono gli operai impiegati in questa attività, che aggiungono altro che per fare un buon lavoro bisogna essere forniti anche di un notevole senso di ironia, perché solo se si riesce a far sorridere il cliente lo si convince a entrare in un ristorante a provare il cibo originale. Lo stesso spirito che probabilmente animava l’azione delle monache palermitane nel mantenere il loro frutteto costantemente maturo anche d’inverno. Nonostante il successo ancora pieno per questa industria, il futuro appare incerto visto che la popolazione del villaggio e gli operai di Hachiman stanno invecchiando e l’arte del sampuru potrebbe scomparire. Ma all’orizzonte si sta già intravedendo la soluzione nelle stampanti tridimensionali, in grado di realizzare fotocopie 3D del prodotto base. In Giappone potrebbero essere loro l’alternativa alla crisi vocazionale ma, se questo sarà possibile con i cibi di plastica o silicone, speriamo che non si realizzi mai con i fruttini siciliani in marzapane, la cui tradizione non può prescindere dalla capacità e manualità umana.