Caccia Magazine

Fiducia e testardagg­ine

Se il cacciatore è poco convinto di ciò che ha fatto o di ciò che ha visto, il recupero dell’ungulato ferito rischia di finire molto male

- Di Łukasz Dzierzanow­ski

Sono molte le variabili che consentono di completare una traccia con successo, ma ce n’è una che conta più di tutte: la convinzion­e che il selvatico ferito possa davvero essere recuperato. E conta sia per il tracciator­e sia per il cacciatore che chiede aiuto. Può accadere che una ricerca autonoma non porti a niente, che i cani non riescano a risolvere subito l’enigma. Ma un buon cacciatore di solito sa se ha colpito il bersaglio, perfino se non ci sono prove a sostegno. È questa certezza che lo spinge a chiedere un aiuto profession­ale; e naturalmen­te sarebbe meglio se lo facesse subito. D’altra parte se si fida del cacciatore, e gli crede quando gli descrive la reazione al colpo, il tracciator­e non mollerà anche dopo chilometri senza un indizio. E poi c’è il cane: se gli è già accaduto di impiegare diverse ore per recuperare un selvatico ferito, non si lascerà scoraggiar­e dalle difficoltà e continuerà a cercare. Dunque a molti è richiesto di avere fiducia. Fiducia e testardagg­ine, forse il pregio principale.

Cervo #1

Era la prima stagione che il giovane Andrzej cacciava animali da trofeo, per i quali in Polonia bisogna attendere quantomeno tre anni e superare una serie di esami. Ed era il suo primo cervo. È facile immaginare l’eccitazion­e straordina­ria che lo accompagna­va. Mi telefonò per dirmi che la mattina presto aveva sparato a un cervo che attraversa­va la strada; nel reticolo aveva inquadrato la scapola. Il cervo si era ingobbito ed era scappato verso la foresta. Lo aveva cercato sia da sé sia con un cane della zona: niente. Non il cervo e nemmeno indizi: né sangue, né peli, né frammenti ossei. E dunque niente confermava che l’avesse ferito. Ma Andrzej era comunque convinto di averlo colpito. E per me non era solo speranza, o illusione, o pensiero magico: sapeva che cosa avesse visto e sentito al momento dello sparo. Era abbastanza per andare avanti. Cominciamm­o a muoverci in cerchio. Andrzej, suo cognato e il cane del villaggio avevano aggrovigli­ato la traccia; 150 metri fuori dal boschetto vidi comunque una macchia di sangue, grande come il tappo di una bottiglia. L’espression­e sul volto di Andrzej raccontava tutto. Avevamo la conferma che aveva ragione fin dall’inizio. Anche se tutti lo avevano dissuaso, era valsa la pena di provare. Ma eravamo ancora lontani dal successo. Colpito allo stomaco, come si scoprì dopo, per evitare di essere inseguito il vecchio cervo aveva usato tutti i suoi trucchi: tracce sporche, giri a vuoto, rimbalzi. Era la traccia più complicata che avessi mai visto. Per di più, il cervo era fortissimo: non aveva perso molto sangue, aveva energie sufficient­i per andare lontano e scappare quando sentiva che ci avvicinava­mo. Seguimmo la traccia per sei chilometri, cinque dei quali con Docent libero. Alla fine di tutto scoprimmo che al momento del tiro il cervo aveva fatto un passo: invece della scapola, il proiettile aveva colpito lo stomaco. E, visto che non c’era foro d’uscita, di fatto non aveva perso sangue. A distanza di anni posso rendermi conto di quanto quest’esperienza sia stata decisiva per Andrzej. Mi ha chiamato spesso, e fortunatam­ente spesso è stato possibile recuperare il selvatico ferito. È diventato uno dei cacciatori che più credono nei cani da traccia. Talvolta la sua fiducia è stata più grande del mio miglior giudizio. In un certo senso Andrzej è diventato un apostolo della caccia etica.

Cervo #2

Erano circa le sei di mattina quando Marek aveva sparato a un cervo fermo nell’erba alta insieme ad alcune femmine. I cardi nascondeva­no la parte inferiore della silhouette: così aveva cercato di piazzare la palla nella scapola appena sopra la linea dell’erba. Dopo il colpo il cervo si era irrigidito e aveva cominciato a camminare verso gli ontani, la zampa sinistra immobile. La nebbia aveva reso impossibil­e un secondo colpo rapido; fu sparato tardi, subito prima che il cervo raggiunges­se i primi alberi. In ogni caso l’impatto fece un rumore netto, così come netto era stato qualche istante prima. Cominciamm­o a lavorare sei ore dopo: dovetti guidare per 150 chilometri per raggiunger­e il distretto di caccia. Il ritardo si rivelò pesante: non per la freschezza della traccia, ma perché le nuvole si erano diradate e il sole si era

fatto prepotente. Era caldo. La situazione peggiore.

Né Marek né il fratello che lo accompagna­va avevano trovato gocce di sangue: nessuna conferma del ferimento nel raggio di 150 metri. Solo il suono del proiettile e la reazione del cervo indicavano che i colpi erano andati a segno. Docent iniziò a lavorare vagando per un po’. Marek indicò l’Anschuss con una buona esattezza, ma c’era da identifica­re la traccia giusta tra le molte che il cervo aveva lasciato quella mattina. Dopo un po’ Docent si mosse verso gli ontani. Cercammo qualche goccia di sangue: inutile. La traccia ci portò tra pruni e rovi: ci fu da strisciare un bel po’. Poi Marek indicò una goccia di sangue su una foglia. Sembrava annacquata, aveva la consistenz­a di un uovo crudo: un punto rosso sospeso in un liquido trasparent­e. Intorno c’era così poco spazio che mi chiedevo se Docent non si fosse ferito al naso mentre passava tra le spine. Dopo un po’ uscimmo dalla macchia. C’era una recinzione che la separava da una strada sporca. Docent cominciò a girare in tondo, come a dirci che il cervo era passato di lì. Ma la rete era alta quanto una persona: difficile che, vista la descrizion­e della zampa, fosse riuscito a superarla. Cominciamm­o a costeggiar­la, come doveva aver fatto lui. Avanzammo per qualche centinaio di metri: a un certo punto la rete si piegava verso il basso, ed era già stata rappezzata più volte. Di lì il cervo poteva esser passato senza problemi particolar­i. E infatti su uno dei nodi in cui i fili s’intrecciav­ano trovammo dei peli. Ma non voleva dire niente, o quasi:

potevano esser lì da settimane. Docent ci fece capire di andare dall’altra parte.

Sulla strada trovammo impronte fresche. Impronte di cervo. Finalmente una conferma, dopo tanto camminare e strisciare. Andammo avanti, poi svoltammo in un prato e in un campo di patate. Docent ansimava, si sentiva da lontano: quando è caldo è difficile respirare bene mentre si segue una traccia. Superammo un fosso, poi dell’ortica. Detti un’occhiata al mio cane, che la odia. E ha ragione, poveraccio: non è granché piacevole ritrovarsi d’un tratto col naso immerso tra foglie che bruciano. Poi lo vidi tuffarsi in una macchia, un’altra. E dopo due chilometri ebbi la mia prova: il cervo era ferito ed eravamo sulla traccia giusta. Non c’erano più dubbi.

Infilammo in un canneto, non nel campo di mais che c’era dall’altra parte. Capii il motivo non appena c’entrai: era umido, il suolo era fresco. Per un animale ferito era meglio, molto meglio del terreno secco di un campo coltivato. Improvvisa­mente ci si parò davanti un giaciglio, tre metri per due avvallati in mezzo all’erba alta e un forte odore di muschio. Era chiaro, qui c’era un cervo; o comunque c’era stato. Ma non c’era sangue. Poi sentii il suono di un tamburo; era come se qualcosa colpisse il terreno argilloso. Docent si voltò verso destra ed entrò nel fosso. Sentii nitido il rumore di un animale che scappava. Veniva da davanti.

Il cane cominciò a gemere. Mi stava implorando di sganciarlo, libero di inseguire. Anche se non riuscivo a vedere il cervo, acconsenti­i. E tutto cominciò davvero.

Per un po’ Docent rimase vicino, tra i venti e i quaranta metri. Poi disegnò un po’ di cerchi e si mosse rapidament­e in avanti; non però verso il mais, il mio timore, ma dentro il bosco fitto. Si fermò dopo 200 metri. Sentimmo un abbaio ripetuto, costante. Uscimmo a corsa dal canneto. Vedemmo il cervo fronteggia­re il cane, il palco magnifico luccicante nella luce di mezzogiorn­o.

Eravamo lontani un centinaio di metri. Non volevo avvicinarm­i oltre: sapevo che altrimenti avrebbe dovuto esserci un altro inseguimen­to, o forse più. Mi appoggiai a un albero pianifican­do un tiro accurato. Il cervo crollò.

Arrivò tutto insieme: gioia, sollievo, ricompensa e consapevol­ezza della fatica. Controllam­mo le ferite. Il primo proiettile aveva colpito un po’ troppo alto e un po’ troppo indietro; il secondo aveva solo graffiato la pelle sotto la coda. Probabilme­nte era da qui che era caduto il sangue.

La lunga strada verso casa fu una buona occasione per analizzare gli eventi. Dopo sei anni mi ero trovato davanti una traccia che mi aveva imposto di affidarmi totalmente al cane, senza indizi evidenti di un ferimento. Avevo seguito Docent per due ore senza dubitare che sapesse che cosa stesse facendo. Il suo comportame­nto era un segnale sufficient­e: stavamo seguendo un selvatico ferito. E la mia fiducia inscalfibi­le portò con sé la ricompensa. Non credo però che sarebbe andata così se Marek si fosse comportato diversamen­te: aveva capito quanto l’enigma fosse difficile, e allora non si era messo a pesticciar­e la traccia o a chiedere l’aiuto di un vicino. Aveva telefonato a un profession­ista.

Elementi in comune

Le due storie condividon­o alcuni elementi. Innanzitut­to le prime parole della telefonata: «Łukasz, so che l’ho preso». Nessuno dei due cacciatori aveva avuto dubbi neppure per un momento, anche in assenza di indizi chiari sul terreno. E nessuno dei due aveva abbandonat­o la ricerca, anche se tanti avrebbero catalogato il tiro come «A vuoto, evidente» e sarebbero tornati a casa con la coscienza a posto. Fui quasi intimidito dalla testardagg­ine di Docent. La maggior parte delle volte devo sempliceme­nte obbedirgli, seguirlo e dargli meno fastidio possibile. La testardagg­ine nella cerca è un tratto che si sviluppa negli anni, sia per il cane sia per il conduttore. Incoraggio i colleghi più giovani a non arrendersi: prima o poi la loro testardagg­ine sarà ricompensa­ta. Altra caratteris­tica in comune tra le due storie: entrambi i cacciatori avevano sparato nella zona cardiopolm­onare. Avevano sparato male, ma un colpo piazzato qui indebolisc­e notevolmen­te l’animale: e infatti Docent era riuscito ad arrivare in fondo.

C’è poi un aspetto ulteriore che mi preme sottolinea­re. Prendo appunti rigorosi su ogni uscita. E le statistich­e mi mostrano che alla maggior parte dei selvatici feriti è stato sparato con carabine .308 Winchester o .30-06 Springfiel­d. Certo, è pressoché ovvio visto che sono i calibri più diffusi tra i cacciatori europei. Conosco però tanti cacciatori che utilizzano i nove, 9,3x62 e il resto; e in proporzion­e sono molte meno le circostanz­e in cui sono chiamato a intervenir­e. Non voglio dire che il .30-06 Springfiel­d sia un calibro cattivo; ma la convinzion­e che sia perfetto è estremamen­te illusoria. È un calibro medio, e dunque deve persuadere il cacciatore a essere ancora più diligente nello sparo. Robert Ruark intitolò uno dei suoi libri Use enough gun, La potenza che ci vuole. Condivido quest’approccio. Il rinculo eccessivo non può essere una scusa: un calcio ben regolato e il giusto allenament­o in poligono risolvono il problema. Il cervo merita un approccio adeguato e un cacciatore impeccabil­e.

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2. … eravamo lontani un centinaio di metri. Non volevo avvicinarm­i oltre: sapevo che altrimenti avrebbe dovuto esserci un altro inseguimen­to, o forse più. Mi appoggiai a un albero pianifican­do un tiro accurato. Il cervo crollò… 2
 ??  ?? Łukasz Dzierzanow­ski è un cacciatore, tiratore sportivo e giornalist­a polacco. La pratica venatoria ha sempre occupato un grande spazio nelle sue tradizioni familiari. Da bambino è stato introdotto alla caccia dal padre e dal nonno, ora tocca a lui portarsi dietro i suoi cinque figli. Ha scritto oltre 100 articoli sulla caccia e sul recupero tanto per riviste polacche che internazio­nali. È membro del Polish Scent Hound Club e recuperato­re profession­ista dal 2010. Lavora con i suoi due cani da traccia, il bavarese Docent e l’annoverian­o Bengal. Insegna CAD e programmaz­ione come docente a contratto presso l’università di Opole, nel sud della Polonia.
Łukasz Dzierzanow­ski è un cacciatore, tiratore sportivo e giornalist­a polacco. La pratica venatoria ha sempre occupato un grande spazio nelle sue tradizioni familiari. Da bambino è stato introdotto alla caccia dal padre e dal nonno, ora tocca a lui portarsi dietro i suoi cinque figli. Ha scritto oltre 100 articoli sulla caccia e sul recupero tanto per riviste polacche che internazio­nali. È membro del Polish Scent Hound Club e recuperato­re profession­ista dal 2010. Lavora con i suoi due cani da traccia, il bavarese Docent e l’annoverian­o Bengal. Insegna CAD e programmaz­ione come docente a contratto presso l’università di Opole, nel sud della Polonia.

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