CACCIA SENZA CONFINI
I ricordi volano sulle ali delle oche
Per superare un periodo buio di forzata inattività serve una finestra aperta sui ricordi, un’esperienza di caccia diversa e coinvolgente, non praticabile nelle nostre regioni
Guardo fuori dalla finestra. È una tiepida e serena giornata di inizio primavera. Ma c’è qualcosa di surreale. Non un’auto circola per le strade. Un singolo pedone passa velocemente sotto la mia finestra, il volto coperto da una maschera azzurra, gli occhi bassi, le mani strette in improbabili guanti, lo sguardo sospettoso di chi teme che dietro il prossimo angolo possa annidarsi un’insidia. È il trionfo della paura, divenuta istituzione in questi giorni cupi.
In tempi che sembrano appartenere a un’altra epoca, in questo weekend sarei dovuto andare sugli Appennini per il censimento dei cervidi, ma gli eventi mi tengono in casa, lontano da boschi e calanchi. E così, fra pensieri e riflessioni, mi capita di aprire l’album dei ricordi. Ogni volta che affronto una nuova avventura di caccia, porto con me la macchina fotografica già da prima che inventassero il digitale e che i telefonini sostituissero reflex e pellicole Kodak. Come risultato, anno dopo anno, si sono accumulate centinaia di fotografie che, riordinate in album con diligenza, raccontano oltre un quarto di secolo della mia vita venatoria.
Oggi questi album, mai rassegnati all’inutilità e all’oblio, sono usciti dai cassetti e vengono sfogliati insieme a vecchie e polverose tracce di racconti, allora scritti per me. Riprendono vita ricordi, emozioni, luoghi ormai quasi dimenticati e volti sfumati nella memoria dagli anni trascorsi, ma sempre presenti nel cuore. La mente vaga, trasportata indietro nel tempo, e all’im
provviso ciò che fino a pochi istanti prima era un ricordo lontano sembra essere appena passato.
Come quegli autunni, in Scozia, nel 1998-1999, a caccia di oche. Altra caccia, rispetto a quella da me praticata oggi. Furono le ultime volte che andai all’estero per cacciare migratoria. Anche gli amici erano diversi, rispetto a quelli con cui condivido le avventure recenti: mio padre Piergiuseppe alla sua ultima cacciata. Gastone ed Eugenio che da molti anni hanno smesso di coltivare l’arte venatoria per pensionamento, Giorgio, rimasto legato alla migratoria e all’est Europa, Franco che testardamente continua a rinnovare la licenza anche se gli acciacchi legati a una vita di lavoro lo limitano moltissimo nell’attività fisica. E infine c’era Cesare, amico carissimo che, travolto da un’implacabile malattia, ha dovuto abbandonare anche gli affetti più cari, chiamato a svolgere i suoi compiti sotto altri cieli.
Quante volte, con lui, nei lunghi, angoscianti giorni del suo calvario, pur non potendolo vedere per l’isolamento sanitario cui era costretto, ma continuandolo a sentire frequentemente per telefono, ho rivissuto le emozioni che ci hanno accompagnato e accomunato nei campi di sorgo dell’Italia, negli uliveti della Spagna, fra stoppie e girasoli della Romania e nelle lande fredde e desolate della Scozia. La Scozia, appunto. Non solo Highlands, ma anche orzo, malto, pioggia, vento e oche. Tante, tantissime oche.
Le oche del mare del Nord
Erano gli anni in cui non avevo ancora conosciuto la caccia a palla, che successivamente mi avrebbe affascinato e sempre più coinvolto, fino a diventare praticamente esclusiva. Quei due viaggi, quei sette o otto giorni a caccia di oche nelle terre vicine al mare del Nord furono per me un’esperienza nuova e interessante, piacevole per la compagnia, entusiasmante per la caccia. Perth, Aberdeen, una veloce puntata a Edimburgo. Erano i luoghi in cui ci ritrovavamo la sera per cenare e dormire, mentre trascorrevamo il resto della giornata nelle campagne scozzesi, nei campi di orzo mietuto dove le oche trovavano la loro pastura o in riva a un laghetto per il rientro serale delle anatre.
Ci svegliavamo sempre molto prima dell’alba, per raggiungere i terreni di caccia ancora a buio e preparare l’appostamento. Dedicavamo molta attenzione alla ricerca di un riparo naturale o di balle di paglia già presenti nel campo onde potersi nascondere
alla vista delle oche, molto sospettose, senza creare troppe artificiose alterazioni nello sfondo del paesaggio. Se il riparo era assente o insufficiente ci aiutavamo con reti mimetiche. Con cura sistemavamo gli stampi che dovevano essere posizionati nel modo più naturale tenendo conto anche del vento e del sole, affinché il gioco potesse sembrare verosimile ed essere creduto dai volatili.
Al riparo nell’improvvisato capanno, dopo esserci creati dei pertugi per l’osservazione, fermi immobili per non essere identificati come pericolo dalle nostre prede, iniziavamo l’attesa, incuranti, non senza alcune eccezioni, del freddo, dell’acqua e del vento che spesso in queste regioni si alternavano a momenti mai troppo lunghi di cielo terso e sole luminoso.
Non tutte le giornate erano uguali, anche dal punto di vista venatorio. Non sono mai riuscito a capire se per ragioni meteorologiche o per precisa, e subdola, scelta degli accompagnatori scozzesi.
Basta un minimo movimento
Una mattina da Perth raggiungemmo Aberdeen. Fu un viaggio di quasi tre ore.
Partimmo alle tre, della notte o del mattino secondo i punti di vista: un autista, cinque cacciatori e due cani labrador su un fuoristrada Land Rover. Poiché i normali posti a sedere non erano sufficienti per tutti, quale membro più giovane della compagnia mi fu assegnato il seggiolino laterale del bagagliaio, che dovetti condividere con i labrador. Fu un lungo viaggio, fra scossoni e buche su strade non sempre perfettamente asfaltate, senza appoggio e con la schiena piegata: per fortuna i miei problemi di sciatalgia erano risolti da qualche anno. In compenso riuscii a stringere un’affettuosa amicizia con i cani. Finalmente arrivammo ad Aberdeen. Ci attendeva Sandy, un anziano scozzese ruvido come la lana non cardata che subito litigò con il nostro autista per un motivo che non riuscii a comprendere vista la mia scarsa conoscenza dello scozzese stretto. Appianati i contrasti, fummo condotti in un campo di stoppie, a due passi dal mare del Nord. Approntammo l’appostamento. Quando caricammo i fucili era ormai chiaro. In silenzio, intirizziti, nascosti dietro un capanno di fortuna fatto con balle e reti mimetiche, attendemmo l’arrivo delle oche con quel cocktail di speranza, ansia, anticipazione, tensione che accompagna l’inizio di ogni nuova avventura. Forse chi non ha mai cacciato le oche farà fatica a credere alla mia descrizione. A loro posso solo dire che ogni cacciatore che avesse la possibilità di farlo dovrebbe provare quest’esperienza una volta nella vita. Cominciammo a sentirle molto prima di vederle: un suono inconfondibile, un concerto di moltissime, rauche trombe che si chiamavano e si rispondevano oltre la linea dell’orizzonte. Al concerto l’accompagnatore aggiunse il richiamo della sua trombetta. Poi lentamente gli occhi iniziarono a distinguere una linea indefinita di punti, all’estremo limite della vista. Difficilmente le oche arrivano una o due per volta. Molto più spesso si tratta di gruppi numerosi, otto, dieci, venti o interi stormi di cinquanta, cento e più uccelli. I punti, dapprima indistinti, diventano sempre più definiti e pian piano si distingue il profilo aerodinamico di queste trasvolatrici, il collo lungo e dritto, il corpo affusolato, le ali appuntite e dalla larga apertura. Si avvicinano, mosse dalla fame, attratte dagli stampi e, forse, dal richiamo dell’accompagnatore,
che ciclicamente ne imita l’acuto canto. Non potevamo e non osavamo guardarle direttamente, riuscivamo solo a spiarle attraverso le fessure della rete. Il minimo movimento avrebbe potuto farle cambiare repentinamente di rotta. Successe immancabilmente quando mio padre, all’arrivo del primo stormo, sopraffatto da un’affascinata curiosità per uno spettacolo del tutto nuovo sollevò un attimo la testa per vederle meglio: un attimo, il riflesso della luce sul suo volto chiaro, un rapido accelerare di ali e subito dieci, cinquanta, cento metri in più fra noi e loro.
Stormi in arrivo
Non c’era tempo per rammaricarci. Uno dopo l’altro, gli stormi arrivavano con ritmo incalzante. Stavolta rimanemmo bene attenti a non muoverci fino all’ordine del capocaccia. Dovevamo lasciarle avvicinare il più possibile; le dimensioni, il frastuono e il numero confondevano i riferimenti delle distanze. Sembrava di averle a tiro. Ma in realtà, se avessimo anticipato il fuoco, avremmo rischiato un magro bottino.
Volavano sopra di noi, in cerchi via via più stretti: nel rumore assordante, fra le rauche grida distinguemmo il suono cigolante provocato dall’attrito di decine, centinaia di ali che battevano l’aria. Era come stare sotto un ventilatore dagli ingranaggi un po’ arrugginiti. Uno, due, tre giri, a quota sempre più bassa. Noi immobili, il cuore batteva veloce, la bocca asciutta, nella trepidazione dell’attesa.
Finalmente le oche si convinsero a scendere. Giunte sopra gli stampi piegarono le ali e la coda come se fossero dei flap e lasciarono cadere le zampe, come un jet che estrae i carrelli. Era il momento: «Fuoco». All’unisono ci alzammo in piedi, puntammo i fucili e sparammo.
Una scarica serrata, una quindicina di colpi in pochi secondi. Tre, quattro oche chiusero le ali e persero quota, piombando a terra con un tonfo sordo; le altre, dato rapidamente gas, in un attimo si allontanarono, ponendo fra loro e noi una distanza di sicurezza.
La scena si ripeté più volte. Avevamo preso il ritmo, anche se non mancavano gli imprevisti come quando un labrador, spinto da un improvviso impeto di autonomia, decise di lasciare il riparo del capanno prima del tempo, facendo allontanare uno stormo in arrivo. Sandy ingaggiò con il cane un vero e proprio corpo a corpo per convincerlo a non prendere più iniziative di questo genere.
Non erano ancora le dieci. Sandy decise che poteva bastare e, senza darci la possibilità di discutere, dette ordine di smantellare l’appostamento. Mentre riponevamo i fucili e gli stampi, le oche continuavano a passare, ancora più frequenti e numerose di prima. Ma in fondo meglio così: eravamo venuti per cacciare, non per esagerare.
Sandy ci invitò a casa sua per un caffè. Dal suo prato, mentre ci rifocillavamo e scattavamo qualche foto ricordo, osservammo stormi di oche che, in formazione a V, passavano sopra le nostre teste. Non lontano si vedevano il mare del Nord da cui arrivavano gli stormi e la spiaggia, ricoperta da centinaia e centinaia di uccelli che si riprendevano dalle fatiche di un lungo volo. Era uno spettacolo affascinante.
Ombre controluce, fulmini e fucili
Nei miei due viaggi autunnali in Scozia, in quasi tutte le uscite ho potuto osservare formazioni apparentemente infinite di oche sorvolare i nostri richiami. In quattro o cinque occasioni la cacciata è stata entusiasmante. Sfoglio ancora le foto e con loro l’album mentale dei miei ricordi. Rivivo altri episodi di quei giorni lontani.
Come quella mattina. Eravamo all’ultimo giorno di caccia. Nelle giornate trascorse il bottino era stato buono e anche quella mattina era già stata proficua. Da un lago non lontano continuavano ad alzarsi in volo, a migliaia. Ampiamente soddisfatti della nostra caccia, decidemmo di lasciarle posare nel campo davanti a noi, per poterle guardare. In pochi minuti il terreno fu letteralmente ricoperto da tre o quattrocento oche. Strombazzavano a squarciagola e becchettavano, con un tambureggiante rumore di becchi. Le osservammo affascinati, mentre nuove venute continuavano a unirsi al banchetto. Quando infine decidemmo di farle volare sparando a un gruppetto che stava sopraggiungendo, ci trovammo all’interno di un’autentica bufera di vento provocata dallo sbattere simultaneo di innumerevoli ali, avvolti da un rombante frastuono.
Poteva capitare che concludessimo la giornata attendendo il rientro delle anatre selvatiche in riva a laghetti sperduti. Spesso pioveva e, se tirava il vento, l’acqua scendeva quasi orizzontale, sferzandoci con la puntura di infiniti aghi. L’unico modo per resistere era voltarsi con le spalle al vento. Ci procurammo dei giacconi scozzesi per proteggerci. Le anatre arrivavano quando era quasi completamente buio. Ombre controluce piombavano in picchiata sull’acqua a velocità incredibile. Allora i fucili tuonavano e mandavano fulmini, vere fiammate che fuoriuscivano dalle canne.
I ricordi sfumano all’orizzonte, portati dal volo ora silenzioso di oche fantasma. Ricordi belli, di giorni spensierati in cui il sonno, la fatica e il freddo non riuscivano a scalfire l’entusiasmo di noi cacciatori. E adesso che il viaggio nel tempo sta per concludersi, rimane la tenera e struggente nostalgia di una compagnia ormai sciolta e di un amico che non è più fra noi, ma continuerà a volare, nell’infinito, sulle ali delle oche.