Tra Hollywood e Kingston
Il successo al botteghino di One Love riaccende i riflettori sulla leggendaria figura di Bob Marley, “l’artista più influente della seconda metà del XX secolo”.
Tra il suono e l’immagine reggae c’è la stessa ambiguità, la stessa ipnosi, lo stesso suono riverberato e amplificato, lo stesso movimento in levare. È più difficile barare, con il reggae: è musica creata dalla gente rasta e porta in sé la forza della terra. Anche se la tentazione è sempre dietro la prima palma e ci cascano in molti: la beatitudine tropicale, il pauperismo dei Caraibi, la musica ma anche la religione, la magia. È una cultura che, con il tempo e il dolore, ha imparato a difendersi. Lì tutto è vero e tutto è falso, tutto è vita e tutto è cinema. E il cinema diventa il luogo di tutte le ambiguità possibili, ma anche di tutte le verifiche. Per questo, i buoni film sulla Giamaica e il reggae si contano sulle dita di una mano. Il modello di riferimento rimane sempre The Harder They Come di Perry Henzell, la pellicola del 1972 sul bandito/eroe interpretato da Jimmy Cliff che – scrive Stephan Davies – “è diventata l’industria del reggae, dando a quella musica non solo una rappresentazione, ma una forma: il film ha fatto passare la musica, la musica ha fatto passare il messaggio e le immagini dei rasta che hanno acceso in tutto l’Occidente una diversa coscienza del terzo mondo”. Per questo, Ziggy e Rita Marley ci hanno pensato a lungo prima di dare il via libera a Bob Marley-One Love: perché si trattava di fare un film hollywoodiano sul personaggio meno hollywoodiano della storia della musica. Fino a quando, dopo tante proposte, non hanno trovato il regista giusto (Reinaldo Marcus Green) e l’attore protagonista giusto (Kingsley Ben-Adir). Volevano un film di fiction vero, con il giusto dosaggio fra azione, dramma e commedia, consegnato alle sale americane a metà febbraio, in cambio di un incasso di 27,7 milioni di dollari, un po’ più di Rocketman e un po’ meno di Elvis. “Come la musica di mio padre”, ha detto Ziggy, “questo film porta un messaggio di pace, amore e unità che tocca il pubblico di tutto il mondo”. E infatti il pubblico di tutto il mondo si è messo in fila per andare a vedere quello che da subito si è rivelato uno dei grandi eventi cinematografici dell’anno.
Non tutti sono però d’accordo sulla bontà del risultato. Anzi, in molti ne hanno parlato come del solito biopic musicale, un genere di film tradizionalmente molto amato dal pubblico e poco dalla critica cinematografica. E anche questa volta sembra sia andata così. Prima i giornali americani, con «Variety» che parla di un “biopic tutt’altro che rivoluzionario”; poi i francesi con «Le Monde» che titola:
“Con One Love Reinaldo M. Green mette in immagini l’imbalsamazione di un profeta”. E infine, in Italia, con «Mymovies» che lo definisce “un biopic che procede per accumulo o per inerzia, lasciando la sensazione di una ricostruzione fittizia”. Insomma, lo schema è quello già visto del cantante perso nella sua crisi d’identità, baciato dal successo ma incapace di dare un senso alla sua vita attraverso la musica. Un film che racconta molto di Bob Marley, anche se non si riesce mai a capire quale sia il suo viaggio, il suo percorso. Funzionano alcuni momenti della prima parte, la registrazione nel 1963 al famoso Studio One diretto da un pazzo fanatico come Clement ‘Coxsone’ Dodd, e in genere le scene sulla Giamaica sprofondata nel pantano postcoloniale della guerra per bande. Anche Rita Marley di Lashana Lynch è un personaggio quasi commovente nella devozione per il suo uomo così come nella comprensione del suo dolore. Ma, a parte la scena in cui Marley attacca violentemente il suo
«Per Linton Kwesi Johnson, Bob Marley è stato il Che Guevara della cultura popolare»
manager per aver tentato di gonfiare i preventivi dei concerti africani per il suo sporco tornaconto, il Marley che vediamo è spesso vicino al santino e destinato a un pubblico molto simile a quello immaginato da Berlusconi per le sue televisioni (“un undicenne, neanche troppo sveglio”).
Negli ultimi anni c’era stata tra l’altro un’evoluzione importante che aveva permesso al biopic hollywoodiano (non solo musicale) di abbandonare la vecchia regola “dalla culla alla tomba” per concentrarsi invece su un periodo cruciale della vita del protagonista (è successo con Lincoln, ma anche con Oppenheimer), in modo da garantire alla narrazione più consistenza e verità. È così anche in One Love: due anni di storia (dal 1976 al 1978) condensati in due ore di film. Quelli in cui Bob, dopo essere sopravvissuto a un attentato in Giamaica, parte per Londra dove registra EXODUS, l’album del successo internazionale. Solo che il nostro film si limita appena a “flirtare” con la complessità per scivolare nella banalità del culto dell’eroe. Quello che succede prima (l’educazione sentimentale e musicale di Bob e la crescita impetuosa del reggae fino a diventare una forma d’arte e insieme uno strumento di comunicazione popolare) è affidato qua e là a una manciata di flashback. E può succedere che un brano come Get Up Stand Up, che Chuck D dei Public Enemy ha definito “un grido di guerra contro l’oppressione”, finisca per diventare un generico needle drop, come dicono a Hollywood quando una canzone nota viene utilizzata per creare una certa atmosfera.
Nel film si parla molto invece di EXODUS, uscito nel 1977 e definito da «Time Magazine» “il miglior album del XX secolo”. Ma Marley ha venduto una montagna di dischi: 25 milioni solo con la compilation postuma di LEGEND, uno dei dischi più venduti dal 1984 a oggi; e il «New York Times» considerava addirittura Bob Marley “l’artista più influente della seconda metà del XX secolo”. A quasi 20 anni dalla morte dell’artista, fu proprio con il brano One Love, “inno del millennio”, che la BBC celebrava il passaggio all’anno 2000. Un enorme successo, il suo, costruito in soli sette anni, tra il 1973 (quando i Wailers presentano a Londra CATCH A FIRE) e il 1980, quando un tumore costringe Marley a smettere di cantare prima di portargli via la vita l’11 maggio 1981. Sette anni durante i quali Marley ha girato i quattro angoli del mondo: l’Europa con la mitica data di San Siro, e poi gli Stati Uniti, l’Australia, il Giappone, l’Africa. È così che è diventato un’“icona”, un “ribelle”, una “leggenda”. Linton Kwesi Johnson lo definisce il “Che Guevara della cultura popolare”, e non a caso il brano Zimbabwe, dall’album SURVIVAL, è stato per anni l’inno dei guerriglieri del Paese africano che combattevano contro i colonizzatori inglesi, e la cui
vittoria Marley volle celebrare nel 1980 con un doppio memorabile concerto. Le sue canzoni sono arrivate fino a Berlino durante la caduta del Muro. E qualcuno ha ascoltato Get Up Stand Up e visto il suo ritratto anche durante le proteste di piazza Tiananmen, in Cina, nel 1989. Da dove viene questo suo straordinario carisma? Intanto, dalla sua personalità di rockstar ribelle: bello, affascinante, grande fumatore di ganja, ma anche grande lavoratore e soprattutto musicista immenso. Perché la musica è libertà. “Il bello della musica”, dice Bob, “è che quando ti colpisce, non senti dolore”. Anzi, ti aiuta a star bene. E soprattutto, perché nella sua musica non c’è mai nostalgia, dal momento che parla di problemi sempre attuali come la povertà, il razzismo, la guerra, lo sfruttamento, il bisogno d’amore. E a proposito d’amore, fanno parte del suo repertorio anche le grandi ballate senza tempo come No Woman No Cry e Redemption Song. La prima, dedicata alla sua Rita e alla loro giovinezza povera nel ghetto di Kingston, è diventata, grazie anche alla bellezza tenera della sua melodia, quasi una preghiera, intima quanto universale. Mentre la seconda, Redemption Song, ci porta nel cuore della sua vita in Giamaica e del suo messaggio. Un canto segnato da secoli di oppressione e razzismo, che troverà tuttavia conforto e riscatto prima nel messaggio libertario e profetico di Marcus Garvey e poi nel Rastafarismo, movimento religioso che recupera dalla Bibbia la storia di un popolo eletto che Dio riporterà nella Terra Promessa dopo il tempo dell’esodo e delle catene. Il popolo è quello dei discendenti degli schiavi, mentre Dio è Jah Rastafari (poi imperatore Hailé Selassié) e la Terra Promessa è l’Africa. “Sia il reggae che Marley”, ha detto una volta Rita Marley, “sono nati qui in Giamaica e hanno viaggiato insieme per il mondo”. Ed è tutto questo insieme che crea l’intensità e la profondità, politica e mistica, del suo messaggio, che dà alla sua voce quel respiro potente e profetico. Kingsley BenAdir, Marley nel film, definisce la presenza di Bob sul palco come “ultraterrena”, “proveniente da un altro mondo”. A raccontare questo passato lontano ma ancora assolutamente vivo, sarà proprio EXODUS, l’album più religioso e il primo ad avere un successo internazionale. E nel film di Green vediamo un promoter della Island Records domandarsi preoccupato com’è possibile vendere un disco con quel titolo biblico riportato in copertina con l’antica calligrafia amarica. Effettivamente, era difficile immaginarlo, così come difficile era immaginare che i primi ad amare quella musica fatta con tastiere da chiesa su una ritmica militante sarebbero stati i punk e gli skinhead. Perché in quelle canzoni, la voce di Marley diventa la voce di tutti i “sofferenti”, la voce che arriva a tutti perché è militante senza essere di parte e mistica senza fare proseliti. Vuole solo diffondere quello che considera il cuore del suo messaggio: l’amore (“One Love”!), la redenzione, la lotta per la giustizia: affinché altri possano riprenderla, quella lotta, e farla propria. E probabilmente è Redemption Song, l’ultima traccia del suo ultimo album (un inno chitarra-voce di grande semplicità e verità), che riassume al meglio quel messaggio: “Emancipatevi dalla schiavitù mentale / Aiutateci a cantare questi canti di libertà / Questi canti di Redenzione”. Non a caso, è anche il brano che chiude il film, il suo addio e il suo lascito. E quando qualcuno gli chiede quanto tempo ha impiegato a scrivere quella canzone, Bob risponde: “È da tutta la vita che ci lavoro”.
«Il bello della musica è che quando ti colpisce non senti dolore»