Sulle tracce dei padri
Per raggiungere la zona in cui i camosci si sono rifugiati bisogna superare alcuni ometti di pietra detti cairn, quei mucchietti di sassi che in passato costituivano un segnavia funzionale, elegante e assolutamente ecologico; li utilizzavano già i cacciatori del Neolitico per ritrovare la strada del ritorno dopo le battute e ci parlano della storia e del lavoro duro e paziente degli uomini di montagna, e della straordinaria civiltà alpina
“La montagna apre i suoi segreti solo a chi ha il coraggio di sfidarla.
Chiede sacrifici e allenamento.
Obbliga a lasciare la sicurezza delle valli, ma offre a chi ha il coraggio dell’ascesa gli spettacoli stupendi delle cime”
Giovanni Paolo II
Ai piedi di un’alpe inaccessibile giunge chiuso nella sua armatura un cavaliere. Pensoso e scoraggiato egli tenta invano di valicare quell’alpe che immobile nella sua maestà pare che sfidi ogni più saldo ardimento. Ed ecco sulla vetta apparire una soave figura femminile e disciogliere le sue trecce bionde, le quali per un miracolo d’amore si allungano fin giù nella pianura quasi invito al cavaliere. Egli resta esitante e turbato, ma una voce dolcissima gli dice: «Spogliati della tua armatura, deponi ogni pensiero profano, ogni volgare aspirazione e salirai sino a me».
Il ricordo di questa leggenda, rimasto nel mio spirito come un simbolo della elevazione dell’uomo verso una visione sovrana della bellezza, ritornò alla coscienza come un frammento del passato mentre, madido di sudore, cercavo di svuotare la mente da ogni preoccupazione per concentrarmi sullo sforzo che le circostanze mi richiedevano.
Con la testa sollevata verso lo spazio infinito, svanito ogni egoismo meschino, il mio sguardo contemplava rapito lo spettacolo della natura che mi circondava: cime simili a rovine di castelli, dirupi e rocce a strapiombo; spazi immensi e silenzio assoluto, commistione tra bellezza e terrore, suscitavano una sensazione di smarrimento e di impotenza e, nello stesso tempo, destavano sentimenti di appagamento.
Non ero niente, ma vedevo tutto; le correnti dell’Essere Universale mi attraversavano; ero una parte o una particella di Dio.
La faticosa ma sempre gratificante ricerca del camoscio che mi era stato assegnato era iniziata all’alba, con partenza dal selvaggio vallone di Rio Freddo, ed era proseguita senza sosta fra prati e ondulati dossi erbosi fra i larici, fino a una pietraia di grossi blocchi di pietra.
Unicorni e bezoar
Lungo il sentiero tra il lago di Malivern e il colletto di Valscura superammo alcuni ometti di pietra o cairn, come vengono chiamati nel mondo nordeuropeo quei mucchietti di sassi che costitui
vano un segnavia funzionale, elegante e assolutamente ecologico; li utilizzavano già i cacciatori del Neolitico per ritrovare la strada del ritorno da caccia e ci parlano della storia e del lavoro duro e paziente degli uomini di montagna e della straordinaria civiltà alpina. Quassù questa tradizione ancora si conserva tra i pellegrini che ogni anno raggiungono a piedi il santuario di Sant’Anna, il secondo più alto d’Europa (2.035 metri slm). A conferma resta ancora l’iscrizione riportata sul marmo dell’e
dicola votiva in pietra lungo la strada che, ancora costellata dai resti di antiche caselle per pellegrini, conduce al santuario. Vi si legge: “Pellegrin che a piedi passi, segna il tuo cammino con i sassi”.
Il sudore scivolava lungo la schiena, la bocca era impastata, le gambe s’indurivano e gli occhi bruciavano per le gocce di liquido che dal sopracciglio stillavano; ma il desiderio di raggiungere quel camoscio diffidente e astuto che da alcune ore tentavamo invano di avvicinare e che ci aveva condotto fin quasi ai piedi della cima del Malivern aveva annullato fatica e dolore, dando a cuore e respiro un nuovo ritmo. Muscoli e nervi protestavano, obbligati a sottomettersi a una determinazione inusuale; ma, sia pure lentamente e con il fiato corto, la difficile arrampicata lungo il ripido pendio di rocce spigolose continuava.
Fortunatamente, dopo un breve tratto il camoscio decise di fermarsi a riposare all’ombra di uno spuntone di roccia che in parte ci nascondeva alla sua vista. Lentamente e cautamente ci avvicinammo fino a una distanza utile per un tiro non azzardato; scelto un masso sul quale posizionare la carabina, potei finalmente tentarlo.
L’animale ebbe un fremito, abbassò la testa e giacque esamine. Raggiunto l’Anschuss, avemmo conferma che si trattava di un animale con un corno spezzato. Non era il mitico unicorno dai poteri magici e dalle virtù terapeutiche di aristotelica memoria, ma era comunque un magnifico esemplare maturo della sua specie.
Compiuto il rito ancestrale e suggestivo con cui onorammo l’animale per la carne che ci aveva donato, lo sventrammo per eviscerarlo. Con grande sorpresa, nello stomaco rinvenimmo un grosso bezoar di forma ovoidale, cui in passato venivano attribuite virtù prodigiose; oggi, conservato con grande cura, fa bella mostra all’interno della mia biblioteca.
Poco più tardi, su un altro versante della montagna, anche mio figlio Antonio che cacciava insieme a me riuscii a portarsi a tiro di un bel maschio di camoscio; dopo un non facile recupero, contribuì ad arricchire il nostro già soddisfacente carniere. Il viaggio di ritorno tra borghi e dolci colline trapunte dai mille colori autunnali delle foglie ancora puntigliosamente attaccate ai tralci delle viti, aveva qualcosa di magico, quasi di mistico.
Le tonalità dell’affascinante tavolozza di colori dal rosso vermiglio al giallo oro dava la sensazione di ritrovarci in uno di quegli atelier di pittura en plein air che tanto affascinarono e ispirarono gli impressionisti.