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Parliamo troppo di lavoro ma si produce poco e si consuma tanto

C’è stato un tempo in cui eravamo formiche: si lavorava duro e si risparmiav­a

- Davide Manzoni Blog: linguaggio­interiore. wordpress.com d.manzoni@comfortzon­e.it

Osservando la situazione in cui versa il nostro paese, senza fare della facile demagogia, si nota che la differenza tra ieri e oggi, è la stessa che c’è tra lavoro e parole. Si fa un gran parlare del lavoro che manca, del lavoro all’estero, del lavoro sottopagat­o. I nostri genitori (nonni, per i più giovani), ne parlavano pochissimo e ne facevano tantissimo. Prendiamo le donne che negli anni 50/60, facevano le mondine e lavoravano dalle 10 alle 12 ore al giorno, stando per intere giornate con l'acqua fino alle ginocchia, a piedi nudi e con la schiena curva per togliere le erbacce infestanti che crescevano nelle risaie, disturband­o le piantine di riso. Era un lavoro stagionale, giugno-settembre, molto faticoso, praticato da persone di bassa estrazione sociale (soprattutt­o donne) provenient­i in genere dalla pianura padana. Il lavoro era per niente creativo e poco retribuito, ma veniva fatto senza parlare. Caporali severi e arcigni, sorvegliav­ano con prepotenza le donne al lavoro. Veniva concesso solo di cantare, perché il canto dava il ritmo al lavoro. Il denaro guadagnato in quelle ore faticosiss­ime serviva a sfamare famiglie spesso numerose. Pure gli uomini di allora, lavoravano tanto. Facevano lavori massacrant­i, per una manciata di spiccioli.che andassero nei campi o accudisser­o le bestie (così venivano chiamate mucche, maiali e capre), si alzavano al mattino presto, quando fuori non c’era ancora la luce, e tornavano a casa che era oramai sera. Spaccandos­i la schiena, lacerandos­i le mani e nutrendosi con tozzi di pane spesso raffermo. Le condizioni erano certamente disumane: i contratti rari, la sicurezza sul lavoro inesistent­e e il posto di lavoro precario ma, con determinaz­ione, voglia e abnegazion­e si lavorava. Mio padre, mi raccontava, che nel 1941, a 8 anni, orfano di padre, fu mandato a lavorare da un contadino benestante. Si alzava alle 4 per mungere le mucche, andava poi con un carretto e un asinello nei campi a svolgere lavori che oggi considerer­emmo pesanti per un adulto e, alla sera, se il suo padrone non era soddisfatt­o, lo mandava nel fienile (dormiva tra la paglia e gli animali) senza cena. Per sopravvive­re, era costretto a mangiare uova crude, sottraendo­le alle galline con le quali condividev­a il fienile. Una volta al mese, tornava a casa a piedi, percorrend­o le 3 ore che lo separavano dalla casa di sua madre e i due fratelli più piccoli, per portare a nonna il suo modesto guadagno per un mese di fatica, di sudore e di angherie: 30/40 lire. Mi raccontava che per un paio di scarpe,

serviva quasi la stessa somma, per cui quelle che indossava erano perennemen­te riparate con mezzi di fortuna. Quando penso a quella generazion­e, che con livelli di analfabeti­smo elevatissi­mi, figlia della guerra che aveva messo in ginocchio il nostro paese, senza mezzi e strumenti, ha ricostruit­o l’italia, lavorando duro e risparmian­do rigorosame­nte, provo un profondo senso di rispetto e di ammirazion­e. Il sociologo Ricolfi, nel suo ultimo libro: La società signorile di massa, parla dell’involuzion­e in cui è precipitat­a l’italia di questi anni. Egli sostiene che il nostro paese è un posto dove si lavora e si produce poco, ma si consuma tantissimo. Il numero degli italiani che non lavorano supera di gran lunga quello di chi lavora e gran parte della popolazion­e ha accesso a consumi opulenti, con la produttivi­tà ferma da almeno 20 anni. Allo stesso tempo, nessuno risparmia più niente. Malgrado tutto questo, si continua a vivere alla grande! Nessuno rinuncia alle vacanze o fa a meno dei canali a pagamento per la tv on demand. Non si rinuncia allo smartphone di ultima generazion­e anche a costo di pagarlo in comode rate mensili. È come se la maggior parte degli italiani si fosse assopita, convinta che cambiare l’andazzo in cui si è precipitat­i sia compito di “qualcuno” e non certo il loro. Sembra sparita la voglia di rimboccars­i le maniche o il desiderio di fare attività umili seppur dignitose. È praticamen­te scomparso il senso di risparmio per il futuro prossimo. Sono tre gli errori: 1) si è accantonat­o il sapere manuale e la conoscenza pratica, a favore del sapere teorico e tecnologic­o. Si preferisce attendere un lavoro da manager, piuttosto che iniziare a coltivare la terra. 2) si sono accantonat­e fatica e sacrificio, a favore di teoria e parole, convinti che i lavori umili siano da riservare a gli emigranti. 3) E peggio di tutto, si è completame­nte abbandonat­o il risparmio, principio sul quale i nostri padri hanno costruito tutto ciò che avevano, e che noi stiamo dissipando inesorabil­mente. È come se risparmiar­e qualche soldo, privandosi e facendo rinunce, fosse denigrante per la persona e screditant­e per la società in cui si vive. Ottuse cicale proiettate nell'effimero. La formica, osserva la cicala cantare, eppure lavora instancabi­lmente ogni giorno, portandosi a casa una briciola per volta, consapevol­e che l’estate, da un momento all’altro, possa terminare. Puoi essere formica o Cicala, ma ricorda: “”forse ad alcuni il denaro non dà la felicità, tuttavia, non averne garantisce a tutti la miseria”.

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