Inchiesta
Circa il 50% del metallo utilizzato per la realizzazione delle batterie di auto elettriche, smartphone e altri dispositivi elettronici, si trova nelle miniere del Congo dove le condizioni sono pessime. Altro tema: lo smaltimento
Nell’epoca della green economy, della de-carbonizzazione e dell’annunciata svolta ecologica, non tutto è oro quel che luccica. Si pensi, ad esempio, al mercato emergente dell’automobile elettrica, che nel giro di qualche anno potrebbe decretare la scomparsa delle motorizzazioni a benzina e diesel. Non c’è dubbio che si tratti di un salto in avanti in termini di riduzione di emissioni di Co2, anche se in tanti hanno posto il problema della produzione e dello smaltimento delle batterie che, con un utilizzo in larga scala di veicoli alimentati elettricamente, andranno necessariamente sostituite con più frequenza. Batterie che oggi sono prodotte utilizzando metalli difficili da reperire come litio, nichel e cobalto che in poco tempo hanno visto il loro prezzo schizzare alle stelle. Il cobalto, in particolare, ferromagnetico e molto duro, utilizzato anche per alimentare smartphone, tablet, pc e altri dispositivi elettronici, si estrae in
Africa, soprattutto nelle miniere della Repubblica democratica del Congo, dove vengono impiegati migliaia di bambini costretti a lavorare in ambienti malsani e senza alcuna protezione e tutela. Secondo i dati pubblicati dall’Unicef, nel 2014 nelle miniere del sud del Congo lavoravano circa 40.000 minorenni, molti dei quali occupati nell’estrazione del cobalto, con turni da dodici ore al giorno e paghe da fame. Come se non bastasse, un recente studio ripreso da Amnesty International ipotizza che l’esposizione prolungata all’inquinamento tossico provocherebbe difetti congeniti nei figli dei minatori di rame e cobalto. Chi lavora nelle miniere, infatti, non utilizza guanti e neppure mascherine per il volto. Molti accusano tosse persistente, dolori ai polmoni e infezioni
alle vie urinarie. Inoltre, l’acqua da bere spesso è contaminata dallo scarico dei rifiuti degli stessi impianti di lavorazione dei minerali. E così, dietro alla nobile idea dell’auto elettrica e della mobilità sostenibile si cela un sistema di sfruttamento noto ai governi e ai colossi del commercio, che poco hanno fatto per invertire la rotta. Fortunatamente, grazie all’impegno delle organizzazioni umanitarie, la “questione cobalto” è finalmente diventata di pubblico dominio e sono numerose le aziende che hanno già annunciato piani di sviluppo per la produzione di batterie agli ioni di litio in grado di fare a meno del cobalto. Una sfida ingegneristica non da poco, in quanto le attuali batterie “cobalt free” hanno minore densità energetica e reggono a fatica le ricariche veloci, indispensabili affinché l’auto elettrica possa davvero sostituire i veicoli tradizionali. Oltre ai problemi “sociali” legati all’estrazione delle materie prime, si è molto discusso dello smaltimento degli accumulatori, destinati ad aumentare in modo esponenziale nel giro di pochi anni. La parola chiave in tal senso è riciclo: più batterie si recuperano, meno ne serviranno. Ad oggi la maggior parte delle batterie esauste vengono trattate ad alte temperature in impianti dislocati soprattutto in Germania. La restante parte attiva, conosciuta come “black mass”, contenente minerali rari, viene infine gestita da altri paesi, soprattutto asiatici.