L’ EDITORIALE
Due cose ho sofferto di più nella vita: il “non permesso” di indossare abiti femminili perché non rispondenti al mio ruolo di uomo e l’incapacità degli altri di capire quale ruolo assegnarmi in quanto crossdresser (derivante dall’incapacità mia di spiegarlo.
Una confusione terribile, una prigione virtuale che si è protratta per gran parte dei miei 54 anni, legata a una pretesa quanto innaturale suddivisione dei ruoli maschio femmina. È vero che esistono differenze biologiche e psicologiche fra i due sessi. Va detto, sono molto maggiori le prime rispetto alle seconde.
Ma è anche vero che la natura – io posso attestarlo – non ci ha creati per rispondere a ruoli predefiniti.
Panta rei, tutto scorre, e fra le cose che scorrono c’è la provocatorietà umana, la libertà dell’essere umano, che scompagina, scompiglia, muta l’ordine delle cose.
La prima donna che indossò un paio di pantaloni, nel 1896, fu arrestata e tradotta in carcere per indecenza..
Mi piacerebbe che quanti la processarono e la reclusero potessero vedere com’è fatto il mondo d’oggi e trarne le debite conseguenze.
A me non è andata così male, per fortuna. In galera nessuno mi ha mai messo, anche se sono consapevole che il crossdressing è tuttora reato penale in alcuni Paesi. Un reato assurdo, consentitemelo, perché nessuno di noi crossdresser fa del male ad anima viva.
Ma non posso nemmeno dire che mi è andata bene, ahimè. Ho perso gran parte della mia esistenza a fingere di essere quello che non ero, semplicemente perché la società tanto si aspettava da me. E così facendo ho rinnegato la mia natura – sì, la mia natura, esattamente quella che la società, reprimendomi, era convinta di valorizzare.
Allora credo che, su grande scala, le donne stiano pagando lo stesso scotto che, su piccola scala, è stato fatto pagare a me.
Stiano cioè pagando lo scotto del cambiamento. Un cambiamento epocale – il loro – cui fa da riscontro il (forse naturale) resistere di quanti vorrebbero l’impossibile, ossia la restaurazione di un ordine antico.
Da crossdresser ho una sensibilità molto spiccata per gli abiti. E tempo fa mi capitò di osservare una foto scattata nel 1909 sulla passeggiata a mare di Viareggio, quella bellissima promenade liberty ancora oggi giustamente fra i “desiderata” dei turisti di tutto il mondo.
Ebbene, cosa vidi, in quella foto di oltre cento anni fa?
Vidi donne diversissime dalle donne di oggi. Lunghi abiti di pizzo, cappelloni improbabili, acconciature d’antan.
E, per contro, uomini sostanzialmente identici agli attuali. Giacche, cravatte, pantaloni, scarpe stringate.
L’unica differenza sono i cappelli, che non si portano più, e qualche baffo di troppo. Il resto, uguale.
Mi si dirà: beh, ma oggi nessuno si veste così al mare per una passeggiata. Vai a Viareggio e vedrai gli uomini in bermuda e infradito. La sera un jeans magari, o un pantalone. Niente di più.
Rispondo: certo. Ma provate ad andare in una banca. O in una finanziaria. O negli uffici di una multinazionale.
Provateci, e vedrete addosso agli uomini esattamente le stesse cose che indossavano i loro trisavoli in quella foto del 1909. A parte le bombette e, forse, una minima differenza nel taglio delle giacche. Ma non sono differenze strutturali, ammetterete.
Viceversa non troverete nessuna donna vestita come le bisnonne. Da nessuna parte del mondo occidentale. Ovunque andiate, testimonierete abiti femminili completamente diversi. Gonne al ginocchio, giacche, scarpe scollate col tacco a spillo, tubini aderenti e via dicendo.
Segno di un cambiamento interiore. Segno dell’emancipazione. Segno di libertà. Il contraltare maschile, invece, è inquietante. Perché indica che, mentre la donna ha compiuto un tragitto galattico, l’uomo non si è spostato di un metro. Al di là di qualche non sostanziale concessione alla comodità (gli infradito al mare appunto), il resto è tutto uguale.
Il problema, ovvio, non sono gli abiti, ma quello che esprimono: l’incapacità del maschio contemporaneo di evolversi, di smuoversi da un modello ormai morto e sepolto ovunque tranne che nelle inconsce nostalgie di quanti vorrebbero il ripristino del patriarcato.
Nostalgie criminali, perché, se ipoteticamente concretizzate, andrebbero a ledere la libertà che le donne si sono conquistate
Io penso che dietro ai femminicidi e alle violenze che le donne subiscono ci sia la rabbia del maschio tradito da se stesso, cui l’immagine di una donna libera e autonoma risuona come un insopportabile monito a darsi da fare per emanciparsi anche lui.
Da qui il raptus, che spesso raptus non è perché è pure pianificato e calcolato, di rifugiarsi, codardamente, nella forza fisica superiore di cui la natura lo ha dotato. Bruto contraltare alla superiorità psicologica che la natura ha dato alla donna: quella di dire di no.
Il “no” femminile ferisce il maschio antico, il quale, essendo appunto rimasto antico e non avendo un cammino emancipato a cui aggrapparsi per trovare nuovi valori, non ha che da opporre il suo segno di superiorità: la forza fisica.
E’ questa, secondo me, la scintilla della tragedia.
Una mia amica sostiene che l’emancipazione femminile non serve a nulla finché non ce ne sarà una maschile, e ha ragione.
Ogni uomo ha oggi il dovere – prima ancora che il diritto – di trovare un suo modo di emanciparsi. Io ho trovato il mio, ma attenzione, sottolineo che è mio e solo mio, e forse di qualche altro come me. Il crossdressing è una tendenza intima. O ce l’hai dentro, e allora esprimi un valore, contestabile come tutti i valori ma pur sempre valore, o è meglio che la tieni lontana.
Che cosa gli uomini possano e debbano fare per emanciparsi, spetta a ciascuno di loro esplorarlo e deciderlo.
In questo senso, ritengo che la prima sorpresa sarà lo scoprire quanto noi maschi siamo diversi l’uno dall’altro, al di là del mito che ci vorrebbe tutti banalmente uguali.
L’emancipazione femminile è stata un movimento, un movimento collettivo mondiale. Quella maschile non sarà così. In parte perché l’uomo ha vergogna di lasciarsi andare, in parte perché sono convinto che la natura abbia assegnato a ciascuno di noi uomini differenze davvero intime, in forza delle quali l’emancipazione maschile prenderà più la forma di un’evoluzione individuo per individuo, che non quella di uno spostamento di massa.
Nessuno di noi vedrà il compiersi di questo cammino, sarebbe già un successo se se ne vedesse l’inizio.
Ma la strada è quella, il nostro merito, in fondo, è stato proprio di averla spianata, pur con le nostre codardie e le nostre reticenze, agli uomini che verranno.