Il tesoro della piramide
A garantire il successo di una squadra non basta la fortuna di cacciare in territori vocati o la passione dei componenti. La ripartizione di ruoli, compiti e responsabilità è spesso necessaria per garantirne armonia e longevità
Provincia di Pistoia, fine degli anni Settanta. Un gruppo di amici appassionati di cani e caccia al cinghiale fonda l’embrione di una squadra che nel 1980 verrà alla luce dalla fusione con una limitrofa a formare la Laghetto di Castelvecchio. A quell’epoca c’erano pochi animali, meno tecnologia, normative appena abbozzate; tutto era più semplice. Con gli anni si è arrivati a 80 componenti, dieci canai, innumerevoli cani di razze diverse e complementari per abilità e attitudini di caccia. Il territorio assegnato è esteso, circa 3.000 ettari coperti di castagneti, boschi di acacia, poche radure. Il carniere annuo sfiora i 200 cinghiali abbattuti. Quando una squadra smette di essere un gruppo di amici e raggiunge queste proporzioni, la sua struttura necessita di basi solide e durature. Diventa un’azienda.
Una squadra ben organizzata è una squadra che ha successo. Ovviamente il profitto sarà non monetario (anche se è noto che alcune squadre sono capaci di gestire e far fruttare i prodotti della caccia, talvolta con riscontri economici), ma legato a divertimento, coesione, partecipazione e longevità.
E, come nelle più blasonate multinazionali, anche nella squadra serve una struttura piramidale, non necessariamente gerarchica ma capace di riconoscere l’auto
revolezza di chi, per esperienza, carisma o capacità, si trova in una posizione apicale.
Piramidi e merito
Come la maggior parte delle squadre italiane, la squadra Laghetto di Castelvecchio si è dotata di un regolamento, redatto da almeno 20 anni. Esiste un consiglio, composto da 11 consiglieri e rinnovato ogni tre anni. Il consiglio elegge il presidente, il cassiere e i suoi vice. Elegge inoltre il capocaccia, il capoposta e il responsabile del reparto di macellazione.
«A tutti i componenti della squadra, anche all’ultimo arrivato, non è precluso un posto di rilievo; la carriera all’interno della squadra non avanza su base anagrafica ma per coinvolgimento, partecipazione e disponibilità» spiega Marcello
Nardi, capocaccia della Laghetto di Castelvecchio. «Ciò garantisce una grande coesione tra i cacciatori, perché tutti si sentono parimenti coinvolti nella gestione e nella riuscita delle braccate. Non è improbabile che un giovane e volenteroso cacciatore diventi consigliere (e non solo) nel giro di una o due stagioni». Anche le mansioni meno vena
torie sono regolamentate: la cucina, la macellazione, la preparazione di prodotti di norcineria non sono lasciate alla mercé della buona volontà di chi c’è, ma prevedono dei referenti e dei responsabili eletti dal consiglio sulla base delle candidature. Sapere chi faccia che cosa è il segreto di questa squadra; la strada è la responsabilizzazione di tutti e la gratificazione di chi si impegna.
I ruoli apicali previsti dal regolamento sono certamente prestigiosi, ma rappresentano soprattutto un onere per chi li ricopre. Lo spirito è principalmente quello del servizio. Capocaccia, capiposta, canai e alcuni consiglieri si riuniscono al mattino presto prima della battuta, mentre tutti gli altri componenti sono radunati per la registrazione. Il consiglio ragiona sulla base delle osservazioni della tracciatura, del meteo, del numero di cacciatori e decide la cacciata, la disposizione delle poste e i compiti da assegnare.
È molto affascinante assistere a questo momento al mattino: a porte chiuse, attorno a un tavolo a ferro di cavallo, il consiglio si raduna, si confronta, talvolta si scontra.
La decisione del consiglio, argomentata e circostanziata, viene recepita dalla squadra con rigore, non sempre di buon grado. Ovviamente tante teste significano tanti pareri, tanti temperamenti; ma la forza di una squadra così efficiente risiede proprio nel rispetto. A nessuno di noi sfugge quanto sarebbe deleterio che ciascuno agisse secondo la sua personale idea. E forse in alcune situazioni abbiamo toccato con mano tale circostanza. Il rischio più grande dietro alla disgregazione è la mancanza di sicurezza. E senza sicurezza non c’è divertimento, non c’è squadra, non ci può essere caccia.
La Laghetto di Castelvecchio questi concetti li ha chiari, li mette in pratica in maniera esemplare e con estrema umiltà si pone come faro nel mare di squadre che popolano la braccata.
Nato a Castrovillari (CS) nel 1977, da più di vent’anni Vincenzo Frascino lavora a Roma come medico specialista in radioterapia oncologica. Dopo i primi anni di caccia alla penna, approda alla caccia di selezione, non abbandonando però la caccia al cinghiale in braccata. È inoltre appassionato di fotografia e con la reflex, che porta sempre nel suo zaino, non perde occasione per immortalare le scene più significative delle sue uscite.