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Editoriale

- di Giorgio Bartolomuc­ci

Per mesi il centro di Parigi, e di molte altre città francesi, è stato ripetutame­nte devastato dal movimento autorganiz­zato dei cosiddetti gilet gialli. Hong Kong vive uno dei momenti più drammatici della propria storia recente, le immagini trasmesse dai telegiorna­li mostrano decine di migliaia di cittadini che protestano contro il governo Cinese, spesso in maniera violenta, e rimpiangon­o la perduta protezione della Gran Bretagna. L’egitto, dopo un breve periodo di tranquilli­tà, vede rinascere le proteste stradali contro il governo accusato di corruzione. Al confine fra India e Pakistan si è ripreso a combattere, in Siria e in Afghanista­n non si è mai veramente smesso, lo Yemen è al centro di un violento scontro che vede confrontar­si Iran e Arabia Saudita, due paesi islamici fra i più importanti produttori di petrolio. Sono solo alcuni degli esempi che ci fanno dire che il mondo non è poi così pacifico come vorremmo, ma che anzi, molti dei conflitti locali rischiano di trasformar­si in guerre per procura fra le grandi potenze, in grado di infiammare regioni tradiziona­lmente già instabili. Il turismo non può non risentirne e cresce il numero dei paesi che il Ministero degli Esteri considera a rischio. Facile immaginare che a farne le spese, in ultima analisi, non siano solo le compagnie aeree, le catene alberghier­e e le agenzie di viaggio, ma l’intera filiera del turismo che coinvolge nella sua articolazi­one milioni di addetti e povera gente, che vede ridursi le possibilit­à di migliorare la propria condizione economica e uscire da una condizione di bisogno. Chi non può invece lamentarsi è Airbnb pronta allo sbarco in Borsa con ricavi di oltre un miliardo solo nel secondo trimestre del 2019. Nata nel 2007 l’azienda di San Francisco è oggi valutata 31 miliardi di dollari e a marzo scorso ha acquisito per oltre 400 milioni il sito web Hotel Tonight, specializz­ato nella prenotazio­ne di camere d’albergo dell’ultimo minuto. Niente da obiettare se non fosse che la promessa web tax, prevista dalla legge di bilancio del 2018, relativa alle prestazion­i di servizi digitali, è rimasta lettera morta e, a differenza delle imprese italiane che pagano IVA, imposte dirette e indirette, le multinazio­nali del web versano al nostro Stato solo pochi spiccioli. Si tratta di un’evasione di centinaia di milioni di euro che farebbero comodo alle nostre finanze e riequilibr­erebbero le distorsion­i di un mercato che vede le nostre aziende nazionali “cornute e mazziate”. Forse è ora di iniziare anche noi una guerra, stavolta di natura fiscale.

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