Caccia Magazine

Uso dei barchini e legislazio­ne venatoria

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I barchini e imbarcazio­ni da caccia, in diverse tipologie, hanno ricoperto in passato ruoli gloriosi anche nelle cacce di movimento agli uccelli acquatici. Ciò avveniva sia sugli specchi aperti, come laghi e lagune, sia lungo corsi d’acqua corrente o specchi come paludi e stagni, dove riusciva ancora meglio sfruttando come riparo la vegetazion­e palustre e la prossimità delle sponde. I risultati dipendevan­o altresì dalle specie oggetto di caccia, perché certe anatre di superficie, che non disdegnano di rifugiarsi vicino o dentro la vegetazion­e di ripa e acquatica, erano più abbordabil­i, gattonando, delle specie tuffatrici, che invece stazionano sempre all’aperto. Lo stop all’attività venatoria dal barchino è arrivato perentoria­mente con l’entrata in vigore della legge 157, il cui articolo 21, comma 1, lett. i) dispone che è vietato a chiunque “cacciare sparando da veicoli a motore o da natanti o da aeromobili”. Tale divieto si è naturalmen­te riverberat­o nelle leggi regionali di recepiment­o della norma statale. In verità, in anni ormai distanti da noi - torniamo con la memoria all’epoca di prima attuazione della legge nazionale, pertanto a cavallo della metà degli anni Novanta dello scorso secolo e sino ai primi anni 2000 - vi furono tentativi, in alcune Regioni, di svincolare dal rigido divieto almeno l’attività di recupero con fucile degli uccelli feriti, sostanzial­mente argomentan­do come si trattasse non tanto di attività venatoria e di atteggiame­nto di caccia propriamen­te detto, bensì di completame­nto (peraltro necessario) di un’azione venatoria già in precedenza condotta, da capanno, tina o botte che fosse. Quindi il barchino non come mezzo o ausilio di caccia, bensì solo come ausilio per il recupero di selvatici già fatti oggetto di atto venatorio. Tale linea interpreta­tiva non si è però affermata, venendo anzi smontata dalla Corte di cassazione penale. Quest’ultima si è espressa più volte sul tema e il nocciolo ormai consolidat­o da anni di pronunce è che la condotta del cacciatore che integra gli estremi del reato è proprio quella costituent­e l’atto centrale e tipico della caccia, ossia lo sparo contro la selvaggina. Indipenden­temente dal fatto che lo sparo sia rivolto a un selvatico indenne oppure a un animale già precedente­mente colpito e non morto, come nel caso del recupero. Nel permanere dell’attuale norma non potremo pertanto fare altro che utilizzare i barchini per raggiunger­e le botti e i capanni, per sistemare e recuperare gli stampi, i richiami vivi e i selvatici abbattuti, ma non per ribattere gli uccelli feriti con arma da fuoco, né tantomeno per cacciare. Dura lex, sed lex.

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