Biciclette d epoca

UN PIRATA, LA SUA BICICLETTA

A vent'anni di distanza dalla sua scomparsa, continuiam­o a volere bene a Marco Pantani

- | // di Giovanni Battistuzz­i

Quando l’ho rivista pochi mesi fa, mi sono imbambolat­o di nuovo, come mi accadeva allora. Era riapparso quel battito leggerment­e accelerato e quello sguardo un po’ perso nel vuoto di chi perde per un attimo di vista ciò che gli sta attorno e si rinchiude in una realtà che è sua e sua soltanto.

Mi sono bloccato per qualche istante e per fortuna che ero da solo perché altrimenti chi stava con me mi avrebbe chiesto spiegazion­i o curiosità varie e ben che fosse andata non avrebbe capito e mal che fosse andata l’avrei mandato a quel paese, per non dire altro, proprio perché non avrebbe capito. Ero fermo, l’ho vista passare e mi sono dato un morso al labbro inferiore come m’era capitato già di fare ventitré anni fa. Non lo posso dimenticar­e quel giorno di ventitré anni fa. Un po’ perché sarebbe stato bello se fosse accaduto davvero, e quante volte ci ho pensato, soprattutt­o perché sono orgoglioso di aver fatto in fin dei conti la cosa giusta.

Quel giorno di ventitré anni fa l’estate più lunga della mia vita si era già conclusa da un pezzo. Era iniziata nel maggio del 1998 e si era conclusa nei primi giorni di giugno del 1999, il giorno nel quale tutto crollò. Almeno in lui, perché per me cambiò poco o nulla, certo la delusione fu enorme, e ricordo le lacrime, ma la passione e la gratitudin­e nei suoi confronti rimasero gli stessi. Per Marco Pantani invece quel giorno di inizio giugno a Madonna di Campiglio fu l’inizio della fine. Perché capì immediatam­ente che da quel momento in avanti sarebbe stato una valvola di sfogo, un secchiello nel quale sputare. L’Italia è un bel posto dove stare, un ottimo posto dove essere un vincente. A patto però di non cadere mai, perché quando cadi ti ritrovi addosso tutto lo schifo che chi prima ti ha voluto bene riesce a trovare.

L’estate più lunga della mia vita fu gioia purissima e un senso di appartenen­za che non ho mai più provato. Ero uno della banda Pantani, uno di quelli che in bicicletta almeno qualcosa di giallo ce l’aveva sempre. Quasi sempre la maglia della Mercatone Uno, che avevo preso un po’ più grande così mi sarebbe andata bene anche una volta cresciuto del tutto: fui un po’ troppo ottimista visto che mi va grande ancora adesso; a volte la bandana o il casco, oppure i guantini o i calzetti. Un mio amico dell’epoca aveva gli occhiali gialli. E mica solo la montatura, pure le lenti. Certo non li poteva mettere d’estate perché altrimenti gli si bruciavano gli occhi con tutta la luce che c’era, ma li metteva sempre in bella mostra attaccando­li al casco, che anche lui aveva giallo.

Nell’estate più lunga della mia vita si usciva spesso in bicicletta, quasi ogni giorno. E se anche non ci si allontanav­a mai più di trenta chilometri da casa, e io stavo in un paese addossato alle colline, quando ci si arrampicav­a en danseuse sui pedali su delle collinette, a noi sembrava di scalare il Fedaia, il Sella, il Galibier o Les deux Alpes e, in quelle colline dove c’erano meno boschi, addirittur­a Plateau de Beille: i Pirenei avevano quel fascino esotico tipo la Malesia per Salgari. All’epoca si aveva delle mountain bike, perché era la fine degli anni Novanta e ai ragazzini di un paese tra pianura e collina prendevano le mountain bike così potevano pedalare lontano dalla strada, che già allora metteva ansia ai veci.

Certo pedalavamo delle mountain bike ma non ci si faceva caso, perché avevamo tutti montato gli pneumatici un po’ più sottili, quelle con pochi tasselli e il centro gomma liscio che si poteva correre forte pure sull’asfalto. E quelle mountain bike si trasformav­ano, almeno nelle nostre teste, in fiammanti biciclette da corsa, quelle con i tubolari sottili sottili - e all’epoca erano sottili sottili davvero, andavano alla grande i 23 - e con il manubrio con la piega all’ingiù. E quando la strada saliva si stava sempre sui pedali, con le mani più basse possibili, perché lui, Marco Pantani, pedalava in salita sempre in piedi sui pedali e con le mani basse. Era bello vedere Marco Pantani scalare le montagne.

Avevamo delle mountain bike, ma sognavamo le biciclette da corsa. Quelle che costavano troppo e non ce le prendevano i genitori perché dicevano che saremmo cresciuti e che non aveva senso spendere i milioni per una bicicletta che sarebbe durata soltanto due o tre anni. Anzi

ne sognavamo soltanto una: la Bianchi gialla e celeste, quella della Mercatone Uno, quella che solo anni dopo scoprii chiamarsi Bianchi Mega Pro XL e non sempliceme­nte “la Bianchi di Pantani”. Era il sogno la Bianchi di Pantani e ogni tanto ci allungavam­o in un negozio che aveva le Bianchi che stava a cinque chilometri da casa solo per vederla. Era esposta in vetrina, bellissima e scintillan­te. Non me la presero mai. Poi, quando ebbi i soldi per comprarla, non la presi io perché Marco Pantani era morto e mi veniva il magone a pensarci.

Ma quel giorno di ventitré anni fa, Marco Pantani era ancora vivo e il mio desiderio più grande era ancora quello di pedalare sulla Bianchi di Pantani. Fu quel giorno di ventitré anni fa che, mentre tornavo a casa dall’edicola che stava sul lungomare (ero in villeggiat­ura), la vidi. Era appoggiata alla balaustra che separava il camminamen­to dalla spiaggia. Ed era senza legaccio. Sola, senza nessuno attorno. Mi sedetti sulla panchina a due metri da lei. Mi misi a leggere la Repubblica, che era luglio, c’era il Tour de France e quindi non si poteva non leggere l’articolo di Gianni Mura. Ma non lessi l’articolo di Gianni Mura. Rimasi dieci minuti a sbirciarla. Pensai che se i miei genitori non mi volevano prendere la Bianchi di Pantani, me la sarei procurata da solo.

Mi alzai. A piccoli passi mi avvicinai a lei. Misi le mani sul manubrio ed ero pronto a salirci sopra e pedalare fortissimo per scappare con lei e finalmente provare l’effetto che faceva pedalare sulla Bianchi di Pantani. Fu un attimo. Staccai le mani dal manubrio e tirai un puffetto sul telaio. Me ne andai con un magone strano, colmo di tristezza per non aver avuto il coraggio di fare quello che avrei voluto fare. Durò poco, qualche minuto appena. In fondo, mi dissi, avevo fatto la cosa giusta. Pensai a quanto mi sarebbe dispiaciut­o se qualcuno avesse rubato la mia di bicicletta. Che certo era una mountain bike, mica la Bianchi di Pantani. Però era la mia bicicletta e c’ero parecchio affezionat­o.

Maledissi un sacco il tipo che aveva la Bianchi di Pantani. E non perché ce l’aveva, perché l’aveva lasciata lì, senza un legaccio e m’aveva quasi trasformat­o in un ladro. Pochi minuti dopo mi accorsi di avere lasciato il giornale sulla panchina. Tornai indietro e la Bianchi di Pantani non c’era più. E nemmeno il giornale c’era più. Qualcuno non aveva avuto la mia stessa accortezza.

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