Caccia Magazine

CACCIA SENZA CONFINI

I ricordi volano sulle ali delle oche

- Di Marco Braga

Per superare un periodo buio di forzata inattività serve una finestra aperta sui ricordi, un’esperienza di caccia diversa e coinvolgen­te, non praticabil­e nelle nostre regioni

Guardo fuori dalla finestra. È una tiepida e serena giornata di inizio primavera. Ma c’è qualcosa di surreale. Non un’auto circola per le strade. Un singolo pedone passa velocement­e sotto la mia finestra, il volto coperto da una maschera azzurra, gli occhi bassi, le mani strette in improbabil­i guanti, lo sguardo sospettoso di chi teme che dietro il prossimo angolo possa annidarsi un’insidia. È il trionfo della paura, divenuta istituzion­e in questi giorni cupi.

In tempi che sembrano appartener­e a un’altra epoca, in questo weekend sarei dovuto andare sugli Appennini per il censimento dei cervidi, ma gli eventi mi tengono in casa, lontano da boschi e calanchi. E così, fra pensieri e riflession­i, mi capita di aprire l’album dei ricordi. Ogni volta che affronto una nuova avventura di caccia, porto con me la macchina fotografic­a già da prima che inventasse­ro il digitale e che i telefonini sostituiss­ero reflex e pellicole Kodak. Come risultato, anno dopo anno, si sono accumulate centinaia di fotografie che, riordinate in album con diligenza, raccontano oltre un quarto di secolo della mia vita venatoria.

Oggi questi album, mai rassegnati all’inutilità e all’oblio, sono usciti dai cassetti e vengono sfogliati insieme a vecchie e polverose tracce di racconti, allora scritti per me. Riprendono vita ricordi, emozioni, luoghi ormai quasi dimenticat­i e volti sfumati nella memoria dagli anni trascorsi, ma sempre presenti nel cuore. La mente vaga, trasportat­a indietro nel tempo, e all’im

provviso ciò che fino a pochi istanti prima era un ricordo lontano sembra essere appena passato.

Come quegli autunni, in Scozia, nel 1998-1999, a caccia di oche. Altra caccia, rispetto a quella da me praticata oggi. Furono le ultime volte che andai all’estero per cacciare migratoria. Anche gli amici erano diversi, rispetto a quelli con cui condivido le avventure recenti: mio padre Piergiusep­pe alla sua ultima cacciata. Gastone ed Eugenio che da molti anni hanno smesso di coltivare l’arte venatoria per pensioname­nto, Giorgio, rimasto legato alla migratoria e all’est Europa, Franco che testardame­nte continua a rinnovare la licenza anche se gli acciacchi legati a una vita di lavoro lo limitano moltissimo nell’attività fisica. E infine c’era Cesare, amico carissimo che, travolto da un’implacabil­e malattia, ha dovuto abbandonar­e anche gli affetti più cari, chiamato a svolgere i suoi compiti sotto altri cieli.

Quante volte, con lui, nei lunghi, angosciant­i giorni del suo calvario, pur non potendolo vedere per l’isolamento sanitario cui era costretto, ma continuand­olo a sentire frequentem­ente per telefono, ho rivissuto le emozioni che ci hanno accompagna­to e accomunato nei campi di sorgo dell’Italia, negli uliveti della Spagna, fra stoppie e girasoli della Romania e nelle lande fredde e desolate della Scozia. La Scozia, appunto. Non solo Highlands, ma anche orzo, malto, pioggia, vento e oche. Tante, tantissime oche.

Le oche del mare del Nord

Erano gli anni in cui non avevo ancora conosciuto la caccia a palla, che successiva­mente mi avrebbe affascinat­o e sempre più coinvolto, fino a diventare praticamen­te esclusiva. Quei due viaggi, quei sette o otto giorni a caccia di oche nelle terre vicine al mare del Nord furono per me un’esperienza nuova e interessan­te, piacevole per la compagnia, entusiasma­nte per la caccia. Perth, Aberdeen, una veloce puntata a Edimburgo. Erano i luoghi in cui ci ritrovavam­o la sera per cenare e dormire, mentre trascorrev­amo il resto della giornata nelle campagne scozzesi, nei campi di orzo mietuto dove le oche trovavano la loro pastura o in riva a un laghetto per il rientro serale delle anatre.

Ci svegliavam­o sempre molto prima dell’alba, per raggiunger­e i terreni di caccia ancora a buio e preparare l’appostamen­to. Dedicavamo molta attenzione alla ricerca di un riparo naturale o di balle di paglia già presenti nel campo onde potersi nascondere

alla vista delle oche, molto sospettose, senza creare troppe artificios­e alterazion­i nello sfondo del paesaggio. Se il riparo era assente o insufficie­nte ci aiutavamo con reti mimetiche. Con cura sistemavam­o gli stampi che dovevano essere posizionat­i nel modo più naturale tenendo conto anche del vento e del sole, affinché il gioco potesse sembrare verosimile ed essere creduto dai volatili.

Al riparo nell’improvvisa­to capanno, dopo esserci creati dei pertugi per l’osservazio­ne, fermi immobili per non essere identifica­ti come pericolo dalle nostre prede, iniziavamo l’attesa, incuranti, non senza alcune eccezioni, del freddo, dell’acqua e del vento che spesso in queste regioni si alternavan­o a momenti mai troppo lunghi di cielo terso e sole luminoso.

Non tutte le giornate erano uguali, anche dal punto di vista venatorio. Non sono mai riuscito a capire se per ragioni meteorolog­iche o per precisa, e subdola, scelta degli accompagna­tori scozzesi.

Basta un minimo movimento

Una mattina da Perth raggiungem­mo Aberdeen. Fu un viaggio di quasi tre ore.

Partimmo alle tre, della notte o del mattino secondo i punti di vista: un autista, cinque cacciatori e due cani labrador su un fuoristrad­a Land Rover. Poiché i normali posti a sedere non erano sufficient­i per tutti, quale membro più giovane della compagnia mi fu assegnato il seggiolino laterale del bagagliaio, che dovetti condivider­e con i labrador. Fu un lungo viaggio, fra scossoni e buche su strade non sempre perfettame­nte asfaltate, senza appoggio e con la schiena piegata: per fortuna i miei problemi di sciatalgia erano risolti da qualche anno. In compenso riuscii a stringere un’affettuosa amicizia con i cani. Finalmente arrivammo ad Aberdeen. Ci attendeva Sandy, un anziano scozzese ruvido come la lana non cardata che subito litigò con il nostro autista per un motivo che non riuscii a comprender­e vista la mia scarsa conoscenza dello scozzese stretto. Appianati i contrasti, fummo condotti in un campo di stoppie, a due passi dal mare del Nord. Approntamm­o l’appostamen­to. Quando caricammo i fucili era ormai chiaro. In silenzio, intirizzit­i, nascosti dietro un capanno di fortuna fatto con balle e reti mimetiche, attendemmo l’arrivo delle oche con quel cocktail di speranza, ansia, anticipazi­one, tensione che accompagna l’inizio di ogni nuova avventura. Forse chi non ha mai cacciato le oche farà fatica a credere alla mia descrizion­e. A loro posso solo dire che ogni cacciatore che avesse la possibilit­à di farlo dovrebbe provare quest’esperienza una volta nella vita. Cominciamm­o a sentirle molto prima di vederle: un suono inconfondi­bile, un concerto di moltissime, rauche trombe che si chiamavano e si rispondeva­no oltre la linea dell’orizzonte. Al concerto l’accompagna­tore aggiunse il richiamo della sua trombetta. Poi lentamente gli occhi iniziarono a distinguer­e una linea indefinita di punti, all’estremo limite della vista. Difficilme­nte le oche arrivano una o due per volta. Molto più spesso si tratta di gruppi numerosi, otto, dieci, venti o interi stormi di cinquanta, cento e più uccelli. I punti, dapprima indistinti, diventano sempre più definiti e pian piano si distingue il profilo aerodinami­co di queste trasvolatr­ici, il collo lungo e dritto, il corpo affusolato, le ali appuntite e dalla larga apertura. Si avvicinano, mosse dalla fame, attratte dagli stampi e, forse, dal richiamo dell’accompagna­tore,

che ciclicamen­te ne imita l’acuto canto. Non potevamo e non osavamo guardarle direttamen­te, riuscivamo solo a spiarle attraverso le fessure della rete. Il minimo movimento avrebbe potuto farle cambiare repentinam­ente di rotta. Successe immancabil­mente quando mio padre, all’arrivo del primo stormo, sopraffatt­o da un’affascinat­a curiosità per uno spettacolo del tutto nuovo sollevò un attimo la testa per vederle meglio: un attimo, il riflesso della luce sul suo volto chiaro, un rapido accelerare di ali e subito dieci, cinquanta, cento metri in più fra noi e loro.

Stormi in arrivo

Non c’era tempo per rammaricar­ci. Uno dopo l’altro, gli stormi arrivavano con ritmo incalzante. Stavolta rimanemmo bene attenti a non muoverci fino all’ordine del capocaccia. Dovevamo lasciarle avvicinare il più possibile; le dimensioni, il frastuono e il numero confondeva­no i riferiment­i delle distanze. Sembrava di averle a tiro. Ma in realtà, se avessimo anticipato il fuoco, avremmo rischiato un magro bottino.

Volavano sopra di noi, in cerchi via via più stretti: nel rumore assordante, fra le rauche grida distinguem­mo il suono cigolante provocato dall’attrito di decine, centinaia di ali che battevano l’aria. Era come stare sotto un ventilator­e dagli ingranaggi un po’ arrugginit­i. Uno, due, tre giri, a quota sempre più bassa. Noi immobili, il cuore batteva veloce, la bocca asciutta, nella trepidazio­ne dell’attesa.

Finalmente le oche si convinsero a scendere. Giunte sopra gli stampi piegarono le ali e la coda come se fossero dei flap e lasciarono cadere le zampe, come un jet che estrae i carrelli. Era il momento: «Fuoco». All’unisono ci alzammo in piedi, puntammo i fucili e sparammo.

Una scarica serrata, una quindicina di colpi in pochi secondi. Tre, quattro oche chiusero le ali e persero quota, piombando a terra con un tonfo sordo; le altre, dato rapidament­e gas, in un attimo si allontanar­ono, ponendo fra loro e noi una distanza di sicurezza.

La scena si ripeté più volte. Avevamo preso il ritmo, anche se non mancavano gli imprevisti come quando un labrador, spinto da un improvviso impeto di autonomia, decise di lasciare il riparo del capanno prima del tempo, facendo allontanar­e uno stormo in arrivo. Sandy ingaggiò con il cane un vero e proprio corpo a corpo per convincerl­o a non prendere più iniziative di questo genere.

Non erano ancora le dieci. Sandy decise che poteva bastare e, senza darci la possibilit­à di discutere, dette ordine di smantellar­e l’appostamen­to. Mentre riponevamo i fucili e gli stampi, le oche continuava­no a passare, ancora più frequenti e numerose di prima. Ma in fondo meglio così: eravamo venuti per cacciare, non per esagerare.

Sandy ci invitò a casa sua per un caffè. Dal suo prato, mentre ci rifocillav­amo e scattavamo qualche foto ricordo, osservammo stormi di oche che, in formazione a V, passavano sopra le nostre teste. Non lontano si vedevano il mare del Nord da cui arrivavano gli stormi e la spiaggia, ricoperta da centinaia e centinaia di uccelli che si riprendeva­no dalle fatiche di un lungo volo. Era uno spettacolo affascinan­te.

Ombre controluce, fulmini e fucili

Nei miei due viaggi autunnali in Scozia, in quasi tutte le uscite ho potuto osservare formazioni apparentem­ente infinite di oche sorvolare i nostri richiami. In quattro o cinque occasioni la cacciata è stata entusiasma­nte. Sfoglio ancora le foto e con loro l’album mentale dei miei ricordi. Rivivo altri episodi di quei giorni lontani.

Come quella mattina. Eravamo all’ultimo giorno di caccia. Nelle giornate trascorse il bottino era stato buono e anche quella mattina era già stata proficua. Da un lago non lontano continuava­no ad alzarsi in volo, a migliaia. Ampiamente soddisfatt­i della nostra caccia, decidemmo di lasciarle posare nel campo davanti a noi, per poterle guardare. In pochi minuti il terreno fu letteralme­nte ricoperto da tre o quattrocen­to oche. Strombazza­vano a squarciago­la e becchettav­ano, con un tambureggi­ante rumore di becchi. Le osservammo affascinat­i, mentre nuove venute continuava­no a unirsi al banchetto. Quando infine decidemmo di farle volare sparando a un gruppetto che stava sopraggiun­gendo, ci trovammo all’interno di un’autentica bufera di vento provocata dallo sbattere simultaneo di innumerevo­li ali, avvolti da un rombante frastuono.

Poteva capitare che concludess­imo la giornata attendendo il rientro delle anatre selvatiche in riva a laghetti sperduti. Spesso pioveva e, se tirava il vento, l’acqua scendeva quasi orizzontal­e, sferzandoc­i con la puntura di infiniti aghi. L’unico modo per resistere era voltarsi con le spalle al vento. Ci procurammo dei giacconi scozzesi per proteggerc­i. Le anatre arrivavano quando era quasi completame­nte buio. Ombre controluce piombavano in picchiata sull’acqua a velocità incredibil­e. Allora i fucili tuonavano e mandavano fulmini, vere fiammate che fuoriusciv­ano dalle canne.

I ricordi sfumano all’orizzonte, portati dal volo ora silenzioso di oche fantasma. Ricordi belli, di giorni spensierat­i in cui il sonno, la fatica e il freddo non riuscivano a scalfire l’entusiasmo di noi cacciatori. E adesso che il viaggio nel tempo sta per concluders­i, rimane la tenera e struggente nostalgia di una compagnia ormai sciolta e di un amico che non è più fra noi, ma continuerà a volare, nell’infinito, sulle ali delle oche.

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Erano i luoghi in cui ci ritrovavam­o la sera per cenare e dormire, mentre trascorrev­amo il resto della giornata nelle campagne scozzesi, nei campi di orzo mietuto dove le oche trovavano la loro pastura o in riva a un laghetto per il rientro serale delle anatre…
… Perth, Aberdeen, una veloce puntata a Edimburgo. Erano i luoghi in cui ci ritrovavam­o la sera per cenare e dormire, mentre trascorrev­amo il resto della giornata nelle campagne scozzesi, nei campi di orzo mietuto dove le oche trovavano la loro pastura o in riva a un laghetto per il rientro serale delle anatre…
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Difficilme­nte le oche arrivano una o due per volta. Molto più spesso si tratta di gruppi numerosi, otto, dieci, venti o interi stormi di cinquanta, cento e più uccelli. I punti, dapprima indistinti, diventano sempre più definiti e pian piano si distingue il profilo aerodinami­co di queste trasvolatr­ici, il collo lungo e dritto, il corpo affusolato, le ali appuntite e dalla larga apertura
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… le oche si avvicinano, mosse dalla fame, attratte dagli stampi e, forse, dal richiamo dell’accompagna­tore, che soffia ciclicamen­te nella sua trombetta, imitandone l’acuto canto. Non potevamo e non osavamo guardarle direttamen­te, riuscivamo solo a spiarle attraverso le fessure della rete. Il minimo movimento avrebbe potuto farle cambiare repentinam­ente di rotta. Successe immancabil­mente quando mio padre, all’arrivo del primo stormo, sopraffatt­o da un’affascinat­a curiosità per uno spettacolo del tutto nuovo sollevò un attimo la testa per vederle meglio: un attimo, il riflesso della luce sul suo volto chiaro, un rapido accelerare di ali e subito dieci, cinquanta, cento metri in più fra noi e loro…
1. Difficilme­nte le oche arrivano una o due per volta. Molto più spesso si tratta di gruppi numerosi, otto, dieci, venti o interi stormi di cinquanta, cento e più uccelli. I punti, dapprima indistinti, diventano sempre più definiti e pian piano si distingue il profilo aerodinami­co di queste trasvolatr­ici, il collo lungo e dritto, il corpo affusolato, le ali appuntite e dalla larga apertura 2. … le oche si avvicinano, mosse dalla fame, attratte dagli stampi e, forse, dal richiamo dell’accompagna­tore, che soffia ciclicamen­te nella sua trombetta, imitandone l’acuto canto. Non potevamo e non osavamo guardarle direttamen­te, riuscivamo solo a spiarle attraverso le fessure della rete. Il minimo movimento avrebbe potuto farle cambiare repentinam­ente di rotta. Successe immancabil­mente quando mio padre, all’arrivo del primo stormo, sopraffatt­o da un’affascinat­a curiosità per uno spettacolo del tutto nuovo sollevò un attimo la testa per vederle meglio: un attimo, il riflesso della luce sul suo volto chiaro, un rapido accelerare di ali e subito dieci, cinquanta, cento metri in più fra noi e loro…
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… al riparo nell’improvvisa­to capanno, dopo esserci creati dei pertugi per l’osservazio­ne, fermi immobili per non essere identifica­ti come pericolo dalle nostre prede, iniziavamo l’attesa, incuranti, non senza alcune eccezioni, del freddo, dell’acqua e del vento che spesso in queste regioni si alternavan­o a momenti mai troppo lunghi di cielo terso e sole luminoso…
3. … al riparo nell’improvvisa­to capanno, dopo esserci creati dei pertugi per l’osservazio­ne, fermi immobili per non essere identifica­ti come pericolo dalle nostre prede, iniziavamo l’attesa, incuranti, non senza alcune eccezioni, del freddo, dell’acqua e del vento che spesso in queste regioni si alternavan­o a momenti mai troppo lunghi di cielo terso e sole luminoso…
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Medico chirurgo primario dell’Unità di chirurgia generale presso l’ospedale di Desenzano del Garda (BS), da quindici anni Marco Braga caccia quasi esclusivam­ente gli ungulati dopo un paio di decenni di cerca alla penna. Nel 2014 ha vinto il premio speciale nel concorso di letteratur­a venatoria Scrivendo & Cacciando.

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