Quaglie e beccacce di Calabria
Setter inglesi, quaglie e beccacce nei magnifici territori calabresi. ecco tutto quello che serve per poter praticare la caccia con il cane da ferma con tutti i crismi, trasformando questa pratica venatoria in una vera e propria arte
La magia della caccia con il setter inglese è il leitmotiv della mia vita. E ritengo una fortuna poterla praticare in una terra che amo profondamente, la mia Calabria, il mio paese, Nocera Terinese, situato al centro della costa tirrenica, incastonato tra il mare e la montagna. Un’ambita meta turistica e un territorio ricco di tradizioni marinare, agrosilvo-pastorali, enogastronomiche e folkloristiche. Quando si parla di Calabria e in particolare delle Serre Calabresi, dei monti Mancuso e Reventino, dei boschi e degli altopiani di montagna della Sila, tutti luoghi che sono stati la mia
culla cinovenatoria, mi brillano gli occhi e mi batte forte il cuore. Quando, con i miei setter inglesi, vado a caccia di quaglie o di beccacce in questi magici scenari provo una profonda sensazione di appartenenza e forti emozioni. Sì, emozioni, perché cacciare nei luoghi da cui nascono le mie radici, negli stessi posti dove sono nati e hanno vissuto i miei nonni, i miei bisnonni e tutti i miei avi, camminare sugli stessi sentieri che, quotidianamente, loro percorrevano per recarsi al lavoro nei campi o per portare gli animali al pascolo, mi riporta alla memoria i racconti di mio nonno. Emozioni perché cacciare in questi posti mi spinge verso un immenso amore per la montagna, per i boschi, per i pascoli, per gli animali e per la natura in generale. Mi porta a essere custode di quei valori etici che via via si stanno perdendo. Emozioni perché cacciare in terra di Calabria mi dà la possibilità riunirmi con la natura, rendendomi quasi parte di essa. E anche se a volte torno a casa con il carniere vuo
to, il mio cuore è pieno di gioia e la mia mente è sgombra dai mille pensieri della vita quotidiana, e sono contento di avere goduto del lavoro dei cani che, da solo, ripaga di qualsiasi fatica.
Ecco, questo è tutto quello che provo quando vado a caccia nel mio territorio con i miei setter. Sento forte la passione per la caccia che mi accompagna da sempre. Sono un autodidatta, nella mia famiglia nessuno dei miei avi era cacciatore. Fin da piccolo, però, ho sempre sentito un’incredibile passione per le armi e per i cani. Quando ero un ragazzino, infatti, mio padre aveva un bar, frequentato da parecchi cacciatori. Al ritorno dalla caccia in tanti si fermavano a prendere il caffè e mentre lo sorseggiavano lentamente dalla tazzina fumante, discorrevano tra loro e raccontavano le loro gesta e quelle dei loro ausiliari. Io li guardavo e li ascoltavo incantato. Sentendo quei racconti che per me erano poesia, immaginavo quando, da grande, sarei andato a caccia anch’io e fantasticavo sulle mie giornate, in montagna, con i miei cani.
Già, i miei cani, ma allora non sapevo ancora di che razza sarebbero stati. Quello è stato il periodo in cui si è acceso in me il fuoco ardente della passione per la caccia alla quaglia e alla beccaccia. Avevo intorno ai 12 anni quando vidi il primo setter inglese, al guinzaglio di uno di quei cacciatori che frequentavano
il bar. Rimasi estasiato e in quel momento decisi che il setter sarebbe stato il mio cane da caccia. Raggiunta la maggiore età, tanto ardeva quel fuoco che, oramai più di trent’anni fa, presi prima la licenza di caccia della patente. Gli amici di mio padre mi regalarono il fucile e il mio primo completo da cacciatore. Avevo tutto, tranne il cane. Mi misi alla ricerca del mio futuro ausiliare; volevo un setter inglese. Ne visionai tanti, ma nessuno riuscì a suscitare il mio interesse. Ero demoralizzato, ma a quel punto io e il mio amico Giovanni Mendicino, che poi è stato anche colui che mi ha dato i primi rudimenti cinovenatori, grazie all’intervento del nostro comune amico armiere Pino Perri ci rivolgemmo a un rinomato beccacciaio della zona esperto di setter, che aveva due cuccioloni disponibili. Una sera andammo a trovarlo e ci fece vedere i due soggetti di 11 mesi, due fratelli. Li sciolse, ma io avevo già scelto a prima vista. Mi aveva fulminato il tricolore con le orecchie nere, Aston. Era lui che volevo, lui doveva essere il mio futuro compagno di caccia, perciò misi mano ai miei risparmi e lo comprai. Dopo pochi giorni, giusto il tempo di farlo ambientare alla nuova situazione, iniziai ad addestralo.
E io, giovane e inesperto, imparavo con lui. Aston, con il passare del tempo, con l’esperienza e dopo tantissimi incontri, visto che all’epoca le quaglie e le beccacce di certo non mancavano, divenne il mio insostituibile compagno di caccia e di vita e un eccezionale beccacciaio, e io crebbi insieme a lui, come cacciatore di beccacce e anche come uomo. Ecco il motivo per cui, nel corso degli anni, mi sono innamorato sempre di più di questo stupendo fermatore. Aston e io abbiamo trascorso in simbiosi 12 meravigliosi anni di caccia e di vita, una fiaba emozionante. Fino a quando un maledetto giorno di Santo Stefano è mancato. È stato un momento emotivamente difficile e tuttora sento la sua mancanza. Fortunatamente, però, prima del suo declino lo avevo fatto accoppiare con la setter di Giovanni Mendicino, Bess, una bianco-arancio molto forte che poi acquistai. Di quella cucciolata fatta 28 anni fa tenni un maschio tricolore, Ares, che diventò poi l’erede del padre. Comprata Bess, avendo Ares e con il ricordo di Aston sempre nel cuore, decisi che da quel momento mi sarei messo a selezionare una mia linea di sangue. E così è stato.
nel nome della tradizione
Caccia alla quaglia selvatica con il cane da ferma. Una frase semplice, dal sapore antico, che rievoca ricordi di aperture estive in compagnia di amici veri, di giornate di caccia segnate dal caldo torrido di metà agosto e dalle prime piogge di settembre, di abbondanti carnieri, di emozioni cinovenatorie uniche che solo la quaglia selvatica può dare, di cacciatori romantici, di doppiette con i cani esterni, di cartucce in cartone, di cani cacciatori veri. Insomma, cose d’altri tempi. Tempi passati, in cui si era sì cacciatori, ma consapevoli che, ancora prima di esserlo, bisognava essere uomini umili, educati, corretti, rispettosi del territorio e delle persone che lì abitavano. Gente che aveva fatto della caccia, in particolare di quella con il cane da ferma, uno stile di vita. Gente che andava fiera
di essere chiamata cacciatore di quaglie, quagliaru in dialetto calabrese. Uomini dai quali noi giovani d’allora non potevamo fare altro che imparare e prendere esempio, sperando di diventare anche noi cacciatori-gentiluomini. Spero che questo amarcord possa essere di aiuto a fare riscoprire, soprattutto ai più giovani che si sono avvicinati da poco al mondo venatorio, una delle forme di caccia con il cane da ferma più classiche e affascinanti della tradizione venatoria italiana. Una caccia della quale, purtroppo, si parla sempre meno, come se fosse una caccia di serie b, senza un grande valore cinofilo e venatorio. La beccaccia va di moda, soprattutto tra i beccacciai da tastiera, la quaglia non più e la sua caccia ha perso immeritatamente prestigio. Penso invece che bisognerebbe restituirle il giusto valore, onorandola come si conviene a una delle cacce più importanti della nostra tradizione venatoria, riportandola, anche attraverso un’adeguata e corretta informazione da parte degli addetti ai lavori, agli antichi splendori e a essere considerata a pieno titolo, al pari della caccia alla beccaccia e alla coturnice, una caccia nobile, che offre grandi possibilità cinegetiche a cani e cacciatori. La caccia alla quaglia selvatica è strettamente legata ai paesaggi incontaminati delle nostre campagne, soprattutto a quelli dell’Italia meridionale, dove questa forma di attività venatoria era ed è più praticata rispetto al resto del Paese. Le rotte migratorie, infatti, attraversano il nostro Sud e sempre lì vi sono condizioni climatiche e ambientali particolarmente favorevoli alla permanenza sul territorio del piccolo galliforme. Vastissimi medicai di
pianura a breve distanza dal mare, stoppie di collina che si estendono a perdita d’occhio inframmezzate da campi di mais, sconfinati altopiani di montagna coltivati a cereali ed ettari di campi di patate distribuiti a macchia di leopardo offrono ancora oggi alla quaglia selvatica l’ambiente ideale dove trascorrere la primavera e l’estate e dove riprodursi prima della partenza autunnale. I colori tipici della macchia mediterranea, accesi dal sole splendente del Sud, completano il quadro e rendono ancora più emozionante e suggestivo il paesaggio dove si esercita questo tipo di caccia e dove la quaglia selvatica è ancora una stimolante realtà venatoria (ovviamente passo permettendo). Realtà venatoria che io, fin dalla mia prima licenza di caccia con il mio setter accanto, ho avuto la fortuna di vivere immerso negli stupendi scenari che la mia Calabria quasi un trentennio fa offriva e che tutt’oggi, anche se con meno frequenza ma con la stessa passione, continuo a vivere nei medesimi luoghi sempre accompagnato dai miei setter. Comunque sia, per tradizione venatoria, per mancanza di altro tipo di selvaggina, per le motivazioni cui ho già fatto cenno, la caccia alla quaglia selvatica nel periodo estivo-autunnale rimane la caccia per eccellenza delle regioni del Sud Italia. Ma, anche se quasi tutti la praticano, solo pochi la onorano e la valorizzano come si dovrebbe; è una caccia di grande rilevanza cinovenatoria e, almeno per quanto mi riguarda, un’ottima palestra per i cani giovani in attesa dell’arrivo della beccaccia. Quaglie selvatiche e beccacce sono ormai il simbolo della caccia delle regioni del Sud; anzi, mi permetto di affermare che, in generale, questi due selvatici sono diventati il simbolo dell’autenticità della caccia con il cane da ferma.
Quando arrivano le beccacce
La caccia alla beccaccia praticata in maniera tradizionale rievoca in me una caccia dal sapore antico, mi riporta alla solitudine del bosco in compagnia dei miei cani, alla selva, ad ambienti selvaggi e incontaminati, al bucolico suono del campano. Sì, proprio il campano, oggetto che, secondo me, identifica il cane da beccacce e il beccacciaio. Oggi, con l’evoluzione dei tempi, la tecnologia la fa da padrona nella caccia come nella vita di tutti i giorni; chi più, chi meno, tutti ne siamo stati travolti e ne facciamo uso nel nostro quotidiano e nel bosco. Per quanto mi riguarda, seppur con qualche piccola trasgressione (in alcune situazioni abbino il beeper in modalità “solo fermo” al campano), rimango un cacciatore romantico, innamorato delle antiche tradizioni beccacciaie. Sono sempre stato affascinato dai campani sardi con batacchio in osso o corno, strumento fondamentale per seguire e leggere il lavoro del cane in tutte le sue fasi quando, materialmente, non lo vediamo. Ne sono rimasto talmente ammaliato che fin da ragazzo, oltre a farne costantemente uso, li colleziono. Oggi ne ho più di cento, tutti forgiati e batacchiati a mano e tutti, a giro, usati a caccia di beccacce. Ogni campano mi ricorda un cane, un episodio di caccia, l’azione di un setter, un’uscita particolare. Ogni campano ha una sua storia e rievoca un’emozione, un sentimento. Già, perché la caccia alla beccaccia è amore puro per questo malioso scolopacide che porta a una percezione poetica di tutto ciò che fa parte del suo mondo. Ed è proprio per questa passionale magia che solo la beccaccia riesce a farmi provare che in 31 anni di caccia nel bosco non sono mai mancati al collo dei miei setter un collare in cuoio e un campano sardo.
la scelta del campano
Per chi, come me, è appassionato di caccia alla beccaccia, il suono melodico del campano è e sarà sempre una cosa ineguagliabile e insostituibile tanto che, oltre a farne oggetto di culto, immaginare una giornata a caccia di beccacce senza quel poetico batacchiare sarebbe impensabile. Pertanto, la scelta del campano diventa un momento quasi mistico. E per questa scelta, che reputo importantissima per godere appieno di una giornata di caccia, mi baso su tre aspetti fondamentali: estetica e dimensioni; tipo di suono relativamente alla vegetazione e alle condizioni climatiche in cui caccio; taglia e tipo di cerca del cane. L’aspetto estetico (la forma) è semplicemente una questione di gusti personali. A me piacciono tutti. La cosa importante però, per quanto riguarda le dimensioni, è che il campano sia rapportato alla taglia del cane, altrimenti potrebbe diventare un impedimento e un fastidio per il nostro compagno di caccia e non gli permetterebbe di espletare al meglio il suo compito. Ad esempio, per un cane di taglia media sono
più indicati i campani di forma tonda e quadra e non quelli di forma allungata e, comunque, tutti di dimensioni medie.
Il tipo di suono va scelto in base alla vegetazione in cui si caccia e alle condizioni climatiche della giornata. Se si caccia in una giornata uggiosa, caratterizzata da nebbia e pioggerellina, e nella vegetazione fitta e intricata, o in una giornata di metà ottobre-inizio novembre (anche se con condizioni climatiche ideali) in cui ancora parte delle foglie sono ancora sugli alberi e gli spineti e i roveti sono ancora abbastanza verdi e rigogliosi, è da preferire un campano dal suono acuto. Se, invece, la giornata di caccia è una tipica giornata invernale, soleggiata, fredda e senza pioggia, con alberi spogli e sottobosco ormai secco e aperto, oppure se si caccia in faggete e abetaie, è consigliabile un campano dal suono grave. In giornate ventose, entrambi i suoni possono andare bene, ma io preferisco l’acuto. Taglia e cerca del cane sono altri due fattori molto importati per la scelta del campano. Per gli inglesi di taglia grande e con cerca molto ampia (nel raggio di circa 250-300 metri che, salvo rare eccezioni, per me è più che sufficiente) è consigliabile utilizzare, in qualsiasi circostanza, un campano grande dal suono acuto. Di contro, per cani inglesi di taglia media e con cerca più contenuta sono più indicati campani di dimensioni medie e con entrambi i tipi di suono a seconda delle circostanze di vegetazione e di condizioni climatiche che cane e cacciatore si trovano ad affrontare. Se si caccia con i continentali la scelta è più semplice. L’aspetto estetico rimane soggettivo, le dimensioni si adeguano alla taglia e il suono si sceglie in base all’orecchio del beccacciaio e alla cerca del cane. Ad esempio, a uno spinone di taglia grande e dalla cerca non molto ampia ben si addice un campano grande, dalla forma allungata e dal suono grave. Se l’ausiliare invece è un breton, la cui taglia, in genere, è mediopiccola e la sua cerca è vivace ma, comunque, non molto ampia, il campano consigliato sarà di forma tonda o quadra, di dimensioni ridotte e dal suono che rispecchia la sua cerca brillante, quindi acuto. Ovviamente a questi esempi si aggiungono centinaia di variabili impossibili da prevedere.
il carniere non fa il bravo cacciatore
Questo modo di interpretare la caccia alla beccaccia è ovviamente una scelta personale. Ognuno, infatti, deve vivere questa passione divertendosi come meglio crede nei limiti imposti dalle norme.
Una cosa però affermo a gran voce: la bellezza della caccia e, in particolare, il valore del cacciatore non si misurano con il numero dei selvatici abbattuti. Un bravo cacciatore è colui che conosce a fondo, documentandosi e facendo molta esperienza, ambienti e selvatici oggetto di caccia, colui che entra in un bosco con rispetto e attenendosi alle regole e a quanto suggerisce l’etica venatoria. Così facendo, forse questa passione che accomuna tantissimi cacciatori potrebbe conservarsi molto più a lungo nel tempo. È, infatti, la cultura venatoria che distingue il cacciatore vero dallo sparatore.