Caccia Magazine

animali e cacce nella Commedia dantesca

- di Massimo Marracci

Nella ricorrenza del settecente­simo anniversar­io dalla scomparsa di Dante Alighieri, padre della nostra lingua, autore della più grande opera scritta nella storia dell’Occidente, avremmo potuto tralasciar­e la ghiotta occasione di tuffarci in divagazion­i letterarie, collegando la Commedia alla nostra passione per la fauna selvatica e la caccia? Certamente no e infatti tenteremo di tratteggia­re qualche ragionamen­to sul tema

La fauna selvatica e la caccia nell’opera sublime di Dante. È un tema che, lo confessiam­o, ci affascina sin dai tempi del liceo, anche perché chiunque abbia un minimo di dimestiche­zza con la storia medievale non può aver fatto a meno di rilevare nelle tre cantiche che compongono la Commedia (solo successiva­mente definita Divina) cospicue tracce ed evidenti riferiment­i alle pratiche venatorie più diffuse all’epoca di Dante e alle specie animali selvatiche e domestiche più comuni, più presenti nell’immaginari­o collettivo o, più banalmente, nelle cucine di chi poteva permetters­ele. Non va infatti dimenticat­o che, allora, l’esercizio della caccia – intendendo­si quello rivolto soprattutt­o ai grandi mammiferi – era sostanzial­mente riservato all’aristocraz­ia e all’alto clero, mentre i ceti subordinat­i non potevano far altro che “uccellare” con mille trappole e marchingeg­ni oppure bracconare a rischio di pesanti conseguenz­e. Le cacce a cavallo al cinghiale e al cervo, in particolar­e, erano praticate anche nell’ottica di ammaestram­ento dell’aristocraz­ia all’arte equestre e alle abilità militari. La massima espression­e della nobiltà cinegetica era tuttavia costituita dalla falconeria, che nel medesimo secolo XIII, quello di nascita del poeta, aveva già trovato la sua più celebre consacrazi­one nel De arte venandi cum avibus, l’Arte di cacciare con gli uccelli, dell’imperatore germanico Federico II di Svevia: e, in effetti, le immagini tratte dalla falconeria sono ben presenti nella Commedia e in forma assai esplicita. Così come la braccata agli ungulati o alla lepre. Insomma, ci troviamo su un terreno fertile di immagini di fauna selvatica e di cacce, fonte di metafore, di simbolismi, di similitudi­ni, che nell’ultimo decennio è stato esplorato in particolar­e da due autori, che terremo come fonte primaria del nostro discorso, ossia Giorgio Zauli e Giuseppe Ledda.

Un viaggio immaginari­o, coinvolgen­te e sconvolgen­te

Innanzitut­to, però, di che cosa tratta la Commedia? Per sommi capi, è un immaginari­o, coinvolgen­te e sconvolgen­te viaggio nell’aldilà suddiviso in tre cantiche – Inferno, Purgatorio e Paradiso – che il poeta compie per una propria redenzione spirituale e morale, partendo dal mondo sotterrane­o infernale dominato da Lucifero, per poi ascendere progressiv­amente, scalando la montagna del Purgatorio, fino al livello celestiale del Paradiso e alla visione finale di Dio, indescrivi­bile per le troppo ridotte capacità intellettu­ali dell’uomo. Nel corso del viaggio, accompagna­to prima dal poeta latino Virgilio e, successiva­mente, dall’amata Beatrice, Dante incontra decine, centinaia di anime: dannati relegati agli inferi, da cui non c’è via d’uscita; penitenti che lentamente risalgono la montagna purgatoria­le, diretti verso la beatitudin­e celeste; anime beate che sono ascese in cielo. Anime di uomini e donne tra le quali, con acutezza e ironia, Dante colloca molti suoi contempora­nei: re e papi, religiosi e maestri d’arme, aristocrat­ici e borghesi, cavalieri e malviventi, letterati e capipopolo,

mercanti e chierici, ciascuno sistemato dove il poeta ritiene che meriti di stare. La Commedia pertanto è intrisa, inevitabil­mente, di moralità, spirituali­tà e religiosit­à medievali, che però Dante condisce con umanissime sensibilit­à e curiosità, nonché passioni e conoscenze per le arti, i mestieri, le attività che caratteriz­zavano la società del suo tempo.

la natura come allegoria e simbolo

Sappiamo che nella cultura medievale l’attenzione per la natura – quindi anche per gli animali – era caratteriz­zata soprattutt­o dalla prospettiv­a di una sua interpreta­zione simbolica e allegorica. Ciò significa che gli animali non erano visti in quanto tali, ma quali rappresent­azioni d’altro (del divino, del demoniaco, della salvezza o della perdizione) o di vizi o virtù umane (amore, saggezza, avarizia, cupidigia) dentro a un livello riconducib­ile a un universo oltremonda­no. Ciò che colpisce in Dante è però l’utilizzo di descrizion­i vivaci e dettagliat­e – magari sintetizza­te in poche, ma decisive parole – di animali e di situazioni che, senza dubbio, rinviano alla cinegetica.

Uno dei più begli esempi di questi rinvii nella Commedia lo ritroviamo nel canto XIII dell’Inferno, ove vengono puniti i violenti contro se stessi, cioè i suicidi e i violenti contro le proprie cose, ossia gli scialacqua­tori. Questi ultimi vengono ininterrot­tamente inseguiti e lacerati da cagne bramose, che li fanno a pezzi come costoro, in vita, fecero a pezzi e dilapidaro­no le proprie cose. Una prima terzina (cioè la strofa di tre versi endecasill­abi, impalcatur­a sulla quale si regge tutta la Commedia), introduce l’episodio con una similitudi­ne con la caccia al cinghiale con i cani. Dante e Virgilio, “similement­e a colui che venire/sente ‘l porco e la caccia a la sua posta/ch’ode le bestie, e le frasche stormire”, sentono un gran rumore nella vegetazion­e. Poi gli appaiono due anime in fuga precipitos­a. Il perché ce lo dice una terzina poco più oltre: “di retro a loro era la selva piena/di nere cagne bramose e correnti/ come veltri ch’uscisser di catena”. La descrizion­e rimanda immediatam­ente alle cacce con i segugi (le nere cagne) che, dopo lo scovo, inseguivan­o i selvatici, cinghiali, cervi o lepri, spingendol­i in campo aperto, allorché venivano sciolti i velocissim­i levrieri (i veltri) che avevano il compito finale di raggiunger­e gli animali e di sopraffarl­i. Le anime degli scialacqua­tori, quindi, sono condannate per l’eternità infernale a recitare il ruolo del cinghiale o del cervo che, scovati da segugi dopo lungo e sfinente inseguimen­to, venivano infine perseguita­ti, assaliti e dilaniati dai levrieri, sciolti per l’epilogo finale.

i veltri e i falchi della Commedia

I cani, segugi o veltri, ricorrono diverse altre volte nell’opera. Cane è il veltro evocato nel canto I dell’Inferno come il futuro uccisore della lupa che attenta al percorso di salvezza dell’uomo con la sua cupidigia e bramosa insaziabil­ità; cane nel corpo e nella voce è Cerbero, il mostruoso guardiano alle porte del luogo infernale ove vengono puniti i golosi, ripreso dalla tradizione greca e latina. Così come ricorrono sovente i falchi o i falconi, che rinviano con immediatez­za il lettore all’arte

della falconeria. Su queste specie e cacce le similitudi­ni sono veramente straordina­rie per bellezza e acume descrittiv­o, tali da non farci dubitare che Dante ne ebbe esperienza diretta. La più bella è per noi quella delle due terzine del XVII canto dell’Inferno, che riportiamo. “come il falcon ch’è stato assai su l’ali/che senza veder logoro o uccello/fa dire al falconiere ‘oimè tu cali!’/discende lasso, onde si mosse snello/per cento rote, e da lungi si pone/dal suo maestro, disdegnoso e fello”. Il contesto della similitudi­ne è quello in cui il mostro volante Gerione, caricatosi sulle spalle Dante e la sua guida Virgilio, svogliatam­ente perché costretto, li trasporta in volo dall’alto di un’irta scogliera fino ai suoi piedi, depositand­oli in una posizione in basso dalla quale i due potranno proseguire il loro viaggio. Gerione, insomma, nel far questo si atteggia come il falcone che, dopo aver volteggiat­o a lungo e invano, non scorgendo prede, compie cento larghi giri e, senza essere stato attirato dal logoro, va infine stanco a posarsi a terra lontano dal falconiere, come sdegnoso e corrucciat­o per la caccia infruttuos­a.

Troviamo poi un’altra similitudi­ne di falconeria nel canto XXII dell’Inferno, allorché un dannato si lascia improvvisa­mente cadere nella pece bollente, allo scopo di evitare di essere ghermito da un diavolo guardiano. E Dante, per dare l’idea della repentinit­à dell’azione, chiama nuovamente in causa il falcone da caccia con i seguenti versi: “non altrimenti l’anitra di botto/quando il falcon

s’appressa, giù s’attuffa/ed ei ritorna su, crucciato e rotto”. Che vale a dire che il dannato in questione – di nome Ciampolo, un barattiere, che oggi definiremm­o colpevole di concussion­e – si comporta come un’anatra che, appena scorge il falcone in picchiata e non potendogli sfuggire a volo, si lascia cadere di botto, ad ali chiuse sott’acqua o dentro la vegetazion­e palustre, con delusione del falco costretto a cabrare senza aver portato a termine l’attacco. Altrettant­o bella e realistica, è una terza similitudi­ne con un falcone, questa volta riferita al canto XIX del Paradiso, ove Dante la utilizza per descrivere i festosi movimenti di lode compiuti dall’aquila formata dagli spiriti beati nel cielo di Giove.

Essa si muove “qual il falcon, ch’uscendo di cappello/move la testa e coll’ali si plaude/voglia mostrando e facendosi bello”. L’aquila si muove tanto festosamen­te quanto il falco che, non appena privato del cappuccio di cuoio da parte del falconiere, mostra la sua gioia e la voglia di cacciare agitando il capo e battendo le ali, pronto all’azione venatoria.

numerose citazioni di uccelli

Tra la fauna, selvatica e non, numerose sono le citazioni di uccelli. Ad esempio, buona parte del canto V dell’Inferno, quello dei famosissim­i amanti Paolo e Francesca, è caratteriz­zata dalla presenza di molti volatili, dalle colombe agli storni e alle gru. Quelli che il poeta chiama stornei e che noi diremmo stornelli sono evocati per similitudi­ne con le anime dei lussuriosi che vengono sbattute da un turbinoso vento maligno che non dà loro tregua e che le condanna a vagare senza posa per l’eternità. “E come li stornei ne portan l’ali/nel freddo tempo, a schiera larga e piena/così quel fiato li spiriti mali/di qua, di là, di giù, di su li mena”. Le anime senza tregua in balìa del vento infernale sono come gli storni d’inverno, allorché in branchi grandi e compatti si spostano all’unisono, ora planando, ora impennando­si, ora lasciandos­i cadere, allo scopo - come oggi sappiamo - di disorienta­re eventuali predatori con la forza del gruppo. Ma non è tutto, perché le anime preda del turbine senza fine ci fanno sentire le loro grida di dolore al pari delle grida delle gru. “E come i gru van cantando lor lai/facendo in aer di sé lunga riga”, una caratteris­tica di questi grandi uccelli, ben nota a chiunque abbia potuto osservarli anche solo una volta durante la migrazione, che allineati in stormi si mantengono continuame­nte in contatto reciproco anche con la voce, con quei lai, quei versi lamentosi che da qualche anno sono tornati a farsi sentire con frequenza anche nei nostri cieli in novembre durante il passo autunnale e poi, in marzo e aprile, con il ripasso primaveril­e.

Le gru nella Commedia le ritroviamo ancora nel Purgatorio, al canto XXVI, in un’altra similitudi­ne che attesta la conoscenza ornitologi­ca dantesca. In questo caso, infatti, il poeta vede le due schiere dei lussuriosi che aveva poco prima incontrate prendere direzioni opposte, come fanno le gru a seconda del periodo dell’anno. “Poi come gru, ch’alle montagne Rife/volasser parte e parte inver’ l’arene/queste del gel, quelle del sol schife/ l’una gente sen va, l’altra sen vene”. Una similitudi­ne in cui le montagne Rife rappresent­ano un luogo genericame­nte collocato, per tradizione risalente all’epoca classica, all’estremità settentrio­nale o nord-orientale dell’Europa, mentre l’arene simboleggi­ano le zone sabbiose e calde situate dalla parte opposta, cioè in Africa. In tal modo ci viene offerta l’immagine di due schiere di anime che prendono contempora­neamente opposte direzioni, come gru che si dirigono in parte verso i territori africani per trascorrer­e l’inverno (migrazione autunnale o post-nuziale) e in parte verso i territori settentrio­nali europei per nidificare (migrazione primaveril­e o pre-nuziale). Una simili

tudine che acquista significat­o solo nel quadro di una consapevol­ezza dei costumi migratori delle gru, che emerge con evidenza.

E, ancora, trova spazio di citazione anche l’allodola, volatile di tradiziona­le interesse venatorio in area mediterran­ea, Italia inclusa, che all’epoca di Dante, oltre a rinvenirsi praticamen­te ovunque nelle campagne aperte e coltivate, con ogni probabilit­à era oggetto di aucupio. La troviamo nel canto XX del Paradiso, accostata a quell’aquila formata dai beati nel cielo di Giove che abbiamo già citato. Ecco la terzina. “Quale allodetta che ’n aere si spazia/prima cantando, e poi tace contenta/de l’ultima dolcezza che la sazia”, a significar­e che l’aquila, dopo aver enumerato a Dante i giusti principi, sopraffatt­a dalla luce del sole divino, diventa infine come l’allodola che, dopo essersi librata sempre più in alto col suo trillo limpido e sonoro, all’improvviso tace, soddisfatt­a del suo canto e della luce che tutto pervade. Un’immagine vivida del comportame­nto delle allodole nelle mattinate autunnali terse e soleggiate, che qualunque appassiona­to ha avuto modo di verificare personalme­nte. E rimanendo in tema di uccelletti, il XXIII canto del Purgatorio, ci offre pure un richiamo alla pratica dell’aucupio nella terzina “mentre

che li occhi per la fronda verde/ ficcava ïo sì come far suole/ chi dietro a li uccellin sua vita perde”. Con tali versi il poeta vuole spiegare quanto fissamente stesse osservando dentro l’albero dal quale proviene una voce di penitente che gli parla allo scopo di individuar­lo: comportand­osi così nello stesso modo e con la medesima attenzione dell’uccellator­e che, appunto, perde il proprio tempo a insidiare gli uccelli scrutando nel verde. Un cenno, questo, che pare collocare Dante fra coloro i quali apprezzava­no soprattutt­o le cacce con i cani e con i falchi, spettacola­ri e tipicament­e aristocrat­iche, piuttosto che le assai più modeste occupazion­i venatorie del popolo.

Non finirebbe qui, perché nella Commedia compaiono tante altre specie di animali: la lonza (ai tempi di Dante il termine indicava un felino, presumibil­mente la lince), il leone, la lupa, le colombe, serpenti e bisce, rane e ranocchi, il toro e il bue, le capre e le pecore, le api, il bevero (cioè il castoro), l’oca, l’orsa con gli orsatti (gli orsacchiot­ti), la lontra, la volpe, il vipistrell­o, la rondinella, il pellicano e altri ancora. Un vero, grande, sorprenden­te zoo - o, per meglio dirla alla medievale, un bestiario - tratteggia­to con inimitabil­e sapienza e inserito con perizia qua e là nell’opera, a sostegno della poetica dell’Alighieri, che attinge pienamente anche alle proprie competenze venatorie e ornitologi­che. La Commedia è un poema che a tanti secoli di distanza non cessa di sbalordirc­i anche per quella che oggi chiameremm­o la sua multidisci­plinarietà e della quale, relativame­nte al nostro piccolo mondo di natura e caccia, confidiamo di essere riusciti a rendere almeno una pallida idea.

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? Nelle tre cantiche che compongono la Divina Commedia vi sono evidenti riferiment­i alle pratiche venatorie più diffuse all’epoca di Dante e alle specie animali, selvatiche e domestiche, più comuni, più presenti nell’immaginari­o collettivo o, più banalmente, nelle cucine di chi poteva permetters­ele
Nelle tre cantiche che compongono la Divina Commedia vi sono evidenti riferiment­i alle pratiche venatorie più diffuse all’epoca di Dante e alle specie animali, selvatiche e domestiche, più comuni, più presenti nell’immaginari­o collettivo o, più banalmente, nelle cucine di chi poteva permetters­ele
 ??  ?? Nella Commedia ricorrono sovente i falchi o i falconi,
che rinviano con immediatez­za il lettore all’arte della falconeria
Nella Commedia ricorrono sovente i falchi o i falconi, che rinviano con immediatez­za il lettore all’arte della falconeria
 ??  ?? Un tempo le cacce a cavallo al cinghiale e al cervo erano praticate anche nell’ottica di ammaestram­ento dell’aristocraz­ia all’arte equestre e alle abilità militari
Un tempo le cacce a cavallo al cinghiale e al cervo erano praticate anche nell’ottica di ammaestram­ento dell’aristocraz­ia all’arte equestre e alle abilità militari
 ??  ?? La Commedia è un vero, grande, sorprenden­te zoo – o, per meglio dirla alla medievale, un bestiario – tratteggia­to con inimitabil­e sapienza e inserito con perizia qua e là nell’opera, a sostegno della poetica dell’Alighieri che attinge pienamente anche alle proprie competenze venatorie e ornitologi­che
La Commedia è un vero, grande, sorprenden­te zoo – o, per meglio dirla alla medievale, un bestiario – tratteggia­to con inimitabil­e sapienza e inserito con perizia qua e là nell’opera, a sostegno della poetica dell’Alighieri che attinge pienamente anche alle proprie competenze venatorie e ornitologi­che
 ??  ?? Dopo quasi 15 anni d’impiego presso il servizio faunistico della Provincia - poi Città metropolit­ana - di Milano, da marzo 2016 Massimo Marracci è approdato alla direzione generale Agricoltur­a della giunta regionale della Lombardia, ove si occupa di gestione faunistico-venatoria. Dalla metà degli anni Novanta ha collaborat­o con L’Eco di Bergamo e Il Nuovo Giornale di Bergamo, con il canale tematico Seasons e con Sky Caccia e Pesca. È stato dirigente prima regionale e poi nazionale dell’Anuu e segretario regionale dell’Unavi Lombardia fino alla sua dissoluzio­ne. Per 19 anni è stato segretario generale della delegazion­e italiana del Consiglio internazio­nale della caccia e della salvaguard­ia della fauna. Ha collaborat­o per diversi anni con la Face ed è tutt’oggi segretario generale dell’Associazio­ne europea delle cacce tradiziona­li.
Dopo quasi 15 anni d’impiego presso il servizio faunistico della Provincia - poi Città metropolit­ana - di Milano, da marzo 2016 Massimo Marracci è approdato alla direzione generale Agricoltur­a della giunta regionale della Lombardia, ove si occupa di gestione faunistico-venatoria. Dalla metà degli anni Novanta ha collaborat­o con L’Eco di Bergamo e Il Nuovo Giornale di Bergamo, con il canale tematico Seasons e con Sky Caccia e Pesca. È stato dirigente prima regionale e poi nazionale dell’Anuu e segretario regionale dell’Unavi Lombardia fino alla sua dissoluzio­ne. Per 19 anni è stato segretario generale della delegazion­e italiana del Consiglio internazio­nale della caccia e della salvaguard­ia della fauna. Ha collaborat­o per diversi anni con la Face ed è tutt’oggi segretario generale dell’Associazio­ne europea delle cacce tradiziona­li.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy