Fiducia e testardaggine
Se il cacciatore è poco convinto di ciò che ha fatto o di ciò che ha visto, il recupero dell’ungulato ferito rischia di finire molto male
Sono molte le variabili che consentono di completare una traccia con successo, ma ce n’è una che conta più di tutte: la convinzione che il selvatico ferito possa davvero essere recuperato. E conta sia per il tracciatore sia per il cacciatore che chiede aiuto. Può accadere che una ricerca autonoma non porti a niente, che i cani non riescano a risolvere subito l’enigma. Ma un buon cacciatore di solito sa se ha colpito il bersaglio, perfino se non ci sono prove a sostegno. È questa certezza che lo spinge a chiedere un aiuto professionale; e naturalmente sarebbe meglio se lo facesse subito. D’altra parte se si fida del cacciatore, e gli crede quando gli descrive la reazione al colpo, il tracciatore non mollerà anche dopo chilometri senza un indizio. E poi c’è il cane: se gli è già accaduto di impiegare diverse ore per recuperare un selvatico ferito, non si lascerà scoraggiare dalle difficoltà e continuerà a cercare. Dunque a molti è richiesto di avere fiducia. Fiducia e testardaggine, forse il pregio principale.
Cervo #1
Era la prima stagione che il giovane Andrzej cacciava animali da trofeo, per i quali in Polonia bisogna attendere quantomeno tre anni e superare una serie di esami. Ed era il suo primo cervo. È facile immaginare l’eccitazione straordinaria che lo accompagnava. Mi telefonò per dirmi che la mattina presto aveva sparato a un cervo che attraversava la strada; nel reticolo aveva inquadrato la scapola. Il cervo si era ingobbito ed era scappato verso la foresta. Lo aveva cercato sia da sé sia con un cane della zona: niente. Non il cervo e nemmeno indizi: né sangue, né peli, né frammenti ossei. E dunque niente confermava che l’avesse ferito. Ma Andrzej era comunque convinto di averlo colpito. E per me non era solo speranza, o illusione, o pensiero magico: sapeva che cosa avesse visto e sentito al momento dello sparo. Era abbastanza per andare avanti. Cominciammo a muoverci in cerchio. Andrzej, suo cognato e il cane del villaggio avevano aggrovigliato la traccia; 150 metri fuori dal boschetto vidi comunque una macchia di sangue, grande come il tappo di una bottiglia. L’espressione sul volto di Andrzej raccontava tutto. Avevamo la conferma che aveva ragione fin dall’inizio. Anche se tutti lo avevano dissuaso, era valsa la pena di provare. Ma eravamo ancora lontani dal successo. Colpito allo stomaco, come si scoprì dopo, per evitare di essere inseguito il vecchio cervo aveva usato tutti i suoi trucchi: tracce sporche, giri a vuoto, rimbalzi. Era la traccia più complicata che avessi mai visto. Per di più, il cervo era fortissimo: non aveva perso molto sangue, aveva energie sufficienti per andare lontano e scappare quando sentiva che ci avvicinavamo. Seguimmo la traccia per sei chilometri, cinque dei quali con Docent libero. Alla fine di tutto scoprimmo che al momento del tiro il cervo aveva fatto un passo: invece della scapola, il proiettile aveva colpito lo stomaco. E, visto che non c’era foro d’uscita, di fatto non aveva perso sangue. A distanza di anni posso rendermi conto di quanto quest’esperienza sia stata decisiva per Andrzej. Mi ha chiamato spesso, e fortunatamente spesso è stato possibile recuperare il selvatico ferito. È diventato uno dei cacciatori che più credono nei cani da traccia. Talvolta la sua fiducia è stata più grande del mio miglior giudizio. In un certo senso Andrzej è diventato un apostolo della caccia etica.
Cervo #2
Erano circa le sei di mattina quando Marek aveva sparato a un cervo fermo nell’erba alta insieme ad alcune femmine. I cardi nascondevano la parte inferiore della silhouette: così aveva cercato di piazzare la palla nella scapola appena sopra la linea dell’erba. Dopo il colpo il cervo si era irrigidito e aveva cominciato a camminare verso gli ontani, la zampa sinistra immobile. La nebbia aveva reso impossibile un secondo colpo rapido; fu sparato tardi, subito prima che il cervo raggiungesse i primi alberi. In ogni caso l’impatto fece un rumore netto, così come netto era stato qualche istante prima. Cominciammo a lavorare sei ore dopo: dovetti guidare per 150 chilometri per raggiungere il distretto di caccia. Il ritardo si rivelò pesante: non per la freschezza della traccia, ma perché le nuvole si erano diradate e il sole si era
fatto prepotente. Era caldo. La situazione peggiore.
Né Marek né il fratello che lo accompagnava avevano trovato gocce di sangue: nessuna conferma del ferimento nel raggio di 150 metri. Solo il suono del proiettile e la reazione del cervo indicavano che i colpi erano andati a segno. Docent iniziò a lavorare vagando per un po’. Marek indicò l’Anschuss con una buona esattezza, ma c’era da identificare la traccia giusta tra le molte che il cervo aveva lasciato quella mattina. Dopo un po’ Docent si mosse verso gli ontani. Cercammo qualche goccia di sangue: inutile. La traccia ci portò tra pruni e rovi: ci fu da strisciare un bel po’. Poi Marek indicò una goccia di sangue su una foglia. Sembrava annacquata, aveva la consistenza di un uovo crudo: un punto rosso sospeso in un liquido trasparente. Intorno c’era così poco spazio che mi chiedevo se Docent non si fosse ferito al naso mentre passava tra le spine. Dopo un po’ uscimmo dalla macchia. C’era una recinzione che la separava da una strada sporca. Docent cominciò a girare in tondo, come a dirci che il cervo era passato di lì. Ma la rete era alta quanto una persona: difficile che, vista la descrizione della zampa, fosse riuscito a superarla. Cominciammo a costeggiarla, come doveva aver fatto lui. Avanzammo per qualche centinaio di metri: a un certo punto la rete si piegava verso il basso, ed era già stata rappezzata più volte. Di lì il cervo poteva esser passato senza problemi particolari. E infatti su uno dei nodi in cui i fili s’intrecciavano trovammo dei peli. Ma non voleva dire niente, o quasi:
potevano esser lì da settimane. Docent ci fece capire di andare dall’altra parte.
Sulla strada trovammo impronte fresche. Impronte di cervo. Finalmente una conferma, dopo tanto camminare e strisciare. Andammo avanti, poi svoltammo in un prato e in un campo di patate. Docent ansimava, si sentiva da lontano: quando è caldo è difficile respirare bene mentre si segue una traccia. Superammo un fosso, poi dell’ortica. Detti un’occhiata al mio cane, che la odia. E ha ragione, poveraccio: non è granché piacevole ritrovarsi d’un tratto col naso immerso tra foglie che bruciano. Poi lo vidi tuffarsi in una macchia, un’altra. E dopo due chilometri ebbi la mia prova: il cervo era ferito ed eravamo sulla traccia giusta. Non c’erano più dubbi.
Infilammo in un canneto, non nel campo di mais che c’era dall’altra parte. Capii il motivo non appena c’entrai: era umido, il suolo era fresco. Per un animale ferito era meglio, molto meglio del terreno secco di un campo coltivato. Improvvisamente ci si parò davanti un giaciglio, tre metri per due avvallati in mezzo all’erba alta e un forte odore di muschio. Era chiaro, qui c’era un cervo; o comunque c’era stato. Ma non c’era sangue. Poi sentii il suono di un tamburo; era come se qualcosa colpisse il terreno argilloso. Docent si voltò verso destra ed entrò nel fosso. Sentii nitido il rumore di un animale che scappava. Veniva da davanti.
Il cane cominciò a gemere. Mi stava implorando di sganciarlo, libero di inseguire. Anche se non riuscivo a vedere il cervo, acconsentii. E tutto cominciò davvero.
Per un po’ Docent rimase vicino, tra i venti e i quaranta metri. Poi disegnò un po’ di cerchi e si mosse rapidamente in avanti; non però verso il mais, il mio timore, ma dentro il bosco fitto. Si fermò dopo 200 metri. Sentimmo un abbaio ripetuto, costante. Uscimmo a corsa dal canneto. Vedemmo il cervo fronteggiare il cane, il palco magnifico luccicante nella luce di mezzogiorno.
Eravamo lontani un centinaio di metri. Non volevo avvicinarmi oltre: sapevo che altrimenti avrebbe dovuto esserci un altro inseguimento, o forse più. Mi appoggiai a un albero pianificando un tiro accurato. Il cervo crollò.
Arrivò tutto insieme: gioia, sollievo, ricompensa e consapevolezza della fatica. Controllammo le ferite. Il primo proiettile aveva colpito un po’ troppo alto e un po’ troppo indietro; il secondo aveva solo graffiato la pelle sotto la coda. Probabilmente era da qui che era caduto il sangue.
La lunga strada verso casa fu una buona occasione per analizzare gli eventi. Dopo sei anni mi ero trovato davanti una traccia che mi aveva imposto di affidarmi totalmente al cane, senza indizi evidenti di un ferimento. Avevo seguito Docent per due ore senza dubitare che sapesse che cosa stesse facendo. Il suo comportamento era un segnale sufficiente: stavamo seguendo un selvatico ferito. E la mia fiducia inscalfibile portò con sé la ricompensa. Non credo però che sarebbe andata così se Marek si fosse comportato diversamente: aveva capito quanto l’enigma fosse difficile, e allora non si era messo a pesticciare la traccia o a chiedere l’aiuto di un vicino. Aveva telefonato a un professionista.
Elementi in comune
Le due storie condividono alcuni elementi. Innanzitutto le prime parole della telefonata: «Łukasz, so che l’ho preso». Nessuno dei due cacciatori aveva avuto dubbi neppure per un momento, anche in assenza di indizi chiari sul terreno. E nessuno dei due aveva abbandonato la ricerca, anche se tanti avrebbero catalogato il tiro come «A vuoto, evidente» e sarebbero tornati a casa con la coscienza a posto. Fui quasi intimidito dalla testardaggine di Docent. La maggior parte delle volte devo semplicemente obbedirgli, seguirlo e dargli meno fastidio possibile. La testardaggine nella cerca è un tratto che si sviluppa negli anni, sia per il cane sia per il conduttore. Incoraggio i colleghi più giovani a non arrendersi: prima o poi la loro testardaggine sarà ricompensata. Altra caratteristica in comune tra le due storie: entrambi i cacciatori avevano sparato nella zona cardiopolmonare. Avevano sparato male, ma un colpo piazzato qui indebolisce notevolmente l’animale: e infatti Docent era riuscito ad arrivare in fondo.
C’è poi un aspetto ulteriore che mi preme sottolineare. Prendo appunti rigorosi su ogni uscita. E le statistiche mi mostrano che alla maggior parte dei selvatici feriti è stato sparato con carabine .308 Winchester o .30-06 Springfield. Certo, è pressoché ovvio visto che sono i calibri più diffusi tra i cacciatori europei. Conosco però tanti cacciatori che utilizzano i nove, 9,3x62 e il resto; e in proporzione sono molte meno le circostanze in cui sono chiamato a intervenire. Non voglio dire che il .30-06 Springfield sia un calibro cattivo; ma la convinzione che sia perfetto è estremamente illusoria. È un calibro medio, e dunque deve persuadere il cacciatore a essere ancora più diligente nello sparo. Robert Ruark intitolò uno dei suoi libri Use enough gun, La potenza che ci vuole. Condivido quest’approccio. Il rinculo eccessivo non può essere una scusa: un calcio ben regolato e il giusto allenamento in poligono risolvono il problema. Il cervo merita un approccio adeguato e un cacciatore impeccabile.