DE MANAGERIBUS
Gli esperti ci informano che quando premiamo il tasto "accetto" per scaricare un'APP, contemporaneamente sottoscriviamo decine di contratti che nessuno di noi leggerà mai, perché ciascun contratto è lungo come un libro di Harry Potter e scritto con un linguaggio della difficoltà pari a quella de Il Principe di Machiavelli. Per il primo ostacolo occorre solo armarsi di pazienza, ma per il secondo potremmo trovare una soluzione efficace leggendo il libro De Manageribus di Mario Andrea Sarasso, ingegnere torinese con lunga esperienza nel gruppo Fiat di Ghidella e Romiti.
L'autore ci offre una soluzione valida per comprendere il mondo che Machiavelli descrive nel suo De Principatibus, ricontestualizzando e ricollocando le tecniche e le azioni necessarie a raggiungere il potere e a mantenerlo, nei santuari della nostra contemporaneità quali le organizzazioni produttive aziendali. Potremmo definire il lavoro di Sarasso con una serie di encomi tra cui due spiccano tra tutti: affascinante e divertente. A ben vedere però, dopo un'analisi più approfondita il libro appare indubbiamente irriverente, ma anche impertinente. Dopo essersi cimentato con la letteratura del '700, passando per una rilettura dell'Eugenie di De Sade sempre in chiave di consigli esperti ai giovani aspiranti manager, Sarasso passa in rassegna capitolo per capitolo il Principe sia alla ricerca di categorie universali e sia addirittura come forma di educazione per salvarsi negli ambienti difficili del lavoro. L'autore, quindi, parla di Machiavelli fino a un certo punto, così come parla dell'azienda fino a un certo punto.
Ad esempio, in questo libro il nostro autore richiama la scelleratezza della durezza del mondo aziendale e, anche in modo divertente, richiama cosa possa capitare di fronte a una macchinetta del caffè, cose che noi, esseri umani senza esperienza di azienda, non abbiamo mai visto. E cosa può capitare quando l'emorragia di liquidità aziendale comporta delle vere e proprie mattanze?
Come nell'esempio dell'imprenditore che invita tutti i suoi dirigenti, prima delle ferie, nella sua villa in un paesino della Calabria accogliendoli con grande ospitalità, per poi, pochi giorni dopo, spedire loro la lettera di licenziamento. Quasi una scena del film Il Padrino. Questi elementi portano il nostro autore a esagerare il tema del male che c'è nell'azienda e nella Storia. Ma da qui Sarasso ci introduce nel nodo centrale del trattato del fiorentino: il famoso capitolo ottavo del Principe, quello più sub iudicii, quello in cui si pone la domanda se sia opportuno o meno, per il Principe, usare il male.
Nell'ambito della filosofia politica di Machiavelli la questione di come usare il male è centrale. Occorre sempre ricordare che Machiavelli ha scritto questo libro per motivi squisitamente politici personali. Fu cacciato dopo la caduta della repubblica di Soderini a seguito del rientro dei Medici. Deve trovare lavoro e quindi deve ricollocarsi, come succede per parecchi politici contemporanei, specie quando i confini delle ideologie sono laschi, generici. La domanda che si poneva Machiavelli era: come poter lavorare con i Medici? Ma Machiavelli viene dalla cultura repubblicana molto forte, molto seria, non affatto scettica. Il pensiero repubblicano di Machiavelli deve però fare i conti con il pensiero mediceo aristocratico e cattolico, cioè con il pensiero di coloro che Machiavelli ha sempre considerato come avversari.
Quindi Machiavelli, quando si pone la domanda del male, della scelleratezza, ne riconosce la necessità fino a un certo punto, fino a quando è indispensabile. La Scolastica parla della naturalis necessitas, la necessità naturale del male: con la distinzione del male utile e del male non utile, che poi è il sadismo, che l'autore commenta nel capitolo ottavo. Infatti, Machiavelli fa un discorso geniale perché, dice,
anche un Cesare Borgia, cioè anche l'uomo scellerato che fa del male per ottenere il potere, deve avere un Remedium animae. Un concetto affascinante che è fondamentalmente la catarsi dell'uomo che deve pentirsi riguardo al male commesso. E questo pentimento però non è individuale, ma è nella costruzione della res publicae.
A Padova possiamo vedere il capolavoro di Giotto nella Cappella degli Scrovegni che racconta di un personaggio che ha pagato per togliere dal curriculum della formazione del suo patrimonio l'usura, così che, in qualche modo, la contiene. E il capitalismo fa la stessa cosa a metà dell'Ottocento: si pensi all'utilitarismo di Bentham. Con quali domande? Cosa ha l'operaio in cambio del suo lavoro? Il salario. Cosa ha il capitalista in cambio del suo lavoro? L'ascesi. Poiché il capitale non deve essere mai dissipato, deve nascere una struttura non visibile, che è l'impresa, dove il capitale è intoccabile. E perché? Perché è la culpa della remedium animae che in questo caso non va bonificata con il mettersi in ginocchio davanti al crocifisso, ma con la costituzione della stessa entità imprenditoriale.
Allora il capitalismo si costituisce sulla idea machiavellica della Res publica, non in quanto scellerato, ma perché è in grado di costruire entità che superano il mercato del baratto. Mario Sarasso nel De Manageribus lo sa, ma non lo dice perché è impertinente. Lui è interessato soltanto a dire: «Il male c'è in azienda» e quindi dovete essere pronti anche ad atti estremi se volete sopravvivere in azienda. Dice così perché è uno scrittore e non un saggista.
Il bello del libro è proprio questo: vi insegnerà molte cose, ma soprattutto, nella sua forza di metafora. Consiglio il libro perché dal punto di vista della veste editoriale è prezioso e dal punto di vista della lettura vi affascinerà perché vi renderà più intelligenti, anche a vostra insaputa.