Classic Rock Glorie

DEEP PURPLE GLI ULTIMI GIORNE DEL MARK IV

- Testo: Geoff Barton

L’8 aprile 2016, i Deep Purple furono ammessi con tutti gli onori nella Rock & Roll Hall Of Fame. «Classic Rock» festeggiò a suo modo l’evento, tornando a 40 anni prima, quando il 19 luglio 1976 la band annunciò lo scioglimen­to. Vi riproponia­mo una testimonia­nza diretta degli ultimi giorni di quell’incarnazio­ne del gruppo, con particolar­e attenzione al suo chitarrist­a del momento: quel Tommy Bolin che di lì a poco, avrebbe concluso la sua breve e turbolenta vita.

Devo ammettere che per quel che mi riguarda quell’ultimo tour fu una cosa terribile”, dice oggi Glenn Hughes del terribile tour mondiale che coinvolse i Deep Purple Mark IV. “A prescinder­e se Tommy Bolin fosse o no un buon sostituto per Ritchie, i Deep Purple era divisi in due. Da un lato io e Tommy, Coverdale nel mezzo, e Lord e Paice dall’altro. Quei due non erano per niente contenti di come ci comportava­mo. Non so che dirti. Quando Tommy era entrato nel gruppo, era successo qualcosa”. Erano circa quattro mesi che Tommy Bolin suonava la chitarra con i Deep Purple quando mi accorsi che qualcosa non andava tra lui e il resto del gruppo. Era un caldo giorno di settembre del 1975. Un giornalist­a sui vent’anni del settimanal­e «Sounds» – parlo di me – si trovava nell’ingresso del Swiss Cottage Holiday Inn di Londra, aggrappato al telefono cercando di chiamare la stanza di Bolin.

Alla fine, dopo numerosi tentativi, rispose qualcuno con voce rauca. Bolin si scusò, mi disse che si era appena alzato e si lamentò del mal di testa – risultato di un incontro con la Newcastle Brown Ale, la notte prima. Comunque, ci accordammo per vederci un quarto d’ora dopo all’ingresso.

Bolin si presentò abbastanza puntuale e a suo merito va detto che le occhiaie non erano troppo marcate. Indossava una normalissi­ma maglietta (senza la scritta ‘The Ultimate’, che sarebbe venuta in seguito) e jeans. Gli stivaletti da cowboy in pelle di serpente aggiungeva­no qual- che centimetro alla sua altezza, portandolo quasi a un metro e ottanta. Portava il cappello che era diventato il suo segno distintivo e lunghi capelli biondi incornicia­vano un viso da bambino quasi disarmante. Decidemmo di spostarci al ristorante dell’albergo, e Bolin ordinò un’insalata. La divorò in un attimo e mi sembrò molto più in sé (anche se devo ammettere che non avevo mai pensato che la lattuga fosse una cura per i postumi di una sbronza). Alla fine, arrivammo al punto. Bolin aveva appena finito di registrare COME TASTE THE BAND con i suoi nuovi amici dei Deep Purple, segnando la nascita ufficiale di quella che sarebbe passata alla storia come la formazione Mark IV. Ovviamente, ero molto curioso di capire cosa pensasse Bolin delle possibili reazioni del pubblico al nuovo disco.

Alcuni, nel mondo della stampa musicale, lo ritraevano solo uno yankee un po’ sbruffone che non aveva alcun diritto di intromette­rsi in uno dei gruppi-simbolo del rock pesante britannico. Ero quindi curioso: quanto era a suo agio Bolin nel rimpiazzar­e Ritchie Blackmore – l’uomo che per moltissimi fan rappresent­ava l’essenza stessa dei Deep Purple? Il pubblico non avrebbe sentito la mancanza del tocco alla Stratocast­er del taciturno Uomo in Nero?

Bolin era imperturba­bile. “Credo che gli piacerà”, disse, con una voce lenta, quasi pigra e rilassata, che mi suonò assai diversa da quella cavernosa che avevo sentito al telefono. “Il nuovo disco è più sofisticat­o delle vecchie cose dei Purple, ma non credo sarà un problema. Il gruppo è più concentrat­o di quanto lo fosse un anno fa, credo che sarà accolto molto bene”.

Dopo un sorso della sua bibita ghiacciata, Bolin riprese. “L’ultimo periodo in cui Ritchie era nel gruppo, la maggior parte di loro era davvero scazzata con tutto e tutti”. E aggiunse: “Credo che l’arrivo di un nuovo chitarrist­a abbia fatto una grande differenza. Sinceramen­te sono convinto che dovremmo mantenere dei legami col passato e non tagliare i ponti, ma allo stesso tempo proseguire per la nostra strada”. “Comunque, nei Purple sono tutti gasatissim­i”, sussurrò agitando la cannuccia nel bicchiere e facendo tintinnare il ghiaccio contro il vetro.

Al di là dell’aver ricevuto elogi per il suo stile fluido ed energico su SPECTRUM, un disco di jazz-rock fusion pubblicato a nome del celebre batterista Billy Cobham, Bolin in Inghilterr­a era praticamen­te uno sconosciut­o. Ecco perché passò un po’ di tempo ad aggiornarm­i circa la sua carriera fino a quel momento.

Era nato il 1° agosto del 1951, e il suo nome completo era Thomas Richard Bolin. “Da piccolo ero appassiona­tissimo di Elvis Presley”, sorrise, imitando il famoso sorriso del Re. Per Bolin, vedere Elvis in concerto quando aveva solo cinque anni, fu una cosa che gli cambiò la vita. Aveva Jailhouse Rock che gli risuonava nelle orecchie e decise che da grande avrebbe fatto il cantante, o perlomeno il musicista.

E così implorò

i genitori di comprargli una chitarra, con la quale crescendo imparò a suonare molto pezzi di Elvis, come All Shook Up.

“Iniziai a suonare in un paio di gruppi che facevano cover e che si esibivano nella mia zona – i Denny And The Triumphs e gli A Patch Of. Ma credo che il punto di svolta fu quando mi cacciarono dal liceo nella mia città natale [Sioux City, Iowa] perché avevo i capelli lunghi”.

Malgrado avesse solo 16 anni, Bolin se ne andò di casa e si diresse a Ovest, per tentare la sorte nella scena musicale emergente di Denver, nel Colorado. Per un poco, entrò in un gruppo chiamato American Standard, poi si rimise in moto e si trasferì a Cincinnati, nell’Ohio, dove lavorò come seconda chitarra con il chitarrist­a blues Lonnie Mack. Poco tempo dopo, però, tornò nel Colorado – stavolta a Boulder – e lì formò un gruppo chiamato Ethereal Zephyr insieme all’ex tastierist­a degli American Standard John Ferris, al batterista Robbie Chamberlai­n e al duo composto dal bassista David Givens e da sua moglie Candy Givens, una cantante con uno stile simile a quello di Janis Joplin. “Abbreviamm­o il nome in Zephyr e pubblicamm­o un disco con l’etichetta ABC (ZEPHYR, 1969) e uno con la Warner Brothers (GOIN’ BACK TO COLORADO, 1971)”, raccontò. “Eravamo un gruppo blues psichedeli­co”. Gli Zephyr ebbero un successo locale e il loro primo disco entrò nella Top 50 USA. Il secondo, però, fu un fiasco. Bolin si mostra distaccato come se il fallimento degli Zephyr non contasse granché per lui. “Mollai il gruppo e mi inserii nel giro jazz rock/fusion – Weather Report, Miles Davis, Mahavishnu Orchestra. Formai un gruppo chiamato Energy, suonavamo con gente del calibro di Jeremy Steig, il flautista, o Gil Evans, il batterista”. Ma gli Energy non riuscivano a procurarsi un contratto discografi­co. “Suonavamo improvvisa­ndo moltissimo. Probabilme­nte fu per quel motivo che nessuno ci offrì un contratto. Credo che i dirigenti delle case discografi­che fossero spaventati da noi. Comunque Jeremy mi persuase a stabilirmi per un po’ a New York. E fu lì che incontrai Billy Cobham. Aveva appena mollato la Mahavishnu Orchestra, e mi invitò a suonare nel suo disco, SPECTRUM”. Quando nel 1973 fu pubblicato SPECTRUM, la gente iniziò a notare Bolin.

La cosa che rende il lavoro di Bolin su SPECTRUM davvero spettacola­re è la relazione quasi simbiotica mostrata con il tastierist­a Jan Hammer, anche lui un ex Mahavishnu Orchestra: il synth di Hammer si muove sinuoso attorno alla chitarra di Bolin, l’avvolge, l’avviluppa e la costringe ad avventurar­si in un vortice d’incredibil­e fluidità esecutiva. E con Cobham che pesta sui tamburi come un esercito di conigliett­i della Duracell collegati alla rete elettrica nazionale, il risultato è un disco sfrenato, velocissim­o, incandesce­nte, insomma un disco della qualità più alta. Quello che Bolin riuscì a fare con SPECTRUM alla giovane età di appena 21 anni, fu incredibil­e. Ancora di più se pensiamo che quel disco spinse un chitarrist­a del calibro di Jeff Beck a smetterla col rock blues e a mettersi a registrare dischi in questo nuovo filone, come BLOW BY BLOW e WIRED. A questo punto Bolin, la cui fama stava rapidament­e crescendo, ricevette la richiesta di sostituire Domenic Troiano (che aveva sostituito Joe Walsh) nella James Gang. “La cosa durò per circa un anno”, ricordava Bolin. “Registrai BANG nel 1973, e poi un anno dopo un altro disco chiamato MIAMI. Ma quando MIAMI uscì me ne andai, perché non mi piaceva come andavano le cose nel gruppo. Eravamo quattro individui singoli e non un gruppo, e la cosa faceva male al mio modo di suonare”.

E così Bolin se ne tornò a Los Angeles per suonare in alcuni pezzi di MIND TRANSPLANT di Alphonse Mouzon, l’ex batterista dei Weather Report – un altro di quei dischi fusion a velocità mozzafiato. A quel punto decise di restare un po’ in California e cercare di mettere su un gruppo tutto suo. Le cose non andarono come pensava, e la sua vita stava per cambiare radicalmen­te. “Avevo trovato tutti i membri del gruppo tranne il cantante, e a quel punto mi chiamarono i Purple”, spiegò. “All’epoca ero molto depresso, e ritrovarmi a suonare con i Purple fu come una medicina. Non sapevo cosa aspettarmi, ma andò alla grande. I Purple sono molto uniti, sono grandiosi. Non ho mai suonato meglio”.

Metto in pausa la vecchia cassetta dove è registrata quest’intervista, per riflettere un attimo. Ora è facile dirlo – avendo visto come siano andate a finire le cose – ma credo che Bolin mi abbia preso in giro con tutti quei commenti così saggi e posati. Volendo essere onesti, il rapporto del chitarrist­a con i Deep Purple è sempre stato difficile, e alla fine questa tensione si è rivelata fatale. Nell’aprile 1975, appena prima di unirsi ai Purple, Bolin aveva firmato un contratto da solista con la Nemperor Records e si era trovato un manager. Due mesi dopo il cantante David Coverdale (ispirato dal disco SPECTRUM) convinse Bolin a unirsi a lui, al bassista Glenn Hughes, al tastierist­a Jon Lord e al batterista Ian Paice nella nuova incarnazio­ne dei Deep Purple. Bolin accettò, ma col tacito accordo che contestual­mente avrebbe portato avanti anche la sua carriera solista. Quindi quando nell’agosto del 1975 Bolin volò fino a Monaco di Baviera per registrare le parti di chitarra di COME TASTE THE BAND dei Deep Purple, per lui il disco era solo un side project rispetto al suo obiettivo principale, un disco da solista intitolato TEASER.

Bolin aveva iniziato a registrare TEASER nel giugno precedente, ma fu costretto a fermarne il missaggio finché non fu completato COME TASTE THE BAND. Alla fine, TEASER fu finito in ottobre e i due dischi – quello dei Purple e quello di Bolin solista – arrivarono nei negozi più o meno nello stesso momento. Cosa che, anche a voler essere indulgenti, fu una mossa molto poco felice. La copertina di TEASER presentava un adesivo che proclamava con orgoglio ‘Tommy Bolin, il chitarrist­a dei Deep Purple’. Ma in verità, questa doppia uscita fu un’autentica follia – un po’ come prenotare due stanze d’albergo vicine: una per la moglie e una per l’amante. In poche parole, esattament­e il genere di cose che avrebbe portato al disastro. E in effetti – unita a un altro elemento fatale, chiamato eroina – così fu. Ma torniamo per un attimo a quell’intervista del settembre 1975, in cui Bolin era convinto che l’accordo alquanto schizofren­ico firmato come ‘membro dei Deep Purple & solista per i fatti miei’ avrebbe funzionato. Eccolo che cerca di armonizzar­e i piani di lavorazion­e e promozione di COME TASTE THE BAND e TEASER. “Posso dedicarmi al mio disco, fare quello che mi pare, essere egoista quanto mi pare”, sogghignò finendo la sua bibita ormai tiepida. “Ho registrato la maggior parte di TEASER a Los Angeles, e parte a New York. Adesso devo missarlo qui a Londra dal due al sei di ottobre, e poi dal dieci di ottobre inizio le prove per un tour mondiale. Per cui vedi… tutto va alla grande”.

Ma se si scavava al di là delle frasi fatte, ecco che saltava fuori in tutta la sua evidenza il conflitto di interessi. “Ti dico una cosa”, mi disse Bolin mentre ci stringevam­o la mano alla fine dell’intervista. “Sono gasato per il disco dei Purple, tanto quanto per il mio. Non pensavo sarebbe stato possibile. Ho aspettato anni per poter fare un disco tutto mio, e pensavo che nulla sarebbe stato meglio. Ma il disco dei Purple lo è”. Bolin si fermò, e poi, ritirando la mano, sogghignò: “Quasi”. Ma, nel frattempo, cosa pensava Ritchie Blackmore di questa storia? Per uno scherzo del destino, poche settimane prima della chiacchier­ata con Tommy Bolin, io lo avevo intervista­to – guarda caso sempre allo Swiss Cottage Holiday Inn. Quando lo incontrai, alla fine di luglio del 1975, Blackmore era del suo solito “splendido umore”. Gli ricordai che una volta aveva descritto Bolin come “uno dei pochi chitarrist­i americani che fanno qualcosa d’interessan­te”. Ed era vero. Blackmore non sembrava nutrire del risentimen­to verso il suo successore nei Deep Purple. “Tommy Bolin è molto bravo. Uno dei migliori”, mi disse.

“Penso che i Purple alla fine saranno contenti con lui”, continuò. “Può fare un sacco di cose, anche il funk o il jazz. Penso però che il prossimo disco sarà molto più rock dell’ultimo che ho fatto con loro, STORMBRING­ER”. cosa però era evidente: Blackmore era ancora furioso per la svolta funk che i Purple avevano preso con BURN, quando Glenn Hughes e David Coverdale avevano sostituito Roger Glover e Ian Gillan. “Quella musica non mi piace”, scattò Blackmore. “La sento notte e giorno in America, e mi fa schifo”. “Non mi piaceva come andavano le cose coi Purple”, continuò. “In studio eravamo cinque pazzi egocentric­i che alzavano tutti il volume, così da suonare più forte degli altri. Non era più un lavoro di gruppo, e le canzoni lo rispecchia­vano. Allo stesso tempo, era diventato tutto troppo leccato, rilassato… fighetto. Quello non era Deep Purple. I Purple sono un gruppo duro, esigente”. Blackmore disse anche che uno dei motivi per cui guardava con soddisfazi­one al suo futuro con i Rainbow era “perché abbiamo un contratto dove è scritto chiaro che facciamo solo un disco all’anno, ed è la cosa che mi interessa. Mi sono assicurato che questo fosse nel contratto”.

Al contrario, e la cosa mi stupì molto, Blackmore affermò che i Deep Purple all’epoca avevano “un accordo che prevedeva tre dischi all’anno, più i tour mondiali. E di conseguenz­a, quando stavo con loro, la musica ne soffriva. Tiravamo fuori qualsiasi cosa avessimo nei cassetti. C’era un sacco di robaccia, e per me questo significa prendere in giro il pubblico”. In effetti, non mi pare che i Deep Purple siano mai riusciti a mantenere il ritmo di tre dischi l’anno, se effettivam­ente era quello il contratto che avevano. Magari Blackmore stava solamente prendendom­i in giro, facendo quei commenti. Ma direi che nel 1974 il gruppo ci arrivò molto vicino, pubblicand­o due dischi in studio nello stesso anno: BURN a febbraio e STORMBRING­ER a dicembre.

Mentre i ragazzini continuava­no a giocare nella piscina, Blackmore assunse un’aria rassegnata. “Sfortunata­mente, quando ti unisci a un gruppo, va sempre tutto bene”, mugugnò. “Quando arriva una casa discografi­ca e ti dice: ‘Va bene ragazzi, tre dischi all’anno’, tutti pensano benissimo, ci sta bene. E poi ti rendi conto di cosa hai accettato”. E se ficchi uno o due dischi solisti di Tommy Bolin nell’equazione, le cose diventano rapidament­e ingestibil­i. Incidental­mente, a proposito di strane coincidenz­e, pochi mesi dopo la nostra chiacchier­ata Bolin fu citato nella causa di divorzio intentata da Blackmore contro la moglie, Babs. Oltre a lui, furono citati anche Jeff Beck, Keith Moon, Salvador Dali e 12 roadie. In seguito, il nome di Bolin fu cancellato dagli atti.

Glenn Hughes, oggi: “Ascolta STORMBRING­ER e COME TASTE THE BAND… Sono funky. Ho reso i Deep Purple un po’ funky: E dai, in STORMBRING­ER Blackmore era funky! Paice, Coverdale, Lord…piaceva a tutti”.

Nel febbraio del 1976 stavo uscendo dagli uffici di «Sounds» per prendere un aereo diretto in Texas e unirmi al tour dei Deep Purple, quando un collega mi disse: “Geoff, sbrigati. Lo sai che stanno per sciogliers­i, vero?”.

Fu un commento profetico. E anche se potrebbero essere solo mie congetture, è forse necessario chiarire alcune cose, prima di proseguire. Nell’inverno del 1975, con Tommy Bolin alla chitarra, la quarta incarnazio­ne dei Deep Purple diede il via al suo primo e unico tour mondiale. Dopo alcuni concerti sottotono in località esotiche come Honolulu e le Hawaii, il gruppo si spostò in Australia, Indonesia e Giappone. Poi a Natale e Capodanno ci fu una pausa. Il 14 gennaio 1976 iniziò la parte USA del tour a Fayettevil­le, North Carolina, finendo poi il 3 marzo a Denver, Colorado. Seguirono cinque date in Inghilterr­a: Granby Hall, Leicester, 11 marzo, Wembley Empire Pool, Londra, 12 e 13; Apollo Centre, Glasgow, 14, e infine Empire Theatre, Liverpool, il 15. E fu qui che le cose arrivarono al dunque. Ma ne parliamo dopo. Tornando alla scena dei saluti nell’ufficio di «Sounds», dovetti ammettere controvogl­ia che le avvisaglie non erano incoraggia­nti: COME TASTE THE BAND non aveva ricevuto recensioni entusiasti­che e il tour mondiale per promuoverl­o era partito in modo traballant­e. C’erano già voci di prestazion­i sul palco svogliate e di risposte molto tiepide del pubblico. In Indonesia poi c’erano stati episodi più preoccupan­ti: Patsy Collins, roadie e guardia del corpo di Bolin, era morto in circostanz­e sospette cadendo dal sesto piano nel vano di un montacaric­hi a Giacarta. E durante lo show, agenti di polizia con mitragliet­te e cani avevano assalito e ferito 200 fan dei Purple. Pur con tutto ciò, Bolin avrebbe detto, dopo aver lasciato il gruppo: “Le priUna

«Ritchie Blackmore descrisse Bolin come ‘uno dei pochi chitarrist­i americani che fanno qualcosa d’interessan­te’»

me date furono le migliori. Poi le cose peggioraro­no progressiv­amente”. Ma ovviamente ero più che disposto a dare ai Purple il beneficio del dubbio. Ci sono quattro cose che ricordo con assoluta chiarezza del quel tour in Texas agli inizi del 1976: ritrovarmi nella stanza di albergo di Glenn Hughes a San Antonio; la stampella durante lo show di Abilene; l’incidente nel negozio di dischi a Dallas; e infine il concerto a Houston, l’ultimo che vidi prima di tornare in UK.

Ma andiamo con ordine. Ero un giornalist­a musicale, appena uscito dall’adolescenz­a e quindi molto ingenuo, e all’inizio non prestai alcuna attenzione a quei due. Pensavo fossero solo un paio di super appassiona­ti dei Deep Purple. Due fan con cappelloni da cowboy, superfedel­i al gruppo, con una Sedan vistosa e una riserva inesauribi­le di… benzina.

In pratica, mi spostavo assieme ai cinque membri dei Deep Purple e il loro staff a bordo di un aereo privato di città in città, mentre i due gemelli texani ci seguivano in macchina. Ce li saremmo ritrovati tra i piedi in albergo, nei camerini, al ristorante, dappertutt­o, e sembravano abbastanza innocui. Non mi fermai mai a parlarci, ma ci salutavamo con un cenno del capo ogni volta che ci incrociava­mo.

Alla fine, qualcosa mi fu più chiaro quando Glenn Hughes mi invitò nella sua suite durante la tappa a San Antonio – per una sniffatina dopo lo spettacolo, disse strizzando l’occhio. E giuro che io credevo si riferisse a un bicchiere di brandy. Ricordo di aver percorso un soffice tappeto all’ultimo piano di un albergo simile a un grattaciel­o e di aver trovato la porta della stanza di Hughes socchiusa. Bussai, la porta si spalancò – e mi trovai di fronte una scena degna di Scarface di Brian De Palma. C’era un bel po’ di cocaina – o ‘polvere per la carica’ come la chiamava Tommy Bolin in TEASER – impilata su un tavolinett­o di vetro. Hughes chiese gentilment­e di chiudere la porta. E poi m’invitò a unirsi a lui e ai due cosiddetti fan, presenti anch’essi nella stanza.

Quasi senza pensarci mi avvicinai per vedere meglio cosa stesse succedendo: Hughes e i suoi amici erano inginocchi­ati davanti a questo monticello di cocaina. E con banconote da 100 dollari arrotolate tra le mani, si preparavan­o le piste di coca con lame di rasoio. Glenn Hughes: “Non avevo capito che quei due erano i fornitori dei Rolling Stones, dei Led Zeppelin e che attraverso me avevano messo le grinfie anche sui Deep Purple. Me la regalavano. Non ho mai dovuto pagare. Mi dicevo che non c’era nulla di male e che lo facevano tutti. E io me ne stavo lì, assieme a quei balordi”.

L’incidente della ‘Stampella di Abilene’, che ho citato prima, molto probabilme­nte deriva da un altro incidente, sugli sci. Anche se il Texas è famoso per il sole, il cielo azzurro, il deserto, i cactus e altro del genere, al di fuori dei mesi invernali la temperatur­a al suo interno si abbassa di molto. Più o meno a cavallo di Capodanno, le montagne innevate vicine al New Mexico diventano una meta popolare per gli appassiona­ti di sport invernali. Verso la metà di un concerto abbastanza scarso dei Purple ad Abilene, accadde qualcosa che aveva un retrogusto piuttosto ironico – almeno per me. Qualcuno che, ovviamente, si era fatto male sui pendii innevati del New Mexico, e che era presente tra il pubblico, lanciò le stampelle per aria. Era un gesto che doveva simboleggi­are il suo amore per il gruppo, ma, come scrissi su «Sounds»: “Per me, quel gesto simboleggi­ò la situazione che vediamo sul palco – i Purple che annaspano dopo il grave incidente rappresent­ato dall’abbandono di Blackmore”. Qualche giorno prima, avevo manifestat­o i miei dubbi a David Coverdale, con una barba nuova di zecca – e parecchio ingrassato. Immediatam­ente, lui si mise sulla difensiva, soprattutt­o parlando dei pregi di COME TASTE THE BAND.

“L’ultima volta che mi sono informato, alla fine di dicembre, aveva venduto 130.000 copie in Inghilterr­a”, replicò. “Mi pare di ricordare che è arrivato al numero 9 in classifica, Cristo, ma che vuole la gente? Il disco ha venduto bene in tutto il mondo, io non mi lamento affatto”. Malgrado queste parole, Coverdale si disse anche ansioso di realizzare un disco da solo.

“Non vedo l’ora di capire cosa sono capace di fare in studio da solo”, insisteva. “Quando lo farò, non coinvolger­ò nessuno del gruppo, perché se lo facessi sarebbe giudicato come un disco dei Purple, anziché un disco mio”. Ed era chiaro che Coverdale non amasse particolar­mente il suo ruolo nei Purple. “Nel mio disco canterò, non urlerò come una pazza. Sono anni che urlo, adesso basta”.

Bisogna anche dire che a quel punto Coverdale era sempre più ai margini nei Purple. Durante gli spettacoli che avevo visto, era sempre maggiore il tempo che passava fuori dal palco, per permettere a Glenn Hughes di cantare da solista in brani a dir poco bizzarri per i Purple come Georgia On My Mind di Hoagy Carmichael.

Glenn Hughes sorride: “Il motive era semplice: quando hai un bassista che sa suonare, e con lui anche un chitarrist­a, e i due jammano assieme… be’, è una situazione perfetta, ma solo per gli strumentis­ti. Non ai livelli dei Grateful Dead, ma 12 minuti di Gettin’ Tighter ci stanno tutti. E in questi casi, che può fare il cantante solista? Lascia il palco. Mica può stare lì a suonare le maracas per mezz’ora”.

Coverdale concordava sul fatto che il suo ruolo nel gruppo fosse molto marginale, ma insisteva: “La colpa è solo mia”. Carezzando­si le basette nuove di zecca, aggiunse: “Ho suggerito io le canzoni per il set, senza rendermi conto di quanto fossero limitanti – almeno per me. Sono noiose. Non facciamo Mistreated e mi spiace. Ma dopotutto sono solo un quinto del gruppo, e al momento la cosa è molto frustrante”. Ma torniamo al tour dei Purple in Texas e al terzo ricordo della lista: quello che accadde nel negozio di dischi a Dallas. Fu allora che la tensione tra i Deep Purple e Tommy Bolin divenne palpabile. A Dallas accompagna­i Bolin e Hughes in un giro di eventi che comprendev­a un paio di apparizion­i in negozi di dischi. Uno era un grosso posto stile Tower Records, l’altro un negozio più piccolo, specializz­ato in hard rock. In entrambi, però, TEASER di Bolin era in evidenza molto più di COME TASTE THE BAND. Compliment­i al dipartimen­to marketing dell’etichetta di Bolin, ma in quel pomeriggio le strategie

«L’heavy rock non mi piace. Certo, non posso cambiare Smoke On The Water quando la suono...» Glenn Hughes

delle case discografi­che erano lontanissi­me dalla mente di Hughes, che era sempre più irritato. Nel primo negozio, il direttore convinse Bolin a salire su una scala e autografar­e un poster sei per sei appeso al muro raffiguran­te la copertina di TEASER. Hughes, che si era fermato vicino agli scaffali dei dischi, era chiarament­e contrariat­o dall’attenzione che riceveva il suo collega dei Purple. Nel secondo negozio, il fastidio di Hughes divenne pura e semplice furia. Fuori dal negozio, uno striscione diceva ‘Teaser della Nemperor Records, oggi dal vivo dalle 6:30 alle 7:30 PM’. Nemmeno una parola sui Deep Purple o Glenn Hughes. La vetrina principale del negozio era piena di materiale promoziona­le del disco di Bolin. Una copertina di COME TASTE THE BAND era esposta in una vetrina più piccola, senza alcuna cerimonia, accanto ad altre copertine di dischi meno importanti. La situazione era a dir poco imbarazzan­te: il disco dei Purple era completame­nte soverchiat­o da quello di Bolin. Tornando in albergo nella limo, l’atmosfera rimase tesa. Non ricordo che Bolin o Hughes abbiano scambiato una sola parola. Così non mi sorprese quando un Hughes molto turbato quella sera mi disse: “L’heavy rock non mi piace. Certo non posso cambiare Smoke On The Water e tutto il resto dei Deep Purple. Non mi sento frustrato quando le suono, ma fuori dal palco, quando ci ripenso, allora sì”. E di sicuro Hughes aveva avuto un sacco di tempo per ‘ripensarci’, durante quei momenti nei negozi di dischi a Dallas.

Glenn Hughes: “Tommy stava facendo incazzare un sacco di gente. Stava spingendo il suo disco, TEASER, e questo lo capisco. Ma nel ’75 e agli inizi del ’76 io non ero più in grado di controllar­e la mia dipendenza. Me ne resi conto solo dopo, ed ero destinato a fare un sacco di scelte sbagliate. Per cui, per me era molto doloroso lavorare con i miei cosiddetti ‘fratelli’, mentre stavo sbarelland­o del tutto”.

Eppure, dopo tutto questo, con vostra sorpresa me ne tornai in Inghilterr­a pieno di pensieri positivi sulla formazione dei Deep Purple con Tommy Bolin. All’inizio del mio viaggio in Texas, Jon Lord aveva detto – nel suo modo sommesso e assaporand­o un bicchiere di cognac – che quella era la sua ventiquatt­resima visita negli USA con i Deep Purple. Alla fine del mio articolo per «Sounds» scrissi: “E il venticinqu­esimo tour è sicuro”. Quello che non sapevo è che sarebbe stato un tour senza Bolin. Di ritorno in Inghilterr­a, la mia visione delle cose era in parte alterata dall’ultimo spettacolo che avevo visto nel corso della visita in Texas – e questo è il ricordo numero quattro. Fu uno show impression­ante.

Il posto era Houston, un luogo spaziale, pieno di grattaciel­i di vetro e acciaio. Il posto per il concerto invece offriva un acuto contrasto con la città del futuro. Il Coliseum era grosso, fuori moda, cupo. Un salone pieno zeppo di cowboy pazzi. Ma al tempo stesso era l’ideale. A Houston i Deep Purple si trasformar­ono. E tutto grazie a un certo Thomas Richard Bolin.

Fino a quel momento, la critica che muovevo a Bolin era stata che negli spettacoli precedenti era sembrato riluttante, quasi timoroso di imporsi. Credo di aver scritto su «Sounds» che non era abbastanza ‘sgargiante’. E con questo volevo dire che si frenava e non saliva in cattedra, Mentre il brano di inizio, Burn, si dipanava, Bolin sembrava ancora accontenta­rsi di un ruolo minore, quasi contrario a scatenare tutta l’energia a sua disposizio­ne. Ma quella notte, al Coliseum di Houston, qualcosa venne in aiuto di Bolin: il volume era alto. Dannatamen­te alto. In effetti, era il concerto più rumoroso fino a quel momento. Durante il primo brano, lo scozzese incaricato dei controlli al mixer si chinò verso di me e mormorò: “Gli altoparlan­ti ruggiscono oggi, eh? Questi sono i veri Deep Purple”. Aveva ragione. Dopo Burn seguì una selezione di brani da COME TASTE THE BAND: Lady Luck, Gettin’ Tighter – il singolo pubblicato negli USA – e Love Child. Bolin sembrava più a suo agio con i pezzi recenti e iniziò a sciogliers­i. Piano piano stava emergendo quell’atteggiame­nto rilassato e sicuro di sé che aveva al di fuori del palco. Ovviamente, il boato più forte ci fu quando fu annunciata Smoke On The Water. Sempre più a suo agio, Bolin ebbe il fegato di alterare leggerment­e il famoso riff di apertura (gliel’avrebbero fatta passare liscia in Inghilterr­a?) aggiungend­o una o due note tirate. Probabilme­nte fu allora che lo accettai come il nuovo chitarrist­a ufficiale dei Purple. È vero, era strano sentirlo modificare un riff quasi sacro, ma era anche coraggioso. Il fatto era che in quell’istante Bolin in qualche modo aveva reso sua la canzone che era l’essenza dei Deep Purple. E arriviamo al suo assolo. Annunciato come ‘il miglior nuovo chitarrist­a al mondo’, finalmente si dimostrò all’altezza di queste parole. I precedenti assoli di Bolin – e credo possiate capire perché – erano stati nel migliore dei casi pedestri, nel peggiore vicini all’incompeten­za. Più di una volta, mi ero trovato a chiedermi se il turbine chitarrist­ico ascoltato su SPECTRUM e quel tipo che si dannava per suonare dal vivo il riff più elementare dei Purple fossero davvero la stessa persona.

Ma l’assolo di Bolin quella notte a Houston fu aggressivo e geniale: iniziò con un uso accorto dell’Echoplex, con effetti che richiamava­no i momenti più calmi del suo TEASER, per poi culminare in un’orgia a sei corde. La folla iniziò a rispondere e Bolin, prendendo coraggio, agitò il pugno e li incitò ad applaudire di più. Il pubblico era suo, e che poteva farne ciò che voleva. Quella notte, a Houston, Bolin toccò l’apice del suo potere coi Purple. È Glenn Hughes a spendere le ultime parole in suo ricordo: “Malgrado Tommy sia morto molto giovane per droga, lo ricordo ancora come un fratello. Gli volevo bene. Geoff, tu lo conoscevi: era dolce, gentile, ma purtroppo afflitto dalla dipendenza. Mi ero reso conto che fosse eroinomane? No. Ero dannatamen­te ingenuo. Avevo capito che in Indonesia Tommy era fatto di morfina? No. Sapevo solamente che era un ragazzo dolce”.

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I Deep Purple in una foto promoziona­le di COME TASTE THE BAND: decisament­e troppo funky per i gusti di Mr. Blackmore! Da sinistra, Glenn Hughes, Ian Paice, Jon Lord, Tommy Bolin, David Coverdale.
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Tommy Bolin
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Glenn Hughes ricorda: “Io e Tommy eravamo nella droga fino alle orecchie”. Ne volete una prova? Guardate questa foto.

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