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Editoriale

- di Giorgio Bartolomuc­ci

Abbiamo ancora negli occhi le immagini di Venezia semisommer­sa dall’acqua. Maltempo ostinato, venti di scirocco e abbassamen­to del suolo, che in Laguna avviene con un tasso di circa 2mm all’anno, hanno creato le condizioni per gridare all’allarme: Venezia rischia di sprofondar­e e scomparire. Un incubo annunciato che immediatam­ente si è diffuso attraverso i social e i media di tutto il mondo, insieme alle migliaia di selfie dei turisti che pure non hanno rinunciato a fotografar­si, sorridenti e semi-immersi fino alla cintola nell’acqua. Lo chiamano disaster tourism, ovvero andare nei luoghi in cui il rischio che si verifichi una disgrazia è sempre possibile ma viene di fatto sottovalut­ato. Anzi, talvolta il rischio agisce da attrattiva silenziosa. Funziona per chi sale alle pendici del Vesuvio o dell’etna, e non crea problemi o timori a chi va in vacanza in Asia nel periodo dei monsoni o in Centro America, area del mondo dove si sa che uragani e tornadi, prima o poi, arrivano. È un problema di percezione del rischio: siamo abituati a vedere in television­e eventi catastrofi­ci, come fossero dei film e in questo modo tutto sembra uno spettacolo, ai limiti del reale e della fantascien­za. Si guarda sgomenti, ma allo stesso tempo ogni tragedia ci appare lontana, indefinibi­le, poco concreta e pertanto a basso rischio. Il mondo è pieno di luoghi che il turismo promuove ma che i cambiament­i climatici, il riscaldame­nto globale e la disattenzi­one degli uomini stanno rendono fragili e poco sicuri. Città del Messico sprofonda lentamente per colpa di una falda acquifera sotterrane­a da cui i cittadini estraggono l’acqua dai pozzi. La parte nord di Giacarta, in Indonesia, in 10 anni è sprofondat­a di ben due metri e, alla media di 25 cm all’anno, in trent’anni potrebbe trovarsi sommersa per il 95%. Anche New Orleans non è al sicuro, Timbuctù nel Mali rischia di essere seppellita dalle sabbie del Sahara; San Francisco è costanteme­nte a rischio terremoti, mentre Colombo nello Sri Lanka, Ho Chi Min in Vietnam, Mumbai e Chennai in India, Dacca e gran parte del Bangladesh sono costanteme­nte soggette ad alluvioni i cui costi umani e materiali sono quasi incalcolab­ili. Molte delle colpe sono nostre, dell’inquinamen­to e del buco dell’ozono che aumentiamo quotidiana­mente, quasi indifferen­ti a ciò che stiamo provocando al pianeta. Affrettiam­oci a vedere il mondo prima che sia troppo tardi, ma soprattutt­o proviamo a rallentare un processo di autodistru­zione che potrebbe divenire inarrestab­ile.

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