THE ORIENT EXPRESS
Sulla scia dello straordinario successo ottenuto dall’album MACHINE HEAD, nel 1972 i Deep Purple pubblicarono MADE IN JAPAN, pietra miliare dei dischi hard rock registrati dal vivo. Ma, nel 1973, la loro ascesa subì una drammatica battuta d’arresto. Le personalità di alcuni membri della band entrarono in collisione e una serie di insulsi dispetti spinsero il cantante Ian Gillan e il bassista Roger Glover ad abbandonare il gruppo...
Tra il 1970 e il 1972, i Deep Purple vivono più sul palco che altrove. Il super tour del 1972, per esempio, inizia il 3 gennaio e termina il 16 dicembre, portandoli in Europa, Stati Uniti, Canada e Giappone, senza soluzione di continuità e, ovviamente, saltando da un continente all’altro in modo del tutto irrazionale. La nostra storia inizia il 15 agosto del 1972, a Osaka, Giappone, nella sala concerti del Kosei Nenkin Kaikan. È la prima volta che i Deep Purple si esibiscono nel Paese del Sol Levante. Dal vivo, la band dà il meglio di sé. Con musicisti di talento come il chitarrista Ritchie Blackmore, il tastierista Jon Lord e il batterista Ian Paice, che sapevano lanciarsi in spericolati ed entusiasmanti fuori-pista musicali, le cose andavano ben oltre l’immaginazione, generando momenti irripetibili. Ma il 15 agosto 1972, i Deep Purple decidono di non strafare. Nelle settimane precedenti avevano suonato per il familiare pubblico europeo e americano: il Giappone dava invece loro la sensazione di essere in un luogo estraneo e dove la gente era quantomeno... strana. Quando Gillan, Blackmore, Lord, Glover e Paice salirono uno dopo l’altro sul palco, vennero accolti da un applauso scrosciante che terminò bruscamente non appena presero in mano gli strumenti. L’improvviso stop degli applausi era una forma di rispetto: il pubblico nipponico è noto per l’impeccabile contegno ma quarant’anni fa nessuno ne sapeva un accidente.
Lo show cominciò prima del previsto, alle sei del pomeriggio, con una rullata di Ian Paice seguita da un fraseggio di Jon Lord: Highway Star era partita, accolta da un garbato e breve applauso. Anche un tipo piuttosto difficile da impressionare come Blackmore appariva confuso e sembrava nascondersi. Il gruppo voleva a tutti i costi fare fuoco e fiamme e non solo per soddisfare la gente, ma anche perché lo show sarebbe stato registrato.
CAOS EFFECT
Abbiamo chiesto come andarono le cose al bassista Roger Glover che, rispondendo al telefono della sua casa in Svizzera, ci ha spiegato: «Non avevamo mai registrato un disco dal vivo prima. C’era stata qualche prova, cioè qualche registrazione bootleg, ma il suono era orribile. Quindi a Osaka eravamo meno esuberanti del solito: niente fuochi d’artificio come al solito ma grande concentrazione, per evitare errori». Credeteci o no, a quarant’anni di distanza nella sua voce si sente ancora un velo di tensione. Per fortuna, la rete di salvataggio c’era: avrebbero registrato anche il concerto del 16 agosto. Come si comportò la band il 16 agosto? «Smettemmo di preoccuparci e dimenticammo che stavamo facendo un disco. Pensammo: suoniamo e basta. Ecco perché la maggior parte dei pezzi registrati arriva dalla seconda serata: eravamo spontanei e indiavolati». L’album di cui parla Glover è il celebre MADE IN
JAPAN, che in Inghilterra uscì nel dicembre di quell’anno e, negli Stati Uniti, nell’aprile del 1973. Considerato uno dei più bei dischi rock live di tutti i tempi, è anche uno spartiacque fondamentale nella storia dei Deep Purple: le performance sono all’apice della perfezione eppure, paradossalmente, il quintetto sta indugiando pericolosamente sul baratro dell’autodistruzione. Perché? La situazione, nell’agosto del 1972, era piuttosto delicata: la band aveva raggiunto il successo internazionale ma gli scontri di personalità e la discutibile gestione del management avevano creato quello che Ian Gillan definisce «un effetto caos», ovvero una serie di reazioni che fecero saltare ogni equilibrio.
«Ci incontrammo al momento giusto e l’intesa fra di noi fu perfetta sin dal primo istante» ricorda Gillan che, tra il 1966 e il 1969, suonò negli
Episode Six con il bassista Roger Glover. Entrambi si unirono ai Deep Purple per realizzare IN ROCK, che in Gran Bretagna vendette un milione di copie. Gillan, in quel periodo, trovò anche il tempo di partecipare al progetto del disco di JESUS CHRIST SUPERSTAR, interpretando il ruolo di Gesù; l’album uscì nel settembre del 1970, tre mesi dopo IN ROCK. «Se c’è una cosa per cui nessuno è preparato, è il successo» continua il saggio “Jesus” Gillan, «All’improvviso un sacco di elementi estranei invasero lo spazio intorno a noi. Si trattava di quel genere di cose che modificano la personalità e il carattere dell’individuo. Di conseguenza anche l’amalgama che caratterizzava il gruppo cambiò».
LA SANTA TRINITÀ DEL METAL
C’è una persona che possiede una visione chiara di come andarono le cose in Giappone: è il tour manager Colin Hart, che seguì la band in terra nipponica. Hart è in grado di descrivere con poche parole l’ascesa e la rovinosa caduta della line up Mark II: «Furono giorni fantastici. I ragazzi erano sulla cresta dell’onda, la loro fama cresceva ovunque, erano popolarissimi e vendevano quintali di dischi. Probabilmente il 1972 è
stato uno dei migliori anni tra quelli che ho trascorso a fare il tour manager, per lo meno in termini di eccitazione e divertimento. Poi, all’improvviso, tutto andò affanculo». Nessuno fuori dal gruppo si accorse che la fine era imminente, alla fine del 1972. D’altro canto, quando Gillan e Glover arrivarono nel 1969 per sostituire il cantante Rod Evans e il bassita Nick Simper, la carriera dei Deep Purple ebbe una fantastica impennata che sembrava inarrestabile.
Il quarto album registrato in studio, il citato IN ROCK, posizionò il gruppo a fianco dei Led Zeppelin in quella Santa Trinità di band, Deep Purple, Led Zeppelin e Black Sabbath, che stava forgiando il rock duro dei primi anni Settanta. Nessuno, forse neanche l’irriverente giornalista Lester Bangs, aveva ancora usato la definizione “heavy metal”, ma di questo si trattava, anche se all’epoca si parlava semplicemente di rock senza frontiere. Duro, aspro e certamente aggressivo, ma al di là di metafore, allegorie o raffigurazioni fantasiose, si trattava di musica suonata bene. «No, non c’era un genere» dice Gillan, «non c’erano strutture predefinite o griglie di alcun tipo. Potevi fare ciò che ti pareva». In effetti, i Purple facevano ciò che volevano, soprattutto sul palco. Le loro performance live erano l’anello di congiunzione tra la grande abilità dei Led Zeppelin di improvvisare a ruota libera e la potenza distruttiva degli Who: spesso lo zenith dei concerti veniva raggiunto quando, dopo lunghi ed eccitanti assoli, Ritchie Blackmore frantumava chitarra e amplificatori. «Lottiamo per provocare una reazione nel pubblico» disse, vantandosi, il chitarrista, nel 1971. I Deep Purple sono sempre stati un contenitore di personalità ad alto tasso di combustione e l’arrivo di Gillan aggiunse un formidabile ego alla miscela. Quando uscì FIREBALL, nel luglio del 1971, le tensioni tra il suscettibile cantante e il caustico chitarrista cominciarono a diventare evidenti.
PEACEKEEPER
«Ian Gillan è una persona viscerale» dice Roger Glover, «Sarebbe capace di denudarsi e buttarsi in un fiume in piena, se l’idea lo attira. L’antitesi del modo di comportarsi di Ritchie Blackmore. Per FIREBALL, Ritchie aveva in mente delle melodie che Ian non voleva cantare e che non cantò. Ritchie si sentiva enormemente frustrato. Voleva un maggiore controllo operativo. Ma si dà il caso che fossimo una band democratica ed è difficile esercitare una qualsiasi forma di controllo in una democrazia, a meno che non la trasformi in una dittatura. Credo sia
Deep Purple Mark II al completo, da sinistra a destra: Ritchie Blackmore, Ian Gillan, Roger Glover, Jon Lord e Ian Paice
così...». Glover vestì i panni del mediatore che cercava di far andare d’accordo il cantante e il chitarrista. «Di solito Roger interpretava il ruolo del paciere» ricorda Colin Hart, «Diventava molto, molto preoccupato quando le cose non andavano per il verso giusto. Se la prendeva davvero a cuore».
SMOKE ON THE WATER
L’inasprirsi dei contrasti lasciava presupporre che il successivo album dei Deep Purple sarebbe stato un disastro. I peggiori auspici divennero realtà quando le sessioni di registrazione, pianificate per il novembre del 1971, furono rimandate per motivi di salute: Ian Gillan aveva contratto l’epatite durante il recente tour negli Stati Uniti. La band aveva deciso di registrare al Casino di Montreux, in Svizzera, ma si dovette optare per un’altra soluzione: il 4 dicembre 1971 il Casino andò a fuoco durante il concerto di Frank Zappa & Mothers of Invention. Gillan e Glover erano presenti; riuscirono a trarsi in salvo e, una volta in strada, osservarono le fiamme che salivano verso il cielo e i fumi che aleggiavano sulle acque del Lago Ginevra, trovando lì l’ispirazione per scrivere Smoke On The Water. MACHINE HEAD viene registrato nei sobborghi di Montreux, al Grand Hotel, che in quel periodo ha la chiusura stagionale.
Uscì nel marzo del 1972 e, per la prima volta, portò i Deep Purple nella Top 10 statunitense. Resterà in classifica per due anni. La band che volò in Giappone a metà anno era ai vertici del successo commerciale e ai massimi livelli artistici. Glover commenta :«Non volevamo seguire le orme degli altri. Se ti accodi sarai, nel migliore dei casi, secondo a qualcuno. Devi seguire la tua strada senza voltarti mai indietro. È il cammino che porta una band alla gloria».
VACANZE ROMANE
Lo strepitoso successo di MACHINE HEAD risolse solo parzialmente i problemi interni. Sulla carta, il debutto giapponese, previsto da tempo per il mese di agosto, avrebbe dovuto essere preceduto dalla registrazione del nuovo disco di inediti. Il management decise di trasformare temporaneamente in sala d’incisione una bella villa nei pressi di Roma. Oggi, Ian GiIllan digrigna i denti quando ripensa a quelle session. «Ma quali session? Eravamo lì, in piena estate, in questo palazzotto italiano senza aria condizionata... pareva di essere in un bagno turco. Ritchie non si degnò di presentarsi. Aspettammo per due settimane. Un bel giorno arrivò e scoprimmo che alloggiava in un hotel dall’altra parte della città. Perché non si faceva vivo, ti chiederai? Bé, voleva essere lui a decidere quando era il momento di suonare e chi avrebbe suonato e bla bla bla... La sua megalomania aveva sfondato il soffitto». Durante le tre settimane di ‘vacanze romane’, i Purple registrarono due pezzi e solo uno di questi fu usato per diventare Woman From Tokyo.
La tensione era palpabile quando l’aereo del quintetto atterrò in Giappone. Messo piede al suolo, la band si rese conto che quel posto era ‘davvero’ diverso. «Ero stupito» ricorda Gillan a proposito di questo primo viaggio, «Imparai una quantità di cose che aprirono i miei occhi. Le pratiche dell’inchino e della cortesia, l’umiltà... erano esperienze edificanti per lo spirito. Fu incredibile».
«Ritchie voleva decidere quando era il momento di suonare e chi avrebbe suonato e bla bla bla... La sua megalomania aveva sfondato il soffitto» Ian Gillan
SOAPLANDS
Oltre agli aspetti squisitamente filosofici, i musicisti e la crew ebbero modo di assaporare altri usi e costumi locali, ad esempio nelle saune, che all’epoca venivano anche chiamate ‘soaplands’, terre del sapone, dove le rock band straniere venivano deliziate da geishe in kimono che proponevano uno speciale lavaggio del corpo. Queste saune vennero chiuse al pubblico non giapponese nei primi anni Ottanta, quando si diffuse il flagello dell’AIDS. «Sì, c’erano certi club dove, se eri una rock band straniera, ti facevano sentire re per una notte» dice Gillan e aggiunge: «Un sacco di ragazze ovunque».
«Oh bé, trassi parecchi vantaggi dalle offerte che arrivavano dal promoter, il signor Udo» dice sogghignando Colin Hart, «Si prendeva cura di chiunque facesse parte della band e della crew. Pranzi e saune. Non pensare male: era una cosa molto rispettabile. Le donne entravano e sfilavano davanti a te.
Era superbo». Ovviamente i Purple non erano andati dall’altra parte del mondo solo per farsi massaggiare dalle mani delle geishe o per mangiare chili di sushi: c’era del lavoro da fare, al teatro Budokan di Tokyo e al Kosei Nenkin di Osaka. L’etichetta Warner aveva detto ai Deep Purple: perché non registrare un disco dal vivo in Giappone e capitalizzare così il crescente interesse che i nipponici nutrono per il rock duro, passione nata l’anno prima, con il primo japanese tour dei Led Zeppelin?
La band era scettica. Ian Paice: «Dicemmo che avremmo accettato a una condizione: volevamo il controllo totale di ogni cosa. Ritenevamo opportuno, inoltre, far uscire il disco solo in Giappone. Infine, avremmo ascoltato il risultato delle registrazioni e noi, soltanto noi intendo, saremmo stati autorizzati a dire: “Ferma il nastro: qui c’è qualcosa di buono”».
Il disco fu mixato con il produttore Martin Birch. Per una volta non ci furono litigi e tutti concordarono che il suono doveva essere spontaneo e non artefatto.
Ci fu una, e soltanto una, sovraincisione. «Alla fine del primo grande crescendo di Child In Time c’è un momento in cui la musica si ferma e si apre un assoluto silenzio» spiega Roger Glover «Pensammo: “Questo vuoto non suona molto ‘live’” così aggiungemmo un po’ di rumore del pubblico. Tutto qui. Il resto che senti è esattamente ciò che suonammo». Una volta ascoltato il prodotto finito, i cinque rocker si accorsero che non avrebbe avuto senso limitare le vendite del doppio LP al solo mercato giapponese. Glover dice: «Contattammo il management: “Questa roba è eccellente. Vogliamo che sia venduta dappertutto!».
SOLTANTO UN ALTRO DISCO DAL VIVO?
Il titolo del doppio album dal vivo era un rimando alla cultura giapponese che aveva ispirato i Deep Purple. Nel 1972 il Giappone si stava ancora riprendendo dalla Seconda Guerra Mondiale e l’industria di quel paese era sinonimo di prodotti economici e inaffidabili, come le varie imitazioni di macchine fotografiche e
orologi. «In Inghilterra l’etichetta “Made In Japan” equivaleva a dire “di scarso valore”» conferma timidamente Gillan, «Scegliemmo quel titolo per gioco, era come dire: abbiamo fatto un prodotto di scarso valore, perché si tratta soltanto di un disco dal vivo. D’altra parte tutti ci avevano detto che stavamo soltanto perdendo tempo».
Era vero l’opposto. Quando MADE IN JAPAN uscì in Gran Bretagna, nel dicembre 1972, fu una rivelazione. Naturalmente non era la prima volta che usciva un disco rock live. C’erano stati album memorabili come GET YER YA-YA’S OUT! dei Rolling Stones e LIVE AT LEEDS degli Who. Ma perché abbiamo parlato di rivelazione? Semplice: perché con MADE IN JAPAN per la prima volta una band hard rock ottenne un risultato in cui l’energia creativa era al massimo livello. I Deep Purple non saranno mai più così ispirati e coesi.
Questo perché il gruppo arricchì ogni singola canzone, rendendola più lunga, più veloce, più sorprendente. L’ascolto di quei pezzi proietta oltre gli angusti confini del pop rock basato su strofa-ritornello-strofa, manda in orbita. L’apoteosi di ciò che il vero rock è e deve essere, nella sua genesi e sviluppo, una pietra miliare per ciò che lo seguirà nel futuro.
IAN GILLAN SI LICENZIA
I fan entusiasti dei Deep Purple esultarono per l’arrivo di MADE IN JAPAN. Nessuno poteva immaginare che, in quegli stessi giorni, Ian Gillan si stava preparando ad abbandonare il gruppo, stilando una lettera di dimissioni che consegnò il 7 dicembre 1972, dopo un concerto soldout all’Hara Arena di Dayton (Ohio) in cui, oltre alla band, avevano suonato anche Fleetwood Mac e Blue Öyster Cult. «Nessuno mi rispose» dice oggi Gillan, «Niente, nemmeno una telefonata. Probabilmente pensarono: “Grazie a Dio si è tolto dai piedi”. Questo mi fece supporre che era davvero arrivato il momento di levare le tende».
SPAGHETTI INCIDENT
Che tipo di persona era Ritchie Blackmore nei primi anni Settanta? Se lo chiedete a
Roger Glover e a Ian Gillan, avrete due ritratti completamente diversi. Glover: «Ritchie è sempre stato un tipo nervoso e irritabile. Ti mette nella condizione di pensare che lui sa qualcosa che non sai oppure che ti sta giudicando male. Se entra in una stanza, l’atmosfera cambia. È la sua magia. È una di quelle persone circondate da un’aura speciale. Quando sale sul palco non puoi staccare gli occhi da lui. Ha sempre avuto un perfido senso dello humor, ama fare scherzi e offendere. Sì, gli piace proprio offendere». «Era un vero stronzo, diciamolo una volta per tutte!» taglia corto Gillan che tuttavia insiste: lui lasciò i Deep Purple per problemi con il management e non con il recalcitrante chitarrista, «Fu tutto ciò che accadeva dietro le quinte a scioccarmi. Non avrei potuto continuare a lavorare con gente che mi diceva “non sei nessuno”». Cinque giorni dopo il tour giapponese, i Purple erano di nuovo on the road negli Stati Uniti. A seguire, un altro tour britannico. Finalmente, alla fine di ottobre, i cinque stacanovisti si concesero due tranquille settimane, di lavoro non di vacanza, in un residence nei pressi di Francoforte per terminare il successivo album della line up Mark II, WHO DO WE THINK WE ARE. «I rapporti tra Blackmore e Gillan, a quel punto, erano totalmente compromessi» ricorda Glover, «Non si parlavano più». Il malessere contagiò il disco. Il primo pezzo, Woman From Tokyo, è notevole ma il resto non è paragonabile al passato. 1973
Nonostante abbia oramai rassegnato le dimissioni, Gillan accetta di restare con il gruppo per i concerti del 1973, a patto che lui e Blackmore abbiano ognuno un proprio road manager. Ma questa opzione non diminusce la reciproca antipatia tra i due musicisti e gli episodi disdicevoli, ai limiti del puerile, si moltiplicano. Un esempio? Ce lo racconta Colin Hart: «Il 7 giugno 1973 eravamo al Cloverleaf Speedway di Cleveland, Ohio. Il concerto era finito e Ian stava chiacchierando con alcuni amici. Arrivò Ritchie, prese un piatto di spaghetti conditi e lo spalmò sulla faccia di Ian. Per un lunghissimo istante, nessuno mosse un muscolo. Ci aspettavamo un’esplosione di collera, ma non ci fu. Gillan, senza scomporsi e con tutta calma, liberò giusto gli occhi dagli spaghetti e continuò a conversare come se nulla fosse accaduto». Dopo questo ‘spaghetti incident’, Gillan prese definitivamente le distanze dai suoi colleghi: viaggi aerei separati, alberghi diversi, si teneva a debita distanza sino all’inizio dello show. In tour era costantemente accompagnato dalla sua fidanzata, Zoe. Secondo Colin Hart erano una coppia à la John Lennon e Yoko Ono: «Era una tipa strana, non diceva una parola e questo le dava un’aura quasi spettrale». Ripensando al passato, Gillan minimizza: «Il successo amplifica qualsiasi cosa. Sono stato uno stronzo tanto quanto Ritchie, se non di più, in particolare nell’ambito delle relazioni personali». Gillan non fu l’unico
«Blackmore era un vero stronzo, possiamo finalmente dirlo una volta per tutte!» Ian Gillan
a pensare di mollare il gruppo: per qualche tempo Roger Glover fu convinto che anche Blackmore e Paice fossero sul punto di andare via. «Ritchie si trastullò con l’idea di formare una band con Phil Lynott dei Thin Lizzy. Aveva in mente un trio (vedi box, ndr)». Glover racconta inoltre che i manager della band, Tony Edwards e John Coletta, gli chiesero se c’era un modo per dissuadere Paice dall’andare via. Loro avrebbero reclutato un nuovo cantante e un nuovo chitarrista. «Per quanto ne so io, questo era il piano» aggiunge Glover, «Così Jon e io parlammo con Paice, per capire cos’avesse intenzione di fare. Il batterista rispose: “Ci sto pensando”».
IL LICENZIAMENTO DI ROGER
L’ultimo concerto dei Deep Purple con Ian Gillan alla voce si tiene a Osaka, il 29 giugno 1973. Blackmore prende una decisione arbitraria: quello sarà l’ultimo show anche per Roger Glover. «Credo che Ritchie volesse nel gruppo un bassista più spericolato, un vero virtuoso» commenta Glover, «Qualcuno che fosse anche in grado di cantare. Ritchie aveva bisogno di cambiare qualcosa nel gruppo, questa è la vera ragione del suo comportamento. Cercava impulsi e stimoli nuovi. A mio parere, la fuoriuscita di Gillan portò Ritchie a vedere nuove opportunità di sviluppo dei Deep Purple e quindi mi fece fuori». La notte dell’ultimo concerto, Glover passò vicino a Blackmore sulle scale che conducevano al palco. I due non si parlavano da giorni. Il chitarrista guardò il (quasi) ex-collega e gli disse: «Niente di personale, è solo business». Oggi Glover ammette senza mezzi termini che la brutale decisione di Blackmore fu devastante. Colin Hart ricorda di aver visto il bassista, seduto sul pavimento dopo il concerto di Osaka: era assolutamente inconsolabile. «Jon Lord e Ian Paice erano scolvolti» ricorda Hart, «Provarono in qualche modo a confortare Roger».
«Fu davvero dura» ammette Glover, «Non la presi bene. Avevo lavorato duramente per la band. La mia vita era cambiata, le cose andavano molto bene e, all’improvviso, mi mancava la terra sotto ai piedi. Ero depresso». Gillan, nel frattempo, aveva reazioni completamente diverse.
Era andato in scena con una bella giacca bianca, aveva fatto buona parte del concerto con le mani in tasca, sfoderando un ampio sorriso. «Triste io? macché!» dice, «Mi ero liberato di un peso. Sono cose difficili da spiegare ma l’infelicità è una cosa potente: se quella sera ero così allegro è perché ero stato infelice a lungo e, per la prima volta dopo tanto tempo, non mi sentivo male».
LA FINE DI MARK II?
Ian Paice e Jon Lord conservarono qualche speranza di risolvere la situazione durante il viaggio di ritorno a Londra. Ma Ian Gillan e la sua Zoe viaggiavano separatamente. E Glover era un relitto. I fantasmagorici Mark II erano finiti. «Ci volle del tempo perché mi rendessi conto che Ian e Roger non sarebbero più stati con noi» dice Paice, che il giorno del concerto di Osaka aveva compiuto 25 anni, «Ero il più giovane nel gruppo. Non me ne sarei andato solo perché due membri della band erano stati allontanati. Ma mi sentivo davvero male per Roger». Oggi sappiamo che la storia della line up Mark II non finì il 29 giugno 1973 ma gli splendori di MADE IN JAPAN non saranno più replicati: quel disco cambiò la percezione che la gente aveva degli album live MADE IN JAPAN è un’opera fondamentale per milioni di persone. Anche Roger Glover, di tanto in tanto, se lo riascolta dall’inizio alla fine: «Continua a piacermi. È bello riscoprire cose che avevo dimenticato. Quell’istante in cui tutti si guardano e, senza parole, capiscono quando attaccare».