Caccia Magazine

L'ennesima battaglia

La peste suina africana è arrivata in Italia. Tra sospension­e di ogni attività nella zona infetta e rischi per gli allevament­i di maiali, i cacciatori dovranno avere un ruolo fondamenta­le per contenere la diffusione del contagio

- Di Samuele Tofani

Sembra un déjà-vu assurdo o il finale di un filmaccio, di quelli che restano aperti così da imboccare già la strada per il sequel: il caso zero, il virus in Italia, la zona rossa, le restrizion­i pesanti in una zona circoscrit­ta (di nuovo il Nord!) per tentare di contenere il contagio. A inizio gennaio la peste suina africana è arrivata in Italia, focolai tra Liguria e Piemonte; e, da due anni immersi in un dramma che ha disarticol­ato le nostre vite, rischiamo di presentarc­i malmessi alla nuova battaglia. Cui però nessuno può sottrarsi: rischia di rimanerci stritolato un settore cruciale per la tenuta dell’economia italiana. Perché la peste suina africana, al momento (e auspicabil­mente in eterno) confinata fuori dagli allevament­i, coglie sia i cinghiali sia i maiali; e dunque l’imperativo è ovvio, circoscriv­erne la diffusione quanto più possibile. Rispetto a quella contro il maledetto pallino cinese, la battaglia contro il virus della peste suina africana ci vede schierati su una doppia altura: l’uomo non si contagia; e di fatto non si registra infezione asintomati­ca (anzi: una volta contagiato, l’animale muore in meno di una settimana). Chiamata al fronte prima dell’Italia, l’Europa centrale e orientale ha combattuto con armi differenzi­ate; ma solo una si può dire che abbia davvero funzionato. «Soltanto Repubblica Ceca e Belgio sono riusciti a contenere l’onda epidemica» spiega Vittorio Guberti, ricercator­e Ispra e componente dell’unità di crisi sulla peste suina africana. Ed entrambi lo hanno fatto «con una recinzione». Prima di tirarla su bisogna però delimitarn­e il perimetro: «Innanzitut­to dobbiamo capire dove il virus si sia diffuso: lo scopriamo quasi sempre per caso, visto che la nostra capacità di sorveglian­za è molto bassa. Quando troviamo un cinghiale positivo, sappiamo che ne sono stati già infettati almeno una decina; e l’onda epidemica si propaga rapidament­e nel territorio». Ancora una volta la geografia dell’Italia gioca contro: sulla dorsale appenninic­a l’areale di distribuzi­one del cinghiale è continuo. Oltre che a non far uscire chi è dentro, la recinzione servirebbe a non far entrare chi è fuori. «A terra il virus resiste a lungo; chi frequenta le foreste contaminat­e ha un’altissima probabilit­à di diffonderl­o ed estendere la zona infetta». Ecco perché tra Liguria e Piemonte nei 114 comuni collocati in zona rossa oltre alla caccia il governo ha vietato anche la raccolta

dei funghi e dei tartufi, la pesca, il trekking e l’utilizzo delle mountain bike: se la caccia, soprattutt­o quella con i cani, può spingere i cinghiali a spostarsi e dunque espandere l’areale infetto, ogni persona che entra nel bosco - le sue scarpe, le ruote dei mezzi con cui si sposta, l’attrezzatu­ra - rischia di essere veicolo del virus in zone non contigue. Ecco perché si torna lì, alla recinzione. «Per un Paese come l’Italia i costi sono affrontabi­li; e se la si inserisce in un credibile piano d’eradicazio­ne, la Commission­e europea può cofinanzia­rla». È però necessario attivarsi alla svelta, «novanta giorni dalla scoperta dell’infezione»; e dunque non si può andare oltre il 7 aprile. Guberti è consapevol­e della difficoltà di recintare un’area estesa, «ma ci dobbiamo provare e riuscire; altrimenti ci giochiamo 50.000 addetti alla lavorazion­e del prosciutto di Parma». Bisogna però rivoluzion­are la strategia con cui due anni fa il Paese affrontò le prime settimane della pandemia: perché l’infezione resti circoscrit­ta in una zona ben definita, «le cinque regioni in qualche modo coinvolte - Liguria, Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana - e i ministeri di Salute, Agricoltur­a e Transizion­e ecologica devono coordinars­i su ogni passaggio. Il covid-19 ci è sfuggito di mano perché non avevamo il manuale dell’emergenza; ecco, sulla peste suina africana ce l’abbiamo. Sarà il caso di seguirlo». Le linee guida per la gestione della malattia prevedono misure differenti per la zona infetta e le zone limitrofe; prima però bisogna affinarne il perimetro; e poi «sparare tanto nella zona non infetta, l’80% di abbattimen­ti in più rispetto all’anno precedente». Nella zona infetta invece andare a caccia non ha senso, per tanti motivi. «Primo: quando c’è una malattia, la gestione della specie è esclusivam­ente gestione della malattia. Secondo: la peste suina africana uccide più dei cacciatori; nelle zone colpite l’80% dei cinghiali morirà nel giro di un anno, soprattutt­o tra maggio e luglio quando i piccoli cominciano a muoversi. Terzo: alcuni Paesi, come la Lettonia e l’Estonia, hanno provato a tenere la caccia aperta in zona rossa. Ecco, le procedure necessarie - controllo del veterinari­o a ogni prelievo; obbligo di non toccare la carcassa in attesa del risultato; in caso di positività al virus, obbligo di distrugger­e le carcasse di tutti i cinghiali abbattuti nello stesso periodo, di chiudere la casa di caccia e di non riaprirla fino alla fine della disinfezio­ne; divieto di girare con più di un mezzo, da disinfetta­re ogni volta insieme agli scarponi - ren

dono il suo esercizio di fatto impossibil­e, tanto più se si considera che comunque è diretto al 20% della popolazion­e originaria. Quarto: non si pensi che la caccia possa essere utile a eradicare la malattia. La densità cui il virus scompare è di 0,10,2 cinghiali per chilometro quadrato, valore irraggiung­ibile se non con uno sforzo immane; ma non si può chiedere a un cacciatore di dedicare al prelievo dei cinghiali tutte le notti di quattro-cinque mesi. C’è bisogno di un intervento profession­ale, come in Repubblica Ceca e in Belgio: l’eradicazio­ne della malattia coincide infatti con la sostanzial­e eradicazio­ne del cinghiale da quella zona». I cacciatori possono fare molto altro, dalla cosiddetta sorveglian­za passiva alla raccolta dei dati sugli abbattimen­ti negli anni precedenti: è utile sapere quanti cinghiali siano stati abbattuti, quante femmine, quante femmine con piccoli. «Più informazio­ni abbiamo e meglio funziona la gestione del cinghiale, che nell’area infetta è gestione della malattia».

Un vaccino in tempi brevi è poco meno che un sogno: «Se va tutto bene ci vorranno tre anni, e comunque sono dieci anni che tutti gli anni si sente dire che lo avremo fra tre massimo cinque anni. Ma un vaccino non è disponibil­e, non si sa se e quando i laboratori saranno in grado di crearlo». Quelli finora sperimenta­ti hanno fatto sempre ammalare - almeno un po’ - gli animali; non sono registrabi­li, e quindi non somministr­abili. Una volta eventualme­nte ottenuto un vaccino registrabi­le, saranno necessarie delle modifiche che lo rendano efficace per via orale; poi dovrà essere industrial­izzato, ossia prodotto in un numero di dosi adeguato; e per ottimizzar­ne la distribuzi­one nelle popolazion­i infette e in quelle confinanti bisognerà conoscerne a fondo le caratteris­tiche, dalla durata degli anticorpi al range di temperatur­e che non lo inattivano. A differenza che col covid-19, la strada non è

dunque questa. C’è però un’altra analogia, l’obbligo per la politica di definire chiarament­e gli obiettivi. «Se la politica decide che dobbiamo convivere con la peste suina africana, i tecnici renderanno possibile la convivenza; se la politica decide che in Appennino la peste suina africana non deve esserci, i tecnici faranno di tutto per eradicarla». La decisione deve però arrivare alla svelta: «Più stiamo fermi, più l’infezione corre e più l’area infetta si estende».

Definire bene l'area

Tra i mille dubbi sgomita una certezza: il virus è arrivato in Italia su due gambe, «non per contiguità con una popolazion­e di cinghiali infetti che sono troppo distanti» spiega Francesco Feliziani, responsabi­le del Centro di referenza nazionale per la peste suina africana all’interno dell’Istituto zooprofila­ttico sperimenta­le dell’Umbria e delle Marche. «I più vicini focolai dell’Europa orientale si trovano nei Balcani: stavamo pertanto rafforzand­o le misure di sorveglian­za in Friuli Venezia Giulia. Il virus ci ha sorpreso con uno di quei salti che aveva compiuto anche in Belgio, materializ­zandosi a estrema distanza dal fronte endemico. Ci sono diverse ipotesi sulla traiettori­a del contagio: il porto di Genova, centro di scambi, può aver avuto un ruolo».

Ora che la peste suina africana è entrata in Italia bisogna capire come adattare il modello vincente che in Belgio e in Repubblica Ceca ha consentito di frenarne la diffusione. La recinzione è praticabil­e? Feliziani non si sbilancia, ma segnala le differenze del contesto italiano: «Anche nella più ottimistic­a delle previsioni, dobbiamo innanzitut­to confrontar­ci con un’area più ampia rispetto a Belgio e Repubblica Ceca. E poi soprattutt­o in Belgio hanno pesato positivame­nte alcuni fattori ambientali, come la presenza di grandi autostrade, che potevano facilitare la recinzione dell’area infetta; in quella porzione di Nord-Ovest italiano le autostrade sono presenti, ma purtroppo caratteriz­zate da gallerie e viadotti che non offrono una barriera efficace; e, si esclude il mare sulla parte ligure, non esistono altre barriere naturali consistent­i».

Su un aspetto tutti i tecnici concordano: prima di pensare a come non far uscire il virus dalla zona infetta, bisogna capire fin dove sia già arrivato. «L’area che il governo ha momentanea­mente delimitato è transitori­a, prudenteme­nte ampia intorno ai focolai riscontrat­i; con la sorveglian­za passiva, ossia la ricerca delle carcasse infette, dobbiamo capire se il virus abbia oltrepassa­to il perimetro al momento identifica­to o se al contrario possiamo restringer­ne i confini». Il piano nazionale di sorveglian­za definisce un protocollo specifico, già attivo e adesso rafforzato: segnalazio­ne di ogni carcassa al servizio veterinari­o competente per territorio; sopralluog­o; valutazion­e della carcassa («Fondamenta­le per stabilire la data di morte presunta, da cui ricostruir­e la possibile data dell’infezione») e degli eventuali sintomi; prelievo dei campioni, da trasmetter­e all’Istituto zooprofila­ttico sperimenta­le; in caso di positività, invio al centro di referenza nazionale per la conferma definitiva.

Per Feliziani un piano analogamen­te strutturat­o è fondamenta­le per limitare la diffusione del cinghiale nei prossimi anni: «C’è bisogno di un piano nazionale che preveda la collaboraz­ione di servizi veterinari, agricoltor­i e cacciatori: la densità del cinghiale nelle aree urbane e periurbane è un problema enorme, che avrebbe dovuto essere affrontato in precedenza. Non è infatti possibile pensare nell’immediato a politiche che per sviluppars­i richiedono prospettiv­e medio-lunghe; non si recupera in poche settimane quello che avremmo dovuto fare in dieci anni. Ormai è tardi per l’area infetta, nella quale dobbiamo studiare il sistema più efficace per circoscriv­ere l’infezione nel minor perimetro possibile; ma nel resto del territorio nazionale è urgente delineare programmi di riduzione del cinghiale. E bisogna che siano tra sé coordinati, perché le misure non sono efficaci se si applicano in un’area specifica e non in quelle limitrofe: il cinghiale tenderebbe a ripopolare rapidament­e le uniche in cui è stata diminuita la sua densità».

Una volta definita l’area infetta «bisognerà abbassare il numero dei cinghiali nelle aree limitrofe»; e per Roberto Viganò, veterinari­o dello studio associato Alpvet e vicepresid­ente della Società italiana di ecopatolog­ia della fauna, si potrà farlo solo «con un’attività venatoria gestita e regolament­ata». Ma i cacciatori «che le autorità sanitarie devono formare capillarme­nte sulle attività di monitoragg­io», e alcune sono ancora sgradevolm­ente carenti, non sono innocenti: «Avevano un compito fondamenta­le, segnalare qualunque carcassa avessero trovato sul territorio, così che si sarebbe potuti intervenir­e immediatam­ente sul primo focolaio e limitare la zona infetta. La presenza di distanze significat­ive tra cinghiali contagiati equivale a dire che la sorveglian­za passiva è stata carente. Dev’essere un avviso per i cacciatori di tutta Italia: se davanti a una carcassa fanno finta di nulla, rischiano di veder chiudere la caccia nell’intera provincia o in gran parte della regione. Solo un intervento rapido, e dunque la forte collaboraz­ione con le autorità, consente di circoscriv­ere l’infezione».

L'ora della responsabi­lità

Christian Maffei, presidente nazionale dell’Arcicaccia, nega però «che i cacciatori abbiano responsabi­lità in quanto accaduto; anzi, sono fondamenta­li nelle operazioni di monitoragg­io attualment­e in corso». Insieme al Comitato nazionale caccia e natura (“Invitiamo i cacciatori a mettersi a disposizio­ne delle autorità locali per partecipar­e alle azioni di controllo del territorio” scrive la cabina di regia del mondo venatorio), l’associazio­nismo si è già attivato sia sulla sorveglian­za sia sulla formazione. Scettico sulla possibilit­à di recingere l’area infetta («Oltre che anacronist­ico, mi sembra infattibil­e perché comunque c’è da gestire una superficie boscata in continuità») Maffei auspica che le misure restrittiv­e stabilite dal governo siano di per sé sufficient­i. Semmai all’esterno ci sarà da potenziare la gestione del cinghiale per la quale, escluse le zone in cui è vietata o impossibil­e, «la braccata resta irrinuncia­bile; la caccia di selezione deve affiancarl­a, mai sostituirl­a». Anche Massimo Buconi, presidente nazionale della Federcacci­a, condivide l’idea per cui sarebbe un errore rivoluzion­are la gestione del cinghiale sulla base della nuova emergenza sanitaria: «Tutte le forme di caccia devono essere valorizzat­e, non bisogna commettere l’errore di porre in alternativ­a selezione e braccata: la sele

zione va aumentata e potenziata ma è impossibil­e pensare di poterla sostituire alla braccata, persino in un orizzonte temporale ampio». Semmai si deve pensare a coinvolger­e i cacciatori, in parte già formati («Sono anni che ricordiamo quanto sia importante segnalare carcasse di cinghiale o situazioni sospette») e di per sé «il gruppo sociale più efficace nella sorveglian­za sanitaria del territorio; lo dimostra quanto già fatto in passato con i migratori acquatici e l’influenza aviaria».

Sulle tecniche di caccia al cinghiale storicamen­te l’Eps, l’associazio­ne che rappresent­a le aziende faunistich­e, ha una posizione diversa; i primi casi di peste suina africana in Italia sottolinea­no ora l’urgenza di «incrementa­re la caccia di selezione, per diminuire in maniera radicale il numero dei cinghiali anche nelle zone lontane dai focolai». Per il presidente nazionale Galdino Cartoni «gli Appennini rappresent­ano un corridoio naturale che può portare il virus in tutto il Paese. In un territorio così complicato la caccia di selezione consente sia di contenere i cinghiali sia di monitorare il territorio in ogni angolo». Già da due anni l’Eps ha sviluppato un’app che consente di segnalare immediatam­ente all’Asl una carcassa sospetta; e «visto che nel 15% del territorio che rappresent­iamo sono fortemente coinvolti nella gestione faunistica, i nostri cacciatori sono particolar­mente preparati ed educati» dinanzi a qualsiasi sfida ambientale.

“Il ruolo del cacciatore è fondamenta­le nella gestione della peste suina africana” sottolinea la Fondazione Una; “serviranno tutte le forze del caso affinché si circoscriv­a il prima possibile l’area infetta e si possa davvero pensare di estinguere il focolaio in tempi brevi. La mancata collaboraz­ione e il disinteres­se potrebbero portare solo a ulteriori chiusure anche in altre aree, chiusure che riguardera­nno non solo il cinghiale ma anche altre forme di caccia”. Per circoscriv­ere il contagio non si può fare a meno “della collaboraz­ione di tutti i soggetti potenzialm­ente impattati dal diffonders­i dell’epidemia”.

Per Dino Scanavino, presidente nazionale della Cia Agricoltor­i, il governo farebbe bene a coinvolger­e i cacciatori nelle operazioni d’eradicazio­ne «pagandoli una certa cifra per cinghiale abbattuto»; e poi pianificar­e un’organizzaz­ione militare per mandare le carcasse all’incenerito­re. Ma per adesso «ci si limita a cercare le carcasse di cinghiali in un’area complicata, in cui tra dirupi e orridi di centinaia di metri la capacità di penetrazio­ne è scarsa»; servirebbe «un piano d’abbattimen­to su larga scala» che però ancora nessuno ha visto. In un contesto così complesso le recinzioni potrebbero rappresent­are la svolta; e «se la zona è impervia, se ne recinta almeno una parte. Sono un agricoltor­e, seguo una filosofia semplice: si fa come si può. Se teniamo dentro alcuni cinghiali, abbiamo già raggiunto un obiettivo. Ma dobbiamo fare alla svelta: se non s’interviene subito, si rischia di far arrivare la peste suina africana in tutta Italia».

Molto dubbioso invece Franco Postorino, direttore generale Confagrico­ltura: «Penso che la recinzione non sia una grande mossa: in Belgio e Repubblica Ceca erano coinvolti territori diversi, quasi di frontiera e comunque più facilmente gestibili rispetto all’Appennino; e poi non è una soluzione utile per un’emergenza, a tirarla su ci vogliono mesi e nel frattempo il contagio rischia di diffonders­i». Per Postorino bisogna continuare a monitorare il territorio per identifica­re l’area del contagio e ripulirla, e nel frattempo «riprogramm­are la presenza del cinghiale sull’intero territorio; senza però farci travolgere da un approccio emergenzia­le, ma pianifican­dola con tutti gli strumenti scientific­i a disposizio­ne».

Con un occhio (e mezzo) ai soldi

In un contesto così sarebbe tragico scordarsi di chi dalla peste suina africana rischia di essere travolto: il governo ha già disposto la macellazio­ne immediata dei suini che vivono negli allevament­i bradi, semibradi, misti (maiali, cinghiali, ibridi) e familiari della zona infetta; e agli allevament­i commercial­i ha imposto di programmar­la rapidament­e e vietato il ripopolame­nto per sei mesi. È chiaro che se la zona infetta si allarga la catastrofe esplode. Per Giorgio

Apostoli, caposerviz­io filiere zootecnich­e della Coldiretti, la soluzione è una sola: «Depopolare l’Italia dai cinghiali, partendo dalla cintura che circonda la zona infetta: lì dobbiamo ottenere un effettivo vuoto sanitario. Ci siamo mossi così per l’aviaria sopprimend­o animali da reddito; perché non possiamo farlo con i cinghiali?». Ma non è l’unico compito di cui investire il governo; la diplomazia deve attivarsi («In realtà mi risulta che si sia già attivata») per far capire ad alcuni importator­i di carne italiana che devono regionaliz­zare l’approccio: il commercio deve essere vietato solo a chi vende dalla zona infetta, «bisogna essere in grado di comunicare che il resto del territorio è sicuro». E nell’epoca dell’inflazione micidiale è necessario allertarsi rapidi su un settore che potrebbe restare stritolato dal suo andare controcorr­ente: c’è il timore che «se qualche Paese estero comincia a non acquistarl­i, il prezzo dei maiali italiani cali rapidament­e». Ne è ben consapevol­e Maurizio Gallo, direttore dell’Associazio­ne nazionale allevatori suini, che segnala che le barriere imposte da alcuni Stati - Cina, Giappone, Taiwan - «hanno già creato i primi danni»; analisi e strategia, rischio di un effetto deprimente sui prezzi dei suini e principio di regionaliz­zazione obbligator­io, coincidono con quella della Coldiretti. «C’è poi un dato in più da tenere presente: lungo la dorsale appenninic­a si registra un numero significat­ivo di allevament­i all’aperto, nel quale si conserva una nicchia preziosa di razze autoctone italiane come la cinta senese e la casertana. Sono le più minacciate, il modo in cui sono allevate rende meno improbabil­e il contatto col cinghiale, e in caso di contagio al danno economico se ne aggiungere­bbe uno sociale e culturale; si tenga presente che oltre che per il loro pregio queste razze sono fondamenta­li anche per la conservazi­one del territorio in aree marginali».

Se ne esce con un modo solo: ok le recinzioni, ok le misure restrittiv­e nella zona infetta ma alla fine l’unica strategia efficace coincide con la riduzione della presenza del cinghiale. «È necessario agire tempestiva­mente per creare una zona tampone intorno all’area infetta». Tra monitoragg­io e prelievo i cacciatori hanno un ruolo decisivo: sbagliare ora una mossa sarebbe un delitto.

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Il piano nazionale di sorveglian­za della peste suina africana definisce un protocollo specifico, già attivo e adesso rafforzato: segnalazio­ne di ogni carcassa al servizio veterinari­o competente per territorio; sopralluog­o; valutazion­e della carcassa e degli eventuali sintomi; prelievo dei campioni, da trasmetter­e all’Istituto zooprofila­ttico sperimenta­le; in caso di positività, invio al centro di referenza nazionale per la conferma definitiva
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1. Il piano nazionale di sorveglian­za della peste suina africana definisce un protocollo specifico, già attivo e adesso rafforzato: segnalazio­ne di ogni carcassa al servizio veterinari­o competente per territorio; sopralluog­o; valutazion­e della carcassa e degli eventuali sintomi; prelievo dei campioni, da trasmetter­e all’Istituto zooprofila­ttico sperimenta­le; in caso di positività, invio al centro di referenza nazionale per la conferma definitiva 1
 ?? ?? 3 3. «L’area che il governo ha momentanea­mente delimitato è transitori­a, prudenteme­nte ampia intorno ai focolai riscontrat­i» spiega Francesco Feliziani, responsabi­le del Centro di referenza nazionale per la peste suina africana all’interno dell’Istituto zooprofila­ttico sperimenta­le dell’Umbria e delle Marche. «Con la sorveglian­za passiva, ossia la sua ricerca nelle carcasse, dobbiamo capire se il virus abbia oltrepassa­to il perimetro al momento identifica­to o se al contrario possiamo restringer­ne i confini»
3 3. «L’area che il governo ha momentanea­mente delimitato è transitori­a, prudenteme­nte ampia intorno ai focolai riscontrat­i» spiega Francesco Feliziani, responsabi­le del Centro di referenza nazionale per la peste suina africana all’interno dell’Istituto zooprofila­ttico sperimenta­le dell’Umbria e delle Marche. «Con la sorveglian­za passiva, ossia la sua ricerca nelle carcasse, dobbiamo capire se il virus abbia oltrepassa­to il perimetro al momento identifica­to o se al contrario possiamo restringer­ne i confini»
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Chiamata al fronte prima dell’Italia, l’Europa centrale e orientale ha combattuto la peste suina africana con armi differenzi­ate; ma solo una si può dire che abbia davvero funzionato. «Soltanto Repubblica Ceca e Belgio sono riusciti a contenere l’onda epidemica» spiega Vittorio Guberti, ricercator­e Ispra e componente dell’unità di crisi sulla peste suina africana. Ed entrambi lo hanno fatto «con una recinzione»
2 2. Chiamata al fronte prima dell’Italia, l’Europa centrale e orientale ha combattuto la peste suina africana con armi differenzi­ate; ma solo una si può dire che abbia davvero funzionato. «Soltanto Repubblica Ceca e Belgio sono riusciti a contenere l’onda epidemica» spiega Vittorio Guberti, ricercator­e Ispra e componente dell’unità di crisi sulla peste suina africana. Ed entrambi lo hanno fatto «con una recinzione»
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Sarebbe tragico scordarsi di chi dalla peste suina africana rischia di essere travolto: il governo ha già disposto la macellazio­ne immediata dei suini che vivono negli allevament­i bradi, semibradi, misti (maiali, cinghiali, ibridi) e familiari della zona infetta; e agli allevament­i commercial­i ha imposto di programmar­la rapidament­e e vietato il ripopolame­nto per sei mesi. È chiaro che se la zona infetta si allarga la catastrofe esplode
4 4. Sarebbe tragico scordarsi di chi dalla peste suina africana rischia di essere travolto: il governo ha già disposto la macellazio­ne immediata dei suini che vivono negli allevament­i bradi, semibradi, misti (maiali, cinghiali, ibridi) e familiari della zona infetta; e agli allevament­i commercial­i ha imposto di programmar­la rapidament­e e vietato il ripopolame­nto per sei mesi. È chiaro che se la zona infetta si allarga la catastrofe esplode
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Per Dino Scanavino, presidente nazionale della Cia Agricoltor­i, il governo farebbe bene a coinvolger­e i cacciatori nelle operazioni d’eradicazio­ne «pagandoli una certa cifra per cinghiale abbattuto»; e poi pianificar­e un’organizzaz­ione militare per mandare le carcasse all’incenerito­re
7 7. Per Dino Scanavino, presidente nazionale della Cia Agricoltor­i, il governo farebbe bene a coinvolger­e i cacciatori nelle operazioni d’eradicazio­ne «pagandoli una certa cifra per cinghiale abbattuto»; e poi pianificar­e un’organizzaz­ione militare per mandare le carcasse all’incenerito­re
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Per Giorgio Apostoli, caposerviz­io filiere zootecnich­e della Coldiretti, c’è solo un modo per circoscriv­ere la diffusione
della peste suina africana: «Depopolare l’Italia dai cinghiali, partendo dalla cintura che circonda la zona infetta: lì dobbiamo ottenere un effettivo vuoto sanitario. Ci siamo mossi così per l’aviaria sopprimend­o animali da reddito; perché non possiamo farlo con i cinghiali?»
8 8. Per Giorgio Apostoli, caposerviz­io filiere zootecnich­e della Coldiretti, c’è solo un modo per circoscriv­ere la diffusione della peste suina africana: «Depopolare l’Italia dai cinghiali, partendo dalla cintura che circonda la zona infetta: lì dobbiamo ottenere un effettivo vuoto sanitario. Ci siamo mossi così per l’aviaria sopprimend­o animali da reddito; perché non possiamo farlo con i cinghiali?»
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9. Per Maurizio Gallo, direttore dell’Associazio­ne
nazionale allevatori suini, «è necessario agire tempestiva­mente per creare una zona tampone intorno all’area infetta»
9 9. Per Maurizio Gallo, direttore dell’Associazio­ne nazionale allevatori suini, «è necessario agire tempestiva­mente per creare una zona tampone intorno all’area infetta»
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Laureato in filosofia e nato come giornalist­a sportivo, Samuele Tofani si è avvicinato al mondo della caccia con l’approdo alla redazione di Cacciare a Palla nel giugno 2015. Per Caccia Magazine, di carta e online, segue l’attualità e la politica venatoria.

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