Editoriale
Da qualunque parte li si guardi i numeri non bastano a descrivere il danno provocato alla filiera del turismo e della recettività dalla pandemia. Basti ricordare che si sono persi circa 250mila posti di lavoro fra dipendenti e collaboratori di alberghi, ristoranti e luoghi di accoglienza, che rappresentano il 30% di tutte il calo occupazionale dell’anno in corso. Dopo un lieve recupero registrato fra luglio e agosto, l’entità disastro si è manifestata a settembre quando si è verificato il crollo dell’arrivo dei turisti che in città come Roma e Firenze è arrivato a oltre l’80% in meno rispetto al 2019. Ci mancano i francesi, i tedeschi e soprattutto gli americani, bloccati ancora dalla crescita dei contagi e dalla paura di dover sottoporsi a una rigida quarantena. Bassi anche i valori degli aiuti concreti stanziati per superare la crisi, basati principalmente sulla cassa integrazione per i dipendenti e sullo sgravio del credito d’imposta sugli affitti, misure che con le presenze di turisti al minimo, al momento rendono più conveniente abbassare le serrande e sospendere le attività. L’attuale aumento dei contagi, inoltre, rende lo scenario futuro ancora più fosco, con un Natale e una stagione turistica invernale in bilico, vista l’ipotesi di tornare a limitare i viaggi per il forte rischio di un rapido peggioramento dell’epidemia. Nonostante tutti dicano che un nuovo lockdown generalizzato non è più proponibile, c’è sempre la possibilità di un fermo degli spostamenti fra le varie regioni, il che metterebbe definitivamente in ginocchio tutta l’industria turistica dell’arco alpino ma non solo. Limitare il numero dei clienti nei ristoranti, dei partecipanti a feste in discoteca, riunioni e congressi costituisce il male minore, ma per molti operatori vorrebbe dire la fine. In altre parole assistiamo allo scontro fra interessi economici particolari di piccoli e grandi imprenditori e di lavoratori, e un interesse generale di salute pubblica. È possibile conciliarli? Non ho una soluzione, ma in questa fase di crisi che non è solo sanitaria ed economica, si potrebbe non incrementare la psicosi da coronavirus con inutili bollettini quotidiani sui contagi, perché oltre che del PIL ci si deve preoccupare anche del quoziente di felicità individuale degli italiani, che si è molto abbassato, come è dimostrato dall’incremento dei suicidi e dei casi di ansia e depressione. Perché come scriveva Seneca: dove c’è la paura non c’è felicità.