Editoriale
Per mesi il centro di Parigi, e di molte altre città francesi, è stato ripetutamente devastato dal movimento autorganizzato dei cosiddetti gilet gialli. Hong Kong vive uno dei momenti più drammatici della propria storia recente, le immagini trasmesse dai telegiornali mostrano decine di migliaia di cittadini che protestano contro il governo Cinese, spesso in maniera violenta, e rimpiangono la perduta protezione della Gran Bretagna. L’egitto, dopo un breve periodo di tranquillità, vede rinascere le proteste stradali contro il governo accusato di corruzione. Al confine fra India e Pakistan si è ripreso a combattere, in Siria e in Afghanistan non si è mai veramente smesso, lo Yemen è al centro di un violento scontro che vede confrontarsi Iran e Arabia Saudita, due paesi islamici fra i più importanti produttori di petrolio. Sono solo alcuni degli esempi che ci fanno dire che il mondo non è poi così pacifico come vorremmo, ma che anzi, molti dei conflitti locali rischiano di trasformarsi in guerre per procura fra le grandi potenze, in grado di infiammare regioni tradizionalmente già instabili. Il turismo non può non risentirne e cresce il numero dei paesi che il Ministero degli Esteri considera a rischio. Facile immaginare che a farne le spese, in ultima analisi, non siano solo le compagnie aeree, le catene alberghiere e le agenzie di viaggio, ma l’intera filiera del turismo che coinvolge nella sua articolazione milioni di addetti e povera gente, che vede ridursi le possibilità di migliorare la propria condizione economica e uscire da una condizione di bisogno. Chi non può invece lamentarsi è Airbnb pronta allo sbarco in Borsa con ricavi di oltre un miliardo solo nel secondo trimestre del 2019. Nata nel 2007 l’azienda di San Francisco è oggi valutata 31 miliardi di dollari e a marzo scorso ha acquisito per oltre 400 milioni il sito web Hotel Tonight, specializzato nella prenotazione di camere d’albergo dell’ultimo minuto. Niente da obiettare se non fosse che la promessa web tax, prevista dalla legge di bilancio del 2018, relativa alle prestazioni di servizi digitali, è rimasta lettera morta e, a differenza delle imprese italiane che pagano IVA, imposte dirette e indirette, le multinazionali del web versano al nostro Stato solo pochi spiccioli. Si tratta di un’evasione di centinaia di milioni di euro che farebbero comodo alle nostre finanze e riequilibrerebbero le distorsioni di un mercato che vede le nostre aziende nazionali “cornute e mazziate”. Forse è ora di iniziare anche noi una guerra, stavolta di natura fiscale.