Caccia Magazine

Il cappello ritrovato

- Di Emilio Petricci

La vita è piena di piccole cose che ci ricordano delle persone; alcune volte il destino ce le ripropone nei momenti più strani

Erano un paio di settimane che la caccia al capriolo maschio era aperta, ma purtroppo nel mio distretto ormai da diversi anni la specie era in seria difficoltà e in forte declino. Sembrava però che non interessas­se a nessuno. Infatti nessun organo preposto si stava occupando di scoprirne le cause; anzi, sembrava che andasse bene così, quasi come se avere delle belle popolazion­i di selvatici fosse un problema. Era dunque già passata una quindicina di giorni e a caccia non ero mai andato, vista la scarsità di caprioli. Tra l’altro anche la stagione precedente di uscite ne avevo fatte pochissime. E insomma: avevo una voglia matta di bosco. Anche se non avessi visto caprioli, era possibile che capitasse qualche bel cinghiale. Una volta deciso, mi prese la fretta. Perciò preparai l’attrezzatu­ra e la caricai in auto. Stavo salendo per partire quando mi ricordai che nello zaino avevo il cappello ad alta visibilità invernale; perciò tornai in casa per cercare quello leggero. Mentre frugavo tra le mie cose mi capitò tra le mani il cappellino di Seasons. Era un vecchio cappello di 20 anni fa molto scolorito che conservo per ricordo perché mi era stato regalato da Bruno Modugno. Non eravamo mai stati amici in senso stretto; ma ci conoscevam­o da tanto tempo, presentati dall’amico comune Franco Nobile. Tra noi c’era sempre stato un bel rapporto di grande stima. Era il 1984 quando con la sua troupe era arrivato nella mia val di Merse per documentar­e quello che definì un progetto folle per quei tempi: gestire le popolazion­i di ungulati che si stavano riprendend­o gli ambienti lasciati liberi dagli umani dopo lo spopolamen­to delle campagne durante il boom economico. In quell’occasione Franco mi chiese se potessi fare da guida indigena per i loro spostament­i nei boschi, se potessi aiutarli a raggiunger­e le varie località dove dovevano essere effettuate le riprese: lui non poteva assentarsi dal suo lavoro di chirurgo. Fu proprio così che oltre a conoscere Bruno Modugno sentii parlare per la prima volta di gestione della fauna e di caccia di selezione, che nel centro Italia fu sdoganata solo anni dopo. Quasi ogni sera, quando riaccompag­navo tutti alla locanda dove facevano base, Franco ci aspettava sempre accompagna­to da professori, biologi e altri personaggi di alto livello. Naturalmen­te anche io venivo invitato a partecipar­e a queste cene dove, oltre ai manicarett­i di Vestro, il piatto forte era “la capacità portante del territorio”.

In marcia

Poi, come sempre succede in questi casi, finito quel periodo la vita riprese con tutti negli impegni normali; e mentre io e Franco ogni tanto andavamo a caccia insieme, non vidi Bruno per molto tempo. Ma quando seppe che avevo iniziato a far sul serio con il mio arco catturando dei grossi e mitici verri, mi chiamò scoprendo così che era mia intenzione far qualcosa per far cambiare i regolament­i della caccia di selezione che ne vietavano l’uso. In quel periodo ci sentimmo spesso e così potei contare sui suoi preziosi consigli. Addirittur­a, per aiutarmi nel mio intento, inviò una troupe capitanata dal regista Giovanni Bruno per girare Storia di un arciere, che mi avrebbe visto protagonis­ta. Fu in quella occasione che mi regalò il famoso cappellino del canale dove sarebbe poi dovuto andare in onda il filmato. Eravamo nel 2000; e purtroppo, prima che il girato fosse pronto, l’editore chiuse il canale. Per ironia del destino quel lavoro andò in onda nel 2006 su Caccia e Pesca che Bruno aveva fatto nascere dalle ceneri di Seasons proprio nell’anno in cui riuscii a convincere la Provincia di Siena ad approvare il progetto per la caccia di selezione con l’arco. Oggi sia Franco Nobile sia Bruno Modugno non ci sono più; si immagina bene il motivo per cui conservo quel cappellino con tanta cura, anche se è tutto logoro e sbiadito. E si immagina altrettant­o bene il tuffo al cuore che provai quando per caso mi capitò tra le mani poco prima di partire per la caccia. Rimasi lì imbambolat­o mentre tanti ricordi di vita vissuta riaffiorav­ano nella mente. Poi, quasi d’istinto, lo indossai insieme a un gilet alta visibilità.

Arrivai al posteggio del mio appostamen­to che non erano ancora le 19. Teleprenot­ai l’uscita, presi lo zaino e l’arco e mi avviai per la stradella. Percorso il breve tratto di strada nel bosco, uscii allo scoperto in cima al lungo campo dove nel fondovalle avevo montato un seggiolino su un albero. Il caldo era ancora opprimente; e proprio mentre pensavo che con quella calura sino a buio era difficile che qualche animale si muovesse, venni subito smentito dai fatti. Con mia grande sorpresa vidi che molto vicino alla mia postazione c’erano tre grossi cinghiali che stavano pascolando. Mi accucciai nell’erba alta e, posato lo zaino, tirai fuori il binocolo per osservare gli animali. La distanza era troppa per poter riconoscer­e il sesso, ma dalla mole e dal loro comportame­nto sicuro stabilì che quasi certamente si trattava di maschi. Ottima cosa: di tirare a una femmina, con il rischio di lasciare in giro degli orfani molto piccoli, proprio non mi andava anche se era consentito.

Definii la strategia per poter arrivare alla postazione senza essere notato. Nel primo pomeriggio c’erano stati diversi temporali; e, anche se non avevano interessat­o direttamen­te

la mia zona di caccia, evidenteme­nte avevano mosso l’aria. Ora c’era un bel venticello. In quel momento tirava proprio nella mia direzione di marcia. Perciò tornai indietro e, compiendo un lungo giro intorno a una collinetta, mi portai dalla parte opposta del campo dove gli animali pascolavan­o tranquilli.

Per tutto il tragitto che durò più di un quarto d’ora non potevo vedere gli animali. Quando finalmente potei sbirciare tra il fogliame del prodone che mi separava dal campo, rimasi con il fiato sospeso per l’apprension­e. All’inizio non vidi nulla. E quando cominciavo a pensare che se ne fossero andati, una

macchia scura tra le foglie attirò la mia attenzione. Erano loro. Si erano spostati poco più in alto nel campo e ora erano praticamen­te sotto il mio capanno, a un centinaio di metri da dove mi trovavo. Mi avvicinai lentamente al bordo del campo e nascosto dall’erba li osservai bene. Uno era veramente grosso, con delle difese ben evidenti che non lasciavano dubbi sul suo sesso. Era di colore nero scuro anche con il pelame estivo. Gli altri due erano più piccoli e di pelame rossastro. Di loro non potei avere la certezza che fossero maschi; ma ero quasi sicuro che si trattasse di un grosso verro con i suoi scudieri. Il problema era riuscire ad arrivare a tiro senza che tre nasi e sei occhi e orecchie non mi notassero.

Una buona occasione

Il vento era ancora abbastanza sostenuto e costante; quindi almeno da quel lato ero a posto e non era cosa da poco. Questo mi dava un grosso vantaggio. Naturalmen­te di quel campo conoscevo ogni zolla; perciò decisi che avrei attraversa­to una ventina di metri di campo aperto confidando nella copertura dell’erba e poi, arrivato a uno strappo nella vegetazion­e, mi sarei infilato nel fossato del prodone che divide due campi. Se fossi riuscito ad arrivare vicino alla postazione, gli animali sarebbero stati a tiro; ma avrei dovuto trovare una finestra tra la vegetazion­e, perché a usare la scaletta per salire sull’albero non c’era nemmeno da provarci. Misi il binocolo a tracolla, lasciai lo zaino in terra e preso l’arco mi mossi a gattoni nell’erba senza mai perdere di vista i tre grossi cinghiali. In un primo momento pensai di accendere subito la telecamera Tactca che avevo fissato sull’arco mediante il suo supporto, avvitato al posto dello stabilizza­tore; però, pensando che avrei impiegato un bel po’ di tempo prima di avvicinarm­i ai cinghiali, rinunciai per non consumare inutilment­e la batteria. Mi proposi di accenderla quando fossi stato più vicino. Era da tanto che volevo documentar­e con un video un animale cacciato con una freccia, per dimostrare che se colpito correttame­nte fa quattro salti e poi cade come quando viene preso da una palla. Poteva essere una buona occasione per filmare tutta la scena, i cinghiali erano in campo aperto. Arrivai al fossato con il cuore in gola. Un paio di volte mi ero dovuto immobilizz­are perché qualcuno dei componenti del gruppo guardava fisso nella mia direzione. L’esperienza mi era stata molto utile: non caddi mai nel tranello di sentirmi scoperto soltanto perché un paio di occhi guardavano verso di me. Rimasi sempliceme­nte fermo in attesa che il guardiano di turno riabbassas­se il capo,

cosciente del fatto che se si fosse davvero accorto della mia presenza sarebbe già scappato. In passato tante volte nella stessa situazione avevo pensato di aver provocato un allarme e, muovendomi per tentare il tutto per tutto, lo avevo fatto scattare davvero.

Il piccolo fosso dove avevo costruito la mia altana era un canale di regimazion­e delle acque posto tra due lunghi campi. Sui bordi era pieno di rovi e di piccoli cespugli intervalla­ti da grossi alberi di pioppo e di vetrici che creano una barriera verde vicino alla quale i selvatici amavano pascolare perché probabilme­nte si sentivano più protetti. L’interno del fosso era tenuto abbastanza sgombro dall’acqua che durante le grosse piogge invernali porta via tutto quello che trova nel suo percorso. L’unico problema che trovai a camminare carponi lì dentro era che ogni tanto dovevo usare il pugnale da caccia per tagliare qualche rovo che, impigliand­osi negli abiti, oltre a bucarmi poteva far muovere il macchione rivelando che lì dentro c’era qualcosa che si muoveva. Di rumori non ne provocavo perché il fondo umido li attutiva e le pareti di terra sono un’ottima barriera antirumore. A parte i piccoli intoppi del taglio dei rovi nel fosso mi muovevo abbastanza spedito, anche perché dal primo avvistamen­to erano passati ormai tre quarti d’ora e avevo paura che dopo avere pascolato a sufficienz­a i cinghiali decidesser­o di rientrare nel bosco.

Quei due bricconi in mente

Quando giunsi al primo varco della vegetazion­e mi immobilizz­ai e alzai lentamente il capo. Gli animali erano vicini ma coperti da arbusti. Mentre riprendevo fiato rimasi un poco a osservarli. Erano tre maschi. Uno, il nero, superava di sicuro il quintale; gli altri due erano di poco al di sotto, pur essendo sicurament­e animali giovani anche se già adulti. Stavano abbuffando­si di foglie e radici di farfaro. Molte volte in primavera ho visto selvatici cibarsi di questa pianta. Probabilme­nte la gradiscono perché, oltre a essere un cibo fresco, ha proprietà antinfiam

matorie e antibatter­iche. Mi tornò subito in mente mia nonna Rosa che spesso mi chiedeva di portarle le foglie di quella pianta per farne infusi. Ringraziai il cielo che quel campo di fondovalle fosse abbastanza umido e ogni anno producesse in abbondanza quelle belle foglie verde smeraldo sopra e bianche e lanuginose sotto. Poi quasi al rallentato­re mi spostai ancora in avanti per raggiunger­e un trattoio da dove avrei avuto la visuale libera. Trattenend­o il fiato, percorsi ancora tre o quattro metri; poi alzai solo gli occhi. Erano sempre tranquilli a mangiare. Quello cui avrei voluto tirare, il grosso nero, era il più vicino. Poco più di una decina di metri, calcolai a occhio. Però mi dava le spalle. Uno degli altri due era poco più in là. Era leggerment­e di tre quarti in allontanam­ento: il tiro migliore che un arciere possa sperare. L’ultimo era il più lontano e rimaneva coperto da alcuni rami. Decisi in automatico che il secondo sarebbe stato mio nell’attimo in cui iniziai la trazione della corda dell’arco. Ormai ho imparato che quando si arriva a pochi metri da tre bestie in quel modo non ci si può permettere di sfidare oltre la fortuna e si deve agire in fretta. Ebbi pochi istanti per misurare la distanza con il telemetro incorporat­o nel mio mirino Garmin. Dopo che il display mi confermò che il cinghiale era a 14 metri, puntai il pin alla fine del costato. Poi tirai. Un solo grugnito, poi il fuggi fuggi generale. Pochi istanti: mentre gli altri due guadagnava­no la sicurezza del bosco, il mio crollò a terra e rimase immobile. «Perfetto» pensai gioendo.

E solo allora mi ricordai che la mia bella telecameri­na da 4k era ancora spenta. Uscii nel campo maledicend­omi per la dimentican­za; mentre mi avvicinavo al grosso animale riverso a terra mi tolsi il cappello per asciugarmi il sudore ritrovando­mi in mano il cappellino di Seasons. Mi venne quasi naturale alzare gli occhi al cielo pensando a quei due cari bricconi che da lassù avevano visto di sicuro la mia sbadataggi­ne e chissà come se la ridevano. Poi però li immaginai anche contenti per il mio successo. E quasi come li avessi lì davanti vidi Franco che euforico gridava «Viva Maria»; abbracciav­a Bruno che con il suo perenne sorriso gioviale stampato sulla faccia alzava il calice al cielo e diceva «alla faccia di chi ci vuole male».

Cacciatore con fucile dal 1974, sin da quando aveva sedici anni, Emilio Petricci è autore del progetto per la caccia di selezione con l’arco approvato nel 2006 dalla Provincia di Siena. Ha praticato un po’ tutte le cacce, dalla lepre coi segugi al fagiano e alla beccaccia con cane da ferma. Per parecchio tempo si è dedicato anche alla braccata al cinghiale. Cacciatore e pescatore con l’arco dal 1987, collabora con le riviste del gruppo Editoriale C&C, da più di dieci anni.

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Poi tirai. Un solo grugnito, poi il fuggi fuggi generale. Pochi istanti: mentre gli altri due cinghiali guadagnava­no la sicurezza del bosco, il mio crollò a terra e rimase immobile…
1 1. … ebbi pochi istanti per misurare la distanza con il telemetro incorporat­o nel mio mirino Garmin. Dopo che il display mi confermò che il cinghiale era a 14 metri, puntai il pin alla fine del costato. Poi tirai. Un solo grugnito, poi il fuggi fuggi generale. Pochi istanti: mentre gli altri due cinghiali guadagnava­no la sicurezza del bosco, il mio crollò a terra e rimase immobile…
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3 3. … era già passata una quindicina di giorni e a caccia non ero mai andato, vista la scarsità di caprioli. Tra l’altro anche la stagione precedente di uscite ne avevo fatte pochissime. E insomma: avevo una voglia matta di bosco. Anche se non avessi visto caprioli, era possibile che capitasse qualche bel cinghiale…
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2 2. … in un primo momento pensai di accendere subito la telecamera Tactca che avevo fissato sull’arco mediante il suo supporto, avvitato al posto dello stabilizza­tore; però, pensando che avrei impiegato un bel po’ di tempo prima di avvicinarm­i ai cinghiali, rinunciai per non consumare inutilment­e la batteria…
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