il nonno di tutti i facoceri
Il primo colpo impatta un po’ troppo dietro, ma il breve recupero permette di portare a termine il prelievo di un verro vecchio ed enorme
La madre del mondo, dopo aver generato l’uomo e tutte le bellezze del Creato, si era accorta che alcune aree erano meno rigogliose di altre: l’Africa in particolare. Così dal suo cesto prese una manciata di alberi che ancora non aveva donato all’uomo e la lanciò sulla terra. Sfortunatamente gli alberi si piantarono nella terra al contrario, lanciando le proprie radici verso il cielo. E il Senegal, più brullo di altri Paesi africani, ne ebbe in dono un numero maggiore.
Dakar, posta sulla Penisola di Capo Verde, fa rivivere momenti lontani nel tempo con la sua aria coloniale e le vestigia della presenza francese: il bel palazzo della camera di commercio, la stazione ferroviaria, gli edifici déco e i boulevard alberati che un tempo dovevano essere ordinati.
So bene che c’è di meglio - non molto in realtà - ma scelgo sempre l’Hotel Lagoon 2 perché si affaccia sul mare proprio di fronte all’isola di Gorée, l’isola degli schiavi, a soli due chilometri dalla costa con le
sue stradine, una piccola rocca e la famosa Maison des esclaves, la casa degli schiavi, sulle cui scale sono transitati alcuni milioni di poveracci venduti come forza lavoro nelle varie colonie. Di fianco all’hotel, sempre affacciato sull’oceano, vi è il ristorante Lagoon 1 famoso per i piatti di pesce da annaffiare con ottimi vini francesi.
Alle sette arriva il fuoristrada che ci porterà a Kedougou, al confine con la Guinea, sul fiume Gambia, dove l’amico Djibril Dioum ha una concessione di ben 100.000 ettari confinanti col parco nazionale Niokolo Koba.
Potremmo prendere un piccolo aereo di linea dalla capitale fino a Tambacunda, giusto per accorciare il tragitto in auto, ma preferiamo le quattro ruote alle ali della compagnia aerea locale.
A notte fondissima, dopo una sosta a Kaolak per una pizza decente, arriviamo al campo dove un assonnato ancorché festoso Djibril ci accoglie: «Demain on va partir à six heures».
In due tempi
Le distese di alta erba gialla ci accolgono in una calura insopportabile già alle sei del mattino, ma i primi voli di double spoor francolin ci fanno digerire anche l’alta temperatura. In breve, dopo le prime padelle di assestamento, cominciamo a entrare in giornata e incarnieriamo alcuni di questi incredibili volatori. Cadono anche un paio di rare pernici delle rocce - poule de roches
- poco più grandi di una quaglia. Dopo il pranzo e un riposino confortato dall’aria condizionata del cottage, partiamo verso il lago che sarà teatro dell’attesa alle tortore e alle ganga, sand grouse.
Appena giunti, sono attore di una singolare esperienza che resterà viva nello zaino dei ricordi: vengo attaccato da un enorme pitone,
lungo più di quattro metri, che si scaglia verso di me soffiando e mostrando i denti a bocca spalancata. Grazie a una certa consuetudine con la carica di un animale, non mi perdo d’animo e faccio tuonare il mio sovrapposto calibro 12 che spedisce i pallini numero 8 nelle fauci del mostro abbattendolo di schianto. La legittima difesa testimoniata dal guardaparco mi ha evitato di incorrere in sanzioni visto che il pitone è animale protetto. Peraltro le sue bianche carni grigliate non erano niente male. Dopo un paio di giorni di caccia ai volatili ci spostiamo verso l’area del grand gibier dove facoceri a centinaia si contendono il territorio con il guibe harnachè (harnessed bushbuck), la roan che qui chiamano koba, il bufalo di savana, più piccolo del cafro ma altrettanto aggressivo, il red hartebeest (bubal) e i piccoli cefalofi tipici dell’Africa occidentale.
Sarà proprio qui che riuscirò a ottenere «le grand-père de tous le faco», come il mio pisteur ha definito il vecchio facocero conquistato con una bella azione su traccia. Seguiamo le numerose impronte di facoceri, Madì, il tracciatore, davanti e io appena dietro. Improvvisamente la mia guida si arresta e mi indica un branchetto di suidi, femmine e qualche porcastro, cui non presto attenzione con un certo suo disappunto. Madì abbozza e prosegue nella cerca finché si irrigidisce e mi sussurra: «Un grand male là bas». Un grosso maschio laggiù. Lo vedo a un centinaio di metri, macchia grigia che spicca sulla terra ocra riarsa dal sole: sta grufolando e non si avvede della nostra presenza. Mi appoggio al bastone preparatomi dal pisteur al mattino presto dopo aver scortecciato un alberello e lascio partire la botta di .378. Un gran polverone e degli strilli acuti mi fanno capire che ho centrato il bersaglio, che però vedo fuggire verso il fitto. Il colpo non è stato perfetto. Raggiungiamo il luogo in cui il facocero è stato colpito e alcune tracce di sangue ci indicano la direzione presa dal ferito. Dopo poche centinaia di metri intravedo l’animale accucciato sotto un cespuglio. Mi metto a vento buono e mi avvicino. Il nonno di tutti i facoceri riparte e da breve distanza lo ribalto con la palla da 270 grani: il primo colpo lo aveva attinto decisamente dietro, ma era stato sufficiente per rallentarne la fuga. Al peso risulterà di cento chilogrammi, un vero mostro per la sua specie; le sue zanne fanno ora bella mostra nella mia sala dei ricordi.
Al punto d’incontro, dove pure gli amici hanno scaricato le loro prede, ci rinfreschiamo con l’ottima birra Gazelle tra i racconti delle cacciate e le risate per come Madì trasportava il mio facocero, diviso a metà e caricato sulla testa alla maniera africana con capo e terga dalla medesima parte: immagine indecorosa per un vecchio grande verro.
Tutte le sere, a caccia finita, prima di rientrare al campo era d’obbligo passare agli uffici della forestale per farsi timbrare il libretto giallo della licenza di caccia.
È stata una splendida esperienza di caccia mista, alla piuma e alla grossa selvaggina intendo, in un contesto magnifico anche se caldo - tra
i 35 e i 40°C - vegliati dai baobab con le loro lunghe braccia accoglienti e accolti con cordialità dalla popolazione. Abbraccio Djibril prima della partenza, poi un ultimo giro a Dakar con colonna sonora di Youssou N’ Dour e un arrivederci all’orribile monumento alla rinascita africana nel quartiere di Al Madies. A bientôt, Senegal.