Come e quando il fucile da caccia divenne popolare
Sviluppo economico, incremento dei cacciatori e aumento della produzione di fucili da caccia sono andati di pari passo. oggi, all’inverso, il recente declino economico del Paese e la progressiva espansione di una cultura anticaccia sono i fattori che maggiormente contribuiscono a rallentare il settore
La scorsa estate, per l’esattezza a luglio, si è svolta nella stupenda città medioevale di Cortona, in provincia di Arezzo, la terza edizione dell’Esposizione armi antiche, artistiche e rare ad uso venatorio. Mostra di accessori per la caccia, illustrazioni faunistiche. Organizzatore di questo evento di grande interesse e valore culturale il locale Club della doppietta a cani esterni, un’associazione che si prefigge meritoriamente di promuovere una cultura venatoria in sintonia con la conservazione dell’ambiente e della fauna selvatica, e di raccogliere e custodire con passione e competenza ogni sorta di reperto capace di documentare la storia della caccia. Ed è proprio durante la visita di questa mostra che, conversando con il suo maggiore espositore, Cosimo Azzinnari, collezionista, esperto di armi, perito capo della polizia di Stato in pensione, è sorta la curiosità su quando e come il fucile da caccia, da bene alla portata di pochi privilegiati, abbia incominciato ad avere caratteristiche e costi tali da renderlo accessibile a una quota crescente di popolazione. In altre parole, da quando la caccia da attività prettamente aristocratica, o al massimo alto borghese, ha iniziato ad assumere
i contorni di fenomeno popolare. La prima arma da caccia, l’archibugio del Seicento, un’opera di raffinatissimo artigianato, ha un costo proibitivo, tale da renderla appannaggio dei soli aristocratici. Anche nel Settecento la caccia resta un’attività esclusiva dell’aristocrazia, non solo a causa del permanente elevatissimo costo delle armi da caccia, ma anche in quanto l’aristocrazia è l’unica classe sociale alla quale la legge riconosce il diritto di esercitare questa pratica. È la rivoluzione francese a dare la prima scossa e consentire la caccia anche ai borghesi benestanti, nel frattempo divenuti anch’essi proprietari terrieri. Tuttavia, significativamente, alla fine del Settecento, nella Toscana granducale, primo Stato italiano a dotarsi di una moderna legge sulla caccia e a rendere libera l’attività venatoria, una norma prevede l’assenso scritto del padrone per l’ottenimento della licenza di porto d’armi da parte di mezzadri, salariati fissi e loro garzoni; assenso che deve, per giunta, essere redatto dal notaio. Nonostante, però, i notevoli progressi tecnologici avvenuti nell’Ottocento, con il passaggio dal fucile ad avancarica al quello a retrocarica e con l’adozione della cartuccia a percussione centrale, non vengono conseguite riduzioni del costo del fucile da caccia talmente significative da consentirne l’acquisto da parte dei settori sociali meno abbienti.
una prima svolta
Grazie al prezioso materiale messomi a disposizione da Cosimo Azzinnari e da Marco Sebastiano Scipioni, appassionato studioso, estimatore, collezionista e esperto di armi della più alta classe, nonché collaboratore della rivista Armi Magazine, ho provato a ricostruire la storia di come e quando il fucile da caccia è divenuto popolare.
Una prima parziale svolta verso un fucile economico avviene in concomitanza con la dismissione da parte dell’esercito italiano del moschetto Vetterli Mod. 1870, avvenuta nel 1892 in seguito all’adozione del fucile Carcano Mod. 1891, un fucile rimasto in dotazione alle forze armate italiane addirittura fino al 1959. Progettato dall’ingegnere svizzero Johann Friedrich Vetterli, adottato dal regio esercito italiano nel 1871, modificato nel 1887 dal capitano di artiglieria Giuseppe Vitali, il 1870-87 Vetterli-Vitali, una volta dismesso, fu infatti riadattato
a fucile da caccia. Nel catalogo Beretta del 1915 si legge, infatti, testualmente: «Trasformazione brevettata del fucile da guerra italiano 1870-87 Vetterli-Vitali. Coll’aiuto di speciale macchinario e di ottima maestranza i fucili Vetterli si trasformano in fucili da caccia di ottimo tiro, accuratamente lavorati, di facile maneggio, di grande solidità e nel medesimo tempo assai leggeri, pesando circa da kg 2,500 a 2,700. Il fucile Vetterli trasformato per caccia, lunghezza totale circa metri 1,24, calibri 20, 24, 28, 32. Costo lire 26,25». Un costo senz’altro più contenuto rispetto agli altri modelli monocanna prodotti dalla storica casa di Gardone Val Trompia, che all’epoca variavano tra un minimo di 44 e un massimo di 80 lire.
Negli anni Venti la Beretta continua a trasformare i moschetti di guerra in fucili da caccia, sennonché, nel frattempo, la lira è stata svalutata e il costo di questo tipo
di fucile è lievitato a 130-135 lire: un costo che rimane comunque assai economico, considerato che negli anni Venti un fucile monocanna a cane interno arriva a costare 265-330 lire. La trasformazione dei fucili di guerra in fucili da caccia prosegue anche negli anni Trenta visto che, ad esempio, i fucili così adattati vengono offerti dalla Gardoncini, fabbrica anch’essa di Gardone Val Trompia, a prezzi compresi tra le 90 e le 135 lire; prezzi comunque contenuti se confrontati con le 210 lire di un monocanna prodotto dalla medesima azienda o le oltre 300 lire di una doppietta. La Beretta, in occasione del suo 250° anniversario (1680-1930), produce doppiette che vanno dalle 480 lire alle 720 lire. Nel 1935, i cataloghi Bernardelli e Franchi presentano doppiette a cani esterni con prezzi che sono rimasti sostanzialmente stabili, potendo oscillare tra le 336 e le 750 lire nel caso della Bernardelli e tra le 680 e le 850 lire nel caso della Franchi.
Con tutto ciò, nonostante questi costi non proprio alla portata di tutti, nel 1935, su una popolazione complessiva di circa 42 milioni, i cacciatori sono già 310.000; un numero che non può certamente essere stato composto solo da nobili e borghesi agiati. Di conseguenza, è presumibile che la caccia abbia incominciato a coinvolgere strati crescenti di popolazione.
L'evolversi della produzione dei fucili da caccia
Dai dati del Banco nazionale di prova per le armi da fuoco portatili e per le munizioni commerciali, ente pubblico istituito nel 1910, ma di fatto entrato in funzione nel 1920, con sede a Gardone Val Trompia, che svolge
il compito di controllare tecnicamente la rispondenza delle armi e delle munizioni alle norme tecniche e di legge e che può essere considerato con buona ragione una sorta di anagrafe di tutte le armi prodotte in Italia, possiamo renderci conto dell’evolversi della produzione dei fucili da caccia. Ebbene, i dati del Banco mostrano come, a partire dal 1920, anno di inizio dell’attività di collaudo, la produzione sia cresciuta rapidamente fino al 1925, anno in cui, tra doppiette e monocanna, vengono complessivamente prodotti 53.050 fucili da caccia. Tuttavia, a partire dal 1925 e fino al termine della seconda guerra
mondiale (1945) la produzione diminuisce costantemente fino a toccare il minimo di 1.498 fucili nel 1944, in corrispondenza con l’occupazione tedesca dell’Italia settentrionale. Ma già a partire dal 1946, con il ritorno della pace, la produzione di fucili da caccia subisce un’impennata che la riporta subito ai livelli toccati alla metà degli anni Venti e nel 1949, con 63.202 pezzi, raggiunge addirittura un nuovo record. Nel 1954 vengono superati i 100.000 fucili prodotti (103.139 per l’esattezza) e da questo anno in poi la produzione di fucili da caccia aumenta vertiginosamente per tutti gli anni Sessanta e Settanta, fino a superare i 450.000 pezzi (466.438) nel 1977. Il costo del fucile da caccia, tra la metà degli anni Quaranta e la fine degli anni Settanta, pur tenendo presente la svalutazione postbellica della lira, diviene alla portata di un numero crescente di cittadini. Sono gli anni del cosiddetto boom economico, durante i quali l’Italia da Paese agricolo diviene industriale, con tutto quello che ne consegue in termini di aumento del reddito medio.
Così, da un catalogo della Beretta del 1954 possiamo ricavare come il prezzo di una doppietta a cani esterni sia compreso tra un minimo di 33.000 a un massimo di 57.000 lire, mentre il costo di una doppietta a cani interni va dalle 40.000 alle 206.000 lire. Dieci anni dopo, nel 1964, sempre la Beretta presenta doppiette a cani interni che hanno un costo compreso tra le 80.000 e le 100.000 lire. Ma a causa dell’inflazione indotta dal cosiddetto choc petrolifero, il costo di una doppietta a cani interni Beretta, nel 1974, arriva a oscillare tra le 235.000 e le 290.000 lire.
Più fucili, più cacciatori
L’andamento della curva della produzione di fucili da caccia riflette, sia pure in misura attenuata, dal momento che i fucili possono essere facilmente conservati, ereditati, passati di mano, il progressivo aumento dei cacciatori. Non è dunque un caso che la produzione dei fucili da caccia raggiunga il suo massimo nel 1977, proprio in corrispondenza con il record storico raggiunto dal numero dei cacciatori nel 1978 (un milione e novecentomila). Dopo il 1977, sebbene la produzione presenti un declino nella seconda metà degli anni Ottanta e un recupero nei successivi anni Novanta e nei primi anni Duemila (nel 2003 viene raggiunto il record storico di 468.212 fucili da caccia prodotti), si registra una tendenza alla diminuzione, in sintonia con la progressiva riduzione del numero dei cacciatori (701.000 nel 2010). In conclusione, sviluppo economico, incremento dei cacciatori e aumento della produzione di fucili da caccia sono andati di pari passo e altrettanto, sia pure in termini opposti, è avvenuto con il recente declino del Paese e la progressiva espansione di una cultura anticaccia.