L'ennesima battaglia
La peste suina africana è arrivata in Italia. Tra sospensione di ogni attività nella zona infetta e rischi per gli allevamenti di maiali, i cacciatori dovranno avere un ruolo fondamentale per contenere la diffusione del contagio
Sembra un déjà-vu assurdo o il finale di un filmaccio, di quelli che restano aperti così da imboccare già la strada per il sequel: il caso zero, il virus in Italia, la zona rossa, le restrizioni pesanti in una zona circoscritta (di nuovo il Nord!) per tentare di contenere il contagio. A inizio gennaio la peste suina africana è arrivata in Italia, focolai tra Liguria e Piemonte; e, da due anni immersi in un dramma che ha disarticolato le nostre vite, rischiamo di presentarci malmessi alla nuova battaglia. Cui però nessuno può sottrarsi: rischia di rimanerci stritolato un settore cruciale per la tenuta dell’economia italiana. Perché la peste suina africana, al momento (e auspicabilmente in eterno) confinata fuori dagli allevamenti, coglie sia i cinghiali sia i maiali; e dunque l’imperativo è ovvio, circoscriverne la diffusione quanto più possibile. Rispetto a quella contro il maledetto pallino cinese, la battaglia contro il virus della peste suina africana ci vede schierati su una doppia altura: l’uomo non si contagia; e di fatto non si registra infezione asintomatica (anzi: una volta contagiato, l’animale muore in meno di una settimana). Chiamata al fronte prima dell’Italia, l’Europa centrale e orientale ha combattuto con armi differenziate; ma solo una si può dire che abbia davvero funzionato. «Soltanto Repubblica Ceca e Belgio sono riusciti a contenere l’onda epidemica» spiega Vittorio Guberti, ricercatore Ispra e componente dell’unità di crisi sulla peste suina africana. Ed entrambi lo hanno fatto «con una recinzione». Prima di tirarla su bisogna però delimitarne il perimetro: «Innanzitutto dobbiamo capire dove il virus si sia diffuso: lo scopriamo quasi sempre per caso, visto che la nostra capacità di sorveglianza è molto bassa. Quando troviamo un cinghiale positivo, sappiamo che ne sono stati già infettati almeno una decina; e l’onda epidemica si propaga rapidamente nel territorio». Ancora una volta la geografia dell’Italia gioca contro: sulla dorsale appenninica l’areale di distribuzione del cinghiale è continuo. Oltre che a non far uscire chi è dentro, la recinzione servirebbe a non far entrare chi è fuori. «A terra il virus resiste a lungo; chi frequenta le foreste contaminate ha un’altissima probabilità di diffonderlo ed estendere la zona infetta». Ecco perché tra Liguria e Piemonte nei 114 comuni collocati in zona rossa oltre alla caccia il governo ha vietato anche la raccolta
dei funghi e dei tartufi, la pesca, il trekking e l’utilizzo delle mountain bike: se la caccia, soprattutto quella con i cani, può spingere i cinghiali a spostarsi e dunque espandere l’areale infetto, ogni persona che entra nel bosco - le sue scarpe, le ruote dei mezzi con cui si sposta, l’attrezzatura - rischia di essere veicolo del virus in zone non contigue. Ecco perché si torna lì, alla recinzione. «Per un Paese come l’Italia i costi sono affrontabili; e se la si inserisce in un credibile piano d’eradicazione, la Commissione europea può cofinanziarla». È però necessario attivarsi alla svelta, «novanta giorni dalla scoperta dell’infezione»; e dunque non si può andare oltre il 7 aprile. Guberti è consapevole della difficoltà di recintare un’area estesa, «ma ci dobbiamo provare e riuscire; altrimenti ci giochiamo 50.000 addetti alla lavorazione del prosciutto di Parma». Bisogna però rivoluzionare la strategia con cui due anni fa il Paese affrontò le prime settimane della pandemia: perché l’infezione resti circoscritta in una zona ben definita, «le cinque regioni in qualche modo coinvolte - Liguria, Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana - e i ministeri di Salute, Agricoltura e Transizione ecologica devono coordinarsi su ogni passaggio. Il covid-19 ci è sfuggito di mano perché non avevamo il manuale dell’emergenza; ecco, sulla peste suina africana ce l’abbiamo. Sarà il caso di seguirlo». Le linee guida per la gestione della malattia prevedono misure differenti per la zona infetta e le zone limitrofe; prima però bisogna affinarne il perimetro; e poi «sparare tanto nella zona non infetta, l’80% di abbattimenti in più rispetto all’anno precedente». Nella zona infetta invece andare a caccia non ha senso, per tanti motivi. «Primo: quando c’è una malattia, la gestione della specie è esclusivamente gestione della malattia. Secondo: la peste suina africana uccide più dei cacciatori; nelle zone colpite l’80% dei cinghiali morirà nel giro di un anno, soprattutto tra maggio e luglio quando i piccoli cominciano a muoversi. Terzo: alcuni Paesi, come la Lettonia e l’Estonia, hanno provato a tenere la caccia aperta in zona rossa. Ecco, le procedure necessarie - controllo del veterinario a ogni prelievo; obbligo di non toccare la carcassa in attesa del risultato; in caso di positività al virus, obbligo di distruggere le carcasse di tutti i cinghiali abbattuti nello stesso periodo, di chiudere la casa di caccia e di non riaprirla fino alla fine della disinfezione; divieto di girare con più di un mezzo, da disinfettare ogni volta insieme agli scarponi - ren
dono il suo esercizio di fatto impossibile, tanto più se si considera che comunque è diretto al 20% della popolazione originaria. Quarto: non si pensi che la caccia possa essere utile a eradicare la malattia. La densità cui il virus scompare è di 0,10,2 cinghiali per chilometro quadrato, valore irraggiungibile se non con uno sforzo immane; ma non si può chiedere a un cacciatore di dedicare al prelievo dei cinghiali tutte le notti di quattro-cinque mesi. C’è bisogno di un intervento professionale, come in Repubblica Ceca e in Belgio: l’eradicazione della malattia coincide infatti con la sostanziale eradicazione del cinghiale da quella zona». I cacciatori possono fare molto altro, dalla cosiddetta sorveglianza passiva alla raccolta dei dati sugli abbattimenti negli anni precedenti: è utile sapere quanti cinghiali siano stati abbattuti, quante femmine, quante femmine con piccoli. «Più informazioni abbiamo e meglio funziona la gestione del cinghiale, che nell’area infetta è gestione della malattia».
Un vaccino in tempi brevi è poco meno che un sogno: «Se va tutto bene ci vorranno tre anni, e comunque sono dieci anni che tutti gli anni si sente dire che lo avremo fra tre massimo cinque anni. Ma un vaccino non è disponibile, non si sa se e quando i laboratori saranno in grado di crearlo». Quelli finora sperimentati hanno fatto sempre ammalare - almeno un po’ - gli animali; non sono registrabili, e quindi non somministrabili. Una volta eventualmente ottenuto un vaccino registrabile, saranno necessarie delle modifiche che lo rendano efficace per via orale; poi dovrà essere industrializzato, ossia prodotto in un numero di dosi adeguato; e per ottimizzarne la distribuzione nelle popolazioni infette e in quelle confinanti bisognerà conoscerne a fondo le caratteristiche, dalla durata degli anticorpi al range di temperature che non lo inattivano. A differenza che col covid-19, la strada non è
dunque questa. C’è però un’altra analogia, l’obbligo per la politica di definire chiaramente gli obiettivi. «Se la politica decide che dobbiamo convivere con la peste suina africana, i tecnici renderanno possibile la convivenza; se la politica decide che in Appennino la peste suina africana non deve esserci, i tecnici faranno di tutto per eradicarla». La decisione deve però arrivare alla svelta: «Più stiamo fermi, più l’infezione corre e più l’area infetta si estende».
Definire bene l'area
Tra i mille dubbi sgomita una certezza: il virus è arrivato in Italia su due gambe, «non per contiguità con una popolazione di cinghiali infetti che sono troppo distanti» spiega Francesco Feliziani, responsabile del Centro di referenza nazionale per la peste suina africana all’interno dell’Istituto zooprofilattico sperimentale dell’Umbria e delle Marche. «I più vicini focolai dell’Europa orientale si trovano nei Balcani: stavamo pertanto rafforzando le misure di sorveglianza in Friuli Venezia Giulia. Il virus ci ha sorpreso con uno di quei salti che aveva compiuto anche in Belgio, materializzandosi a estrema distanza dal fronte endemico. Ci sono diverse ipotesi sulla traiettoria del contagio: il porto di Genova, centro di scambi, può aver avuto un ruolo».
Ora che la peste suina africana è entrata in Italia bisogna capire come adattare il modello vincente che in Belgio e in Repubblica Ceca ha consentito di frenarne la diffusione. La recinzione è praticabile? Feliziani non si sbilancia, ma segnala le differenze del contesto italiano: «Anche nella più ottimistica delle previsioni, dobbiamo innanzitutto confrontarci con un’area più ampia rispetto a Belgio e Repubblica Ceca. E poi soprattutto in Belgio hanno pesato positivamente alcuni fattori ambientali, come la presenza di grandi autostrade, che potevano facilitare la recinzione dell’area infetta; in quella porzione di Nord-Ovest italiano le autostrade sono presenti, ma purtroppo caratterizzate da gallerie e viadotti che non offrono una barriera efficace; e, si esclude il mare sulla parte ligure, non esistono altre barriere naturali consistenti».
Su un aspetto tutti i tecnici concordano: prima di pensare a come non far uscire il virus dalla zona infetta, bisogna capire fin dove sia già arrivato. «L’area che il governo ha momentaneamente delimitato è transitoria, prudentemente ampia intorno ai focolai riscontrati; con la sorveglianza passiva, ossia la ricerca delle carcasse infette, dobbiamo capire se il virus abbia oltrepassato il perimetro al momento identificato o se al contrario possiamo restringerne i confini». Il piano nazionale di sorveglianza definisce un protocollo specifico, già attivo e adesso rafforzato: segnalazione di ogni carcassa al servizio veterinario competente per territorio; sopralluogo; valutazione della carcassa («Fondamentale per stabilire la data di morte presunta, da cui ricostruire la possibile data dell’infezione») e degli eventuali sintomi; prelievo dei campioni, da trasmettere all’Istituto zooprofilattico sperimentale; in caso di positività, invio al centro di referenza nazionale per la conferma definitiva.
Per Feliziani un piano analogamente strutturato è fondamentale per limitare la diffusione del cinghiale nei prossimi anni: «C’è bisogno di un piano nazionale che preveda la collaborazione di servizi veterinari, agricoltori e cacciatori: la densità del cinghiale nelle aree urbane e periurbane è un problema enorme, che avrebbe dovuto essere affrontato in precedenza. Non è infatti possibile pensare nell’immediato a politiche che per svilupparsi richiedono prospettive medio-lunghe; non si recupera in poche settimane quello che avremmo dovuto fare in dieci anni. Ormai è tardi per l’area infetta, nella quale dobbiamo studiare il sistema più efficace per circoscrivere l’infezione nel minor perimetro possibile; ma nel resto del territorio nazionale è urgente delineare programmi di riduzione del cinghiale. E bisogna che siano tra sé coordinati, perché le misure non sono efficaci se si applicano in un’area specifica e non in quelle limitrofe: il cinghiale tenderebbe a ripopolare rapidamente le uniche in cui è stata diminuita la sua densità».
Una volta definita l’area infetta «bisognerà abbassare il numero dei cinghiali nelle aree limitrofe»; e per Roberto Viganò, veterinario dello studio associato Alpvet e vicepresidente della Società italiana di ecopatologia della fauna, si potrà farlo solo «con un’attività venatoria gestita e regolamentata». Ma i cacciatori «che le autorità sanitarie devono formare capillarmente sulle attività di monitoraggio», e alcune sono ancora sgradevolmente carenti, non sono innocenti: «Avevano un compito fondamentale, segnalare qualunque carcassa avessero trovato sul territorio, così che si sarebbe potuti intervenire immediatamente sul primo focolaio e limitare la zona infetta. La presenza di distanze significative tra cinghiali contagiati equivale a dire che la sorveglianza passiva è stata carente. Dev’essere un avviso per i cacciatori di tutta Italia: se davanti a una carcassa fanno finta di nulla, rischiano di veder chiudere la caccia nell’intera provincia o in gran parte della regione. Solo un intervento rapido, e dunque la forte collaborazione con le autorità, consente di circoscrivere l’infezione».
L'ora della responsabilità
Christian Maffei, presidente nazionale dell’Arcicaccia, nega però «che i cacciatori abbiano responsabilità in quanto accaduto; anzi, sono fondamentali nelle operazioni di monitoraggio attualmente in corso». Insieme al Comitato nazionale caccia e natura (“Invitiamo i cacciatori a mettersi a disposizione delle autorità locali per partecipare alle azioni di controllo del territorio” scrive la cabina di regia del mondo venatorio), l’associazionismo si è già attivato sia sulla sorveglianza sia sulla formazione. Scettico sulla possibilità di recingere l’area infetta («Oltre che anacronistico, mi sembra infattibile perché comunque c’è da gestire una superficie boscata in continuità») Maffei auspica che le misure restrittive stabilite dal governo siano di per sé sufficienti. Semmai all’esterno ci sarà da potenziare la gestione del cinghiale per la quale, escluse le zone in cui è vietata o impossibile, «la braccata resta irrinunciabile; la caccia di selezione deve affiancarla, mai sostituirla». Anche Massimo Buconi, presidente nazionale della Federcaccia, condivide l’idea per cui sarebbe un errore rivoluzionare la gestione del cinghiale sulla base della nuova emergenza sanitaria: «Tutte le forme di caccia devono essere valorizzate, non bisogna commettere l’errore di porre in alternativa selezione e braccata: la sele
zione va aumentata e potenziata ma è impossibile pensare di poterla sostituire alla braccata, persino in un orizzonte temporale ampio». Semmai si deve pensare a coinvolgere i cacciatori, in parte già formati («Sono anni che ricordiamo quanto sia importante segnalare carcasse di cinghiale o situazioni sospette») e di per sé «il gruppo sociale più efficace nella sorveglianza sanitaria del territorio; lo dimostra quanto già fatto in passato con i migratori acquatici e l’influenza aviaria».
Sulle tecniche di caccia al cinghiale storicamente l’Eps, l’associazione che rappresenta le aziende faunistiche, ha una posizione diversa; i primi casi di peste suina africana in Italia sottolineano ora l’urgenza di «incrementare la caccia di selezione, per diminuire in maniera radicale il numero dei cinghiali anche nelle zone lontane dai focolai». Per il presidente nazionale Galdino Cartoni «gli Appennini rappresentano un corridoio naturale che può portare il virus in tutto il Paese. In un territorio così complicato la caccia di selezione consente sia di contenere i cinghiali sia di monitorare il territorio in ogni angolo». Già da due anni l’Eps ha sviluppato un’app che consente di segnalare immediatamente all’Asl una carcassa sospetta; e «visto che nel 15% del territorio che rappresentiamo sono fortemente coinvolti nella gestione faunistica, i nostri cacciatori sono particolarmente preparati ed educati» dinanzi a qualsiasi sfida ambientale.
“Il ruolo del cacciatore è fondamentale nella gestione della peste suina africana” sottolinea la Fondazione Una; “serviranno tutte le forze del caso affinché si circoscriva il prima possibile l’area infetta e si possa davvero pensare di estinguere il focolaio in tempi brevi. La mancata collaborazione e il disinteresse potrebbero portare solo a ulteriori chiusure anche in altre aree, chiusure che riguarderanno non solo il cinghiale ma anche altre forme di caccia”. Per circoscrivere il contagio non si può fare a meno “della collaborazione di tutti i soggetti potenzialmente impattati dal diffondersi dell’epidemia”.
Per Dino Scanavino, presidente nazionale della Cia Agricoltori, il governo farebbe bene a coinvolgere i cacciatori nelle operazioni d’eradicazione «pagandoli una certa cifra per cinghiale abbattuto»; e poi pianificare un’organizzazione militare per mandare le carcasse all’inceneritore. Ma per adesso «ci si limita a cercare le carcasse di cinghiali in un’area complicata, in cui tra dirupi e orridi di centinaia di metri la capacità di penetrazione è scarsa»; servirebbe «un piano d’abbattimento su larga scala» che però ancora nessuno ha visto. In un contesto così complesso le recinzioni potrebbero rappresentare la svolta; e «se la zona è impervia, se ne recinta almeno una parte. Sono un agricoltore, seguo una filosofia semplice: si fa come si può. Se teniamo dentro alcuni cinghiali, abbiamo già raggiunto un obiettivo. Ma dobbiamo fare alla svelta: se non s’interviene subito, si rischia di far arrivare la peste suina africana in tutta Italia».
Molto dubbioso invece Franco Postorino, direttore generale Confagricoltura: «Penso che la recinzione non sia una grande mossa: in Belgio e Repubblica Ceca erano coinvolti territori diversi, quasi di frontiera e comunque più facilmente gestibili rispetto all’Appennino; e poi non è una soluzione utile per un’emergenza, a tirarla su ci vogliono mesi e nel frattempo il contagio rischia di diffondersi». Per Postorino bisogna continuare a monitorare il territorio per identificare l’area del contagio e ripulirla, e nel frattempo «riprogrammare la presenza del cinghiale sull’intero territorio; senza però farci travolgere da un approccio emergenziale, ma pianificandola con tutti gli strumenti scientifici a disposizione».
Con un occhio (e mezzo) ai soldi
In un contesto così sarebbe tragico scordarsi di chi dalla peste suina africana rischia di essere travolto: il governo ha già disposto la macellazione immediata dei suini che vivono negli allevamenti bradi, semibradi, misti (maiali, cinghiali, ibridi) e familiari della zona infetta; e agli allevamenti commerciali ha imposto di programmarla rapidamente e vietato il ripopolamento per sei mesi. È chiaro che se la zona infetta si allarga la catastrofe esplode. Per Giorgio
Apostoli, caposervizio filiere zootecniche della Coldiretti, la soluzione è una sola: «Depopolare l’Italia dai cinghiali, partendo dalla cintura che circonda la zona infetta: lì dobbiamo ottenere un effettivo vuoto sanitario. Ci siamo mossi così per l’aviaria sopprimendo animali da reddito; perché non possiamo farlo con i cinghiali?». Ma non è l’unico compito di cui investire il governo; la diplomazia deve attivarsi («In realtà mi risulta che si sia già attivata») per far capire ad alcuni importatori di carne italiana che devono regionalizzare l’approccio: il commercio deve essere vietato solo a chi vende dalla zona infetta, «bisogna essere in grado di comunicare che il resto del territorio è sicuro». E nell’epoca dell’inflazione micidiale è necessario allertarsi rapidi su un settore che potrebbe restare stritolato dal suo andare controcorrente: c’è il timore che «se qualche Paese estero comincia a non acquistarli, il prezzo dei maiali italiani cali rapidamente». Ne è ben consapevole Maurizio Gallo, direttore dell’Associazione nazionale allevatori suini, che segnala che le barriere imposte da alcuni Stati - Cina, Giappone, Taiwan - «hanno già creato i primi danni»; analisi e strategia, rischio di un effetto deprimente sui prezzi dei suini e principio di regionalizzazione obbligatorio, coincidono con quella della Coldiretti. «C’è poi un dato in più da tenere presente: lungo la dorsale appenninica si registra un numero significativo di allevamenti all’aperto, nel quale si conserva una nicchia preziosa di razze autoctone italiane come la cinta senese e la casertana. Sono le più minacciate, il modo in cui sono allevate rende meno improbabile il contatto col cinghiale, e in caso di contagio al danno economico se ne aggiungerebbe uno sociale e culturale; si tenga presente che oltre che per il loro pregio queste razze sono fondamentali anche per la conservazione del territorio in aree marginali».
Se ne esce con un modo solo: ok le recinzioni, ok le misure restrittive nella zona infetta ma alla fine l’unica strategia efficace coincide con la riduzione della presenza del cinghiale. «È necessario agire tempestivamente per creare una zona tampone intorno all’area infetta». Tra monitoraggio e prelievo i cacciatori hanno un ruolo decisivo: sbagliare ora una mossa sarebbe un delitto.