PUNTI DI VISTA
Cacciatori, persone perbene
“Il futuro che auspico per la caccia è un’idea romantica. Inutile sforzarsi di amalgamare i cacciatori italiani in un’unità che non esiste, perché siamo tutti diversi e in qualche modo estranei gli uni agli altri, qualche volta addirittura animati da rivalse che si protraggono da decenni. Ma, pur nelle nostre differenze, io spero prima di tutto che i cacciatori sappiano comportarsi da gentiluomini, si facciano promotori di un modello di uomo consapevole, rispettoso dell’ambiente e di tutta la fauna selvatica, capace di valutare e di dare valore ai propri limiti, e anche capace di dialogare con il resto della comunità”
Negli ultimi anni accade sempre più di frequente che il nostro mondo venatorio mi lasci perplesso, minato com’è da contrasti, dispute e manie di affermazione. Persino i social, che per qualche tempo ho frequentato alla ricerca di informazioni e confronto, oggi mi paiono poveri e appesantiti dal continuo copia-incolla di articoli polemici sul selvatico problematico di turno o sull’ambientalista fastidioso, senza parlare dei tuttologi e hunter influencer spuntati fuori chissà da dove, che ogni giorno si mettono in vetrina per propinarci la loro personale ricetta di salvezza.
È un microcosmo, quello dei cacciatori, fatto di uomini con storie diverse e che perseguono fini distanti tra loro almeno quanto vasta è la nostra penisola, tanto che a volte risulta persino difficile il tentativo di includerli in un’unica categoria, uniti quasi sempre dal comune gusto per la lamentela e con una visione molto sfocata del futuro.
Sono giorni ormai che leggo delle apprensioni legate alla prospettiva di un nuovo referendum, dell’idea di un’unica associazione e di un partito che ci rappresentino e della preoccupazione per il sorgere all’orizzonte della figura di un ministero mai visto prima di oggi nel nostro Paese, anche se sono decenni ormai che la scienza spinge in quella direzione. Questi argomenti, legati alla roboante ondata di parole sul ritorno dei grandi predatori, hanno catalizzato l’attenzione del pubblico e sembrano essere il tema essenziale dei dibattiti a sfondo venatorio, animando pagine di forum e riviste come se noi, svegliandoci al mattino, non avessimo davvero altro su cui riflettere.
Invece io, che sono un po’ bastian contrario, caparbiamente continuo a mettermi di fronte allo specchio per lavarmi i denti, spuntarmi la barba e anche per pormi domande ben diverse. È proprio questo il futuro che desidero per la caccia? In che direzione sta andando, seriamente, la mia vita come uomo e come cacciatore?
Mario Rigoni stern: l'ideale del cacciatore naturalista
Ancora una volta mi torna in mente la figura di Mario Rigoni Stern, che è stato a tutti gli effetti l’ultimo esponente autorevole che abbiamo avuto agli occhi dell’opinione pubblica, l’ultimo cacciatore italiano con cui persino i nostri detrattori più accaniti hanno accettato di mettersi a confronto. E non è poco, ricordiamocelo bene, perché nessun altro dopo di lui ha meritato e goduto di un simile privilegio. È un intellettuale, e se lo si tiene presente non si può non pensare a ciò che è stato e a ciò che sta diventando il mondo venatorio, ma che a parer mio troppo spesso viene liquidato come narratore, relegato all’ambito della letteratura.
Rigoni Stern ha incarnato per decenni l’ideale del cacciatore naturalista, attento osservatore e custode del patrimonio faunistico e del suo habitat. È un uomo cui ancora oggi ci ispiriamo e che non ha mai smesso di pronunciare parole pacate e al tempo stesso coraggiose, che mi sembrano quanto mai distanti dalla tendenza dei nostri giorni. Sua era la provocazione dell’auspicio che i cacciatori giungessero a utilizzare soltanto fucili a colpo singolo per ridurre il divario tecnologico tra predatore e preda causato dall’avvento delle armi semiautomatiche. Suo è l’esempio di un uomo che è sempre andato a piedi fino a tarda età, lasciando automobile e fuoristrada in basso, nei luoghi deputati al loro utilizzo. Non la montagna. Tornando a sfogliare le pagine di Stagioni, l’ultimo capolavoro del 2006, non posso fare a meno di percepire l’entusiasmo e l’orgoglio di un cacciatore amante della natura, capace di provare meraviglia di fronte all’operato delle api e all’impronta del francolino di monte nella neve, così come del ritorno di grifoni, orsi, linci e lupi nella sua terra. Riscopriva il valore civile della convivenza, anche con altre specie di predatori.
Ma noi stiamo andando in quella
direzione? Guardiamoci dentro prima di rispondere.
A me non sembra e mi scoraggia perché il cacciatore moderno è sempre più distante dal rappresentare il rustico mondo del vecchio dell’Altipiano; come lo è anche dal mio. Colorati,
tecnici e tecnologici, i nembrotti contemporanei sono sempre più preparati in fatto di balistica, trofeistica, ottiche, trattamento delle carni, accessori e abbigliamento innovativi, cinofilia agonistica e anche su questioni legate alla normativa, eppure allo stesso tempo perdono per strada l’essenza della caccia, qualcosa che è persino difficile da individuare e descrivere, e un po’ alla volta assomigliano sempre più a dei professionisti. Lo scopo stesso dell’andare a caccia diventa un argo
mento dibattuto nel momento in cui per qualcuno si intende come libertà e tradizione, mentre per altri che confondono il prelievo venatorio con il contenimento (ma di che cosa?) è quasi un’azione di pubblica utilità. E in troppi casi si continua a farne una questione di quantità prima che di qualità, tanto che mi piacerebbe sapere quanti di noi oggi rinnoverebbero ancora la licenza se la prospettiva del carniere tornasse a essere la pernice e un paio di lepri anziché le decine di cinghiali (tradotti in quintali di carne) che ogni anno le squadre appendono nelle celle frigorifere o se venisse meno la possibilità di effettuare prelievi selettivi a nostro piacimento, dentro e fuori la regione di residenza. Di fronte all’occhio severo di un ambientalismo che non ci riconosce più e che ci chiede di render conto delle nostre azioni (non sempre a ragion veduta), noi rispondiamo con calendari sempre più dilatati e una mobilità senza freni, concedendoci la possibilità di partecipare a battute che si susseguono praticamente tutto l’anno, muovendoci attraverso ambiti e comprensori (basta pagare) e sfruttando cinque giornate utili alla settimana su strade forestali chiuse al traffico. E con visori termici e carabine semiautomatiche che, non si sa perché, il legislatore di vent’anni fa aveva proibito, ma che oggi riteniamo di poter usare.
Quale cacciatore vorrei essere
E proprio qui sta il fulcro della discussione. Non sto dicendo che tutto ciò non sia lecito perché è pratica consentita ed è anche qualcosa che si inserisce nel contesto di un corretto prelievo. Tuttavia non è qualcosa che ci nobilita, tanto che i nostri oppositori continuano imperterriti a osservare in noi soltanto e sempre le mani sporche di sangue. Lasciamo perdere le strategie di marketing e comunicazione d’assalto che ci fanno apparire sempre un passo indietro e contro cui non abbiamo alcuna possibilità. Il fatto è che il nostro essere cinici assume un rilievo enorme agli occhi di chi non ci conosce e nell’epoca del politically correct noi sembriamo quelli sempre meno giustificabili. Ma se in un futuro prossimo, come fa supporre il quesito legato al probabile referendum, dovesse davvero essere abrogata l’attuale legge per la tutela della fauna omeoterma, quale scenario vorremmo immaginare? Facendo tabula rasa per disegnare un nuovo modello di cacciatore, io che cosa vorrei essere?
Anni fa, in un articolo che scrissi e che Danilo Liboi pubblicò su Sentieri di Caccia, a questa domanda ho risposto che ambivo a essere semplicemente una persona perbene e a distanza di molto tempo continua a sembrarmi la risposta migliore. Il futuro che auspico per la caccia è un’idea romantica. Inutile sforzarsi
di amalgamare i cacciatori italiani in un’unità che non esiste, perché siamo tutti diversi e in qualche modo estranei gli uni agli altri, qualche volta addirittura animati da rivalse che si protraggono da decenni.
Ma, pur nelle nostre differenze, io spero prima di tutto che i cacciatori sappiano comportarsi da gentiluomini, si facciano promotori di un modello di uomo consapevole, rispettoso dell’ambiente e di tutta la fauna selvatica, capace di valutare e dare valore ai propri limiti e, ultimo ma non meno importante, capace di dialogare con il resto della comunità. La conoscenza della tecnica, della buona pratica e dell’utilizzo degli strumenti in dotazione è fondamentale, ma non credo si possa farne lo scudo con il quale giustificare ogni nostra azione. Mettiamo da parte il controproducente accanirsi sempre e solo su determinati argomenti che sono causa di polemiche autolesioniste. Ci sono specie che non saranno mai cacciabili o lo saranno all’interno di limiti talmente restrittivi da renderne vana la ricerca perché è consuetudine popolare proteggerle e farne oggetto di culto, giusto o sbagliato che sia. Ci sono luoghi all’interno dei quali non potremo mai avventurarci ed è giusto così perché vanno preservati, anzi, saremo noi a essere relegati in ambiti via via più ristretti. E ci sono persone con cui dovremo sempre più frequentemente fare i conti perché i nostri contemporanei, qualche volta più “cittadini” o “artificiali” di noi cacciatori, stanno riscoprendo la natura liberandosi in parte dalla cattività che li teneva lontano da boschi e praterie. Frequentano la montagna, si spostano in numero crescente e, mentre noi siamo sempre meno, questi occupano nuovi spazi che non sono più adatti al prelievo venatorio. Sono coloro che spesso ci guardano con ostilità perché hanno negli occhi le immagini trasmesse in televisione e viste sui social, e non sanno davvero chi siamo. Con una notevole dose di pazienza (a volte straordinaria) dovremo trovare il modo di parlarci e non sarà facile. È sbagliato mostrare loro le immagini dei nostri carnieri perché non saranno in grado di apprezzarle. Teniamocele per noi e proponiamo piuttosto l’arte dei pittori animalier che hanno fatto grande il nostro passato.
La caccia è una meravigliosa avventura
Io sono un disilluso, cresciuto con un mito che forse non è mai esistito, quello della caccia vissuta come avventura, fatta di grandi scarpinate nella neve e di cani col pelo
impregnato di pioggia, con il sogno di una giornata a scaldarsi in una baita col fuoco acceso e il silenzio del bosco nelle orecchie. Perlopiù vissuta in solitaria. Così, infatti, mi piace viverla, al di là delle giornate disponibili e di ciò che posso riportare a casa.
Vedo che il mondo cambia e ho speranza perché ci sono dei giovani che oggi si rendono finalmente conto che l’uomo ha fatto danni all’ambiente e non mi si venga a dire che le grandi speculazioni legate alle emissioni climalteranti, la deforestazione, la commercializzazione di carne a basso costo su scala planetaria sono invenzioni. Noi cacciatori sappiamo benissimo qual è la verità perché la sostenibilità è elemento caratterizzante e imprescindibile della nostra stessa attività venatoria. Insegniamolo, questo. Spesso nei progetti dei giovani che sognano un mondo migliore e più pulito io in quanto cacciatore sono il nemico a causa del bombardamento mediatico in cui sono cresciuti, perciò sono costretto a parlare sottovoce con loro, pur senza tirarmi indietro. Ma il fatto che abbiano a cuore il futuro della terra li rende più simili a me di tanti che imbracciano un fucile senza porsi domande di senso e assumendo certi comportamenti soltanto perché il nonno e il padre lo facevano oppure perché esiste una legge che consente di farlo. E se qualcuno pensa che questo mio parlare sia da ambientalista, facendo ricorso al termine con una connotazione negativa, sappia che lo ritengo soltanto un complimento.
i cacciatori potrebbero essere un esempio
Non so che cosa ci aspetti ancora, tra chiusure, pandemie, cambi di legislazione e riforme, ma auspico che i cacciatori ritrovino all’interno del tessuto sociale lo spazio che meritano per quanto risicato, in un certo senso tornando a essere baluardo di genuinità ed esempio vivente del fatto che è ancora possibile estraniarsi da una logica di mercato aggressiva e invadente. Che i cacciatori tornino a dedicarsi al territorio come alla propria casa, condividendo le informazioni e alimentando i sogni della gente. Finché noi stessi seguiremo la logica dell’opportunità, ponendoci come fruitori della natura prima che custodi, il vento della nostra epoca non potrà far altro che spazzarci via e forse un po’ lo sta già facendo.
“Dentro il primo cortile altre fiaccole ardevano attorno alle mura e i cacciatori con i segugi al guinzaglio e fucili in spalla parlavano tra loro sottovoce. Dicevano Weidmannsheil, tendendo la mano a ognuno che entrava. Nel giorno di Sant’Uberto è il saluto che si scambiano non solo i cacciatori ma anche i ragazzi, le donne, i vecchi, il sindaco e il parroco. Salute all’uomo dei boschi!”.