Parliamo troppo di lavoro ma si produce poco e si consuma tanto
C’è stato un tempo in cui eravamo formiche: si lavorava duro e si risparmiava
Osservando la situazione in cui versa il nostro paese, senza fare della facile demagogia, si nota che la differenza tra ieri e oggi, è la stessa che c’è tra lavoro e parole. Si fa un gran parlare del lavoro che manca, del lavoro all’estero, del lavoro sottopagato. I nostri genitori (nonni, per i più giovani), ne parlavano pochissimo e ne facevano tantissimo. Prendiamo le donne che negli anni 50/60, facevano le mondine e lavoravano dalle 10 alle 12 ore al giorno, stando per intere giornate con l'acqua fino alle ginocchia, a piedi nudi e con la schiena curva per togliere le erbacce infestanti che crescevano nelle risaie, disturbando le piantine di riso. Era un lavoro stagionale, giugno-settembre, molto faticoso, praticato da persone di bassa estrazione sociale (soprattutto donne) provenienti in genere dalla pianura padana. Il lavoro era per niente creativo e poco retribuito, ma veniva fatto senza parlare. Caporali severi e arcigni, sorvegliavano con prepotenza le donne al lavoro. Veniva concesso solo di cantare, perché il canto dava il ritmo al lavoro. Il denaro guadagnato in quelle ore faticosissime serviva a sfamare famiglie spesso numerose. Pure gli uomini di allora, lavoravano tanto. Facevano lavori massacranti, per una manciata di spiccioli.che andassero nei campi o accudissero le bestie (così venivano chiamate mucche, maiali e capre), si alzavano al mattino presto, quando fuori non c’era ancora la luce, e tornavano a casa che era oramai sera. Spaccandosi la schiena, lacerandosi le mani e nutrendosi con tozzi di pane spesso raffermo. Le condizioni erano certamente disumane: i contratti rari, la sicurezza sul lavoro inesistente e il posto di lavoro precario ma, con determinazione, voglia e abnegazione si lavorava. Mio padre, mi raccontava, che nel 1941, a 8 anni, orfano di padre, fu mandato a lavorare da un contadino benestante. Si alzava alle 4 per mungere le mucche, andava poi con un carretto e un asinello nei campi a svolgere lavori che oggi considereremmo pesanti per un adulto e, alla sera, se il suo padrone non era soddisfatto, lo mandava nel fienile (dormiva tra la paglia e gli animali) senza cena. Per sopravvivere, era costretto a mangiare uova crude, sottraendole alle galline con le quali condivideva il fienile. Una volta al mese, tornava a casa a piedi, percorrendo le 3 ore che lo separavano dalla casa di sua madre e i due fratelli più piccoli, per portare a nonna il suo modesto guadagno per un mese di fatica, di sudore e di angherie: 30/40 lire. Mi raccontava che per un paio di scarpe,
serviva quasi la stessa somma, per cui quelle che indossava erano perennemente riparate con mezzi di fortuna. Quando penso a quella generazione, che con livelli di analfabetismo elevatissimi, figlia della guerra che aveva messo in ginocchio il nostro paese, senza mezzi e strumenti, ha ricostruito l’italia, lavorando duro e risparmiando rigorosamente, provo un profondo senso di rispetto e di ammirazione. Il sociologo Ricolfi, nel suo ultimo libro: La società signorile di massa, parla dell’involuzione in cui è precipitata l’italia di questi anni. Egli sostiene che il nostro paese è un posto dove si lavora e si produce poco, ma si consuma tantissimo. Il numero degli italiani che non lavorano supera di gran lunga quello di chi lavora e gran parte della popolazione ha accesso a consumi opulenti, con la produttività ferma da almeno 20 anni. Allo stesso tempo, nessuno risparmia più niente. Malgrado tutto questo, si continua a vivere alla grande! Nessuno rinuncia alle vacanze o fa a meno dei canali a pagamento per la tv on demand. Non si rinuncia allo smartphone di ultima generazione anche a costo di pagarlo in comode rate mensili. È come se la maggior parte degli italiani si fosse assopita, convinta che cambiare l’andazzo in cui si è precipitati sia compito di “qualcuno” e non certo il loro. Sembra sparita la voglia di rimboccarsi le maniche o il desiderio di fare attività umili seppur dignitose. È praticamente scomparso il senso di risparmio per il futuro prossimo. Sono tre gli errori: 1) si è accantonato il sapere manuale e la conoscenza pratica, a favore del sapere teorico e tecnologico. Si preferisce attendere un lavoro da manager, piuttosto che iniziare a coltivare la terra. 2) si sono accantonate fatica e sacrificio, a favore di teoria e parole, convinti che i lavori umili siano da riservare a gli emigranti. 3) E peggio di tutto, si è completamente abbandonato il risparmio, principio sul quale i nostri padri hanno costruito tutto ciò che avevano, e che noi stiamo dissipando inesorabilmente. È come se risparmiare qualche soldo, privandosi e facendo rinunce, fosse denigrante per la persona e screditante per la società in cui si vive. Ottuse cicale proiettate nell'effimero. La formica, osserva la cicala cantare, eppure lavora instancabilmente ogni giorno, portandosi a casa una briciola per volta, consapevole che l’estate, da un momento all’altro, possa terminare. Puoi essere formica o Cicala, ma ricorda: “”forse ad alcuni il denaro non dà la felicità, tuttavia, non averne garantisce a tutti la miseria”.