Un gesto controcorrente
Pubblicare un libro sulla corrida è un atto tutt’altro che banale. Perché il suo vitalismo sfrenato celebra il trionfo della vita sulla morte, ma ha bisogno dell’esistenza della morte per compiersi
C'è solo un’attività invisa all’opinione pubblica ancor più della caccia, capace di scatenare ondate di protesta e catalizzare legioni di nemici indignati e che, quasi al pari della caccia, affonda le proprie radici in una tradizione antica caratterizzandosi per ritualità sacrali e simbolismi arcaici. Quest’attività è la tauromachia.
Pubblicare oggi in Italia un libro su quest’antichissima disciplina è senza dubbio un gesto controcorrente, se ve ne sono. oggi perfino Morte nel pomeriggio di ernest Hemingway è diventato difficile da trovare in libreria e anche chi voglia semplicemente capire, informarsi, nella migliore delle ipotesi viene guardato male dal libraio. (Sembra uno scherzo, ma l’ho sperimentato mandando a prendere un libro sul buddhismo di Julius evola, che ha il torto di essere un genio e di aver compreso, unico in Italia - pur annacquandola accanto a tanta paccottiglia razzista - la vera essenza del buddhismo). ora, c’è chi si proclama fuori dal coro e chi invece agisce, come dicono i giuristi, “per fatti concludenti”.
In questa seconda categoria si colloca senz’altro la casa editrice Settecolori, che sta conoscendo una nuova giovinezza con la pubblicazione di tanti bei libri introvabili e - il che non guasta - molto curati nella grafica, nella carta, insomma, in tutto ciò che rende il libro un bell’oggetto, non necessariamente nell’ordine, da guardare, toccare, collezionare, leggere. Volapié di Max David è l’ultimo volume licenziato da questi editori calabresi innestati a Milano. Da lontano sembra un Adelphi. Da vicino è più bello.
Per chi non lo sapesse, il volapié è l’azione conclusiva del toreador: il gesto col quale, in corsa, egli affronta la carica diretta del toro conficcandogli la spada (auspica
bilmente) nel cuore. La ley taurina prevede infatti che il torero uccida il toro entro il decimo minuto del tercio de muleta, la fase saliente della fiesta. Se così non fosse, dovrà farlo entro il tredicesimo; ove fallisse ancora, entro il quindicesimo la bestia verrà finita dai peones con un pugnale e il matador sarà fischiato.
L'analisi della vita e della morte
Personalmente ho assistito alla corrida una volta sola, a Madrid, da giovanissimo. La Spagna era uscita da poco dal franchismo, quando la corrida veniva quasi occultata al fine di non diffondere all’estero l’immagine di una nazione violenta, e si tornava a pubblicizzarla con grande enfasi. Non ho idea di chi fossero i toreador impegnati nell’arena, né se lo spettacolo che offrirono fu di qualità o scadente. Ricordo che, pur avendo letto Morte nel pomeriggio, la corrida mi colpì come un calcio nello stomaco e non mi piacque. Non mi azzardai però allora, né mi azzardo adesso, a giudicare una cosa così complessa che necessita di studi e frequentazioni e riguarda, più di quanto si possa immaginare, l’anima di un intero popolo. Leggendo per la prima volta Volapié, apprendo che questo iniziale sconcerto non è mio esclusivo. Caratterizzò perfino l’autore. Il quale è un mostro sacro del giornalismo italiano, uno fra i numeri uno di quel drappello di inviati di lusso che comprendeva i coetanei Montanelli e Piovene, i più vecchi Vergani, Malaparte, e il più giovane di 12 anni Bocca. Come ricorda Stenio Solinas nella postfazione, Max David era un giornalista di punta della torinese Gazzetta del popolo (poi lo fu del Corriere e, infine, al gruppo Monti): l’avvento delle leggi razziali gli costò il licenziamento in tronco, essendo Max troppo esotico e David troppo ebreo. Fu però reintegrato con tante scuse perché indagini approfondite avevano appurato l’italianità dei David italiani (a partire da quelli di Donatello e di Michelangelo). Per prudenza però il nostro romagnolo gentleman-caballero-hidalgo prese a firmarsi Massimo per esteso, lasciando il Max ai telefoni bianchi.
Il libro ha anche una prefazione di Matteo Nucci, che ci spiega che David cadde aficionado, cioè s’innamorò della corrida, il 22 aprile del 1943, giovedì santo, all’imbrunire, dopo aver provato repulsione verso questa attività cruenta, in una
“Spagna che grondava sangue da ogni parte”. La scrittura di Volapié gli richiese tre anni. Il testo fu di 900 pagine. Ne tagliò 500, troppo tecniche, lasciando solo il nucleo essenziale dell’opera, che è quello appena rieditato. Hemingway lesse il manoscritto e gli rispose: «Caro David, ti invidio. Avrei voluto saperle io tante cose». Perché fa bene un libro così? Perché con uno stile brillante, mai banale, contiene un’analisi profonda del senso della vita e della morte. È un’analisi che l’Occidente così pieno di sé, con la sua smania di cancellare la morte, non ci permette più. Riflettete. Per la stessa ragione la gente odia la caccia: oggi vige il rifiuto di guardare la morte negli occhi.
Non è solo un problema degli spagnoli: è universale.
Il vitalismo sfrenato della corrida celebra il trionfo della vita sulla morte, ma ha bisogno dell’esistenza della morte per compiersi. Come scrive Nucci: “Della morte del Cristo, che risorge, la morte che la Vergine piange, la morte del toro, la morte che rischia il torero, la morte che alcuni toreri porta con sé”.