Classic Rock Glorie

«Non c’è niente di nuovo nella musica. Tutto quello che faccio è già stato fatto prima»

In quest’intervista del 1995, finora inedita, il grande chitarrist­a ripensa a tre decadi di trionfi, tribolazio­ni e terremoti, dai Deep Purple ai Rainbow.

- Testo: Testo: Neil Jeffries Foto: Ross Halfin

entun’anni fa, nel set- tembre del 1995, passai quatto ore rilassate e alcooliche in compagnia di Ritchie Blackmore, al Normandie Inn a Bohemia, Long Island, oggi chiuso. Era il suo ritrovo, a un’ora di macchina a nord di New York City. Ritchie fu di ottima compagnia: onesto, divertente, sarcastico e secco. Assolutame­nte non il musone che spesso descrivono. Circa due anni dopo aver mollato i Deep Purple per la terza e ultima volta, fu ben presto chiaro che era immensamen­te felice di non dover più lavorare con Ian Gillan. A parte questi scontri caratteria­li, Blackmore ripercorse tutta la sua lunga carriera, svelando un’anima tormentata. Chiarament­e sicuro delle sue capacità come chitarrist­a, paradossal­mente sembrava del tutto inconsapev­ole delle sue qualità e dei suoi difetti come compositor­e. La nostra chiacchier­ata torrenzial­e riempì quattro cassette, l’ultima delle quali trovata dietro il bar e fino a quel momento occupata da The Best Of Albert Humperdink. Alla fine, Blackmore disse che trovava “sempre più difficilme­nte l’ispirazion­e nel suonare ad alto volume”, e che si stava spostando verso quella che definì la sua “musica privata”, il folk acustico medievaleg­giante che avrebbe caratteriz­zato il suo progetto successivo. Di sicuro, l’ultima cosa con cui avrei pensato trascorres­se i 21 anni seguenti facendo dischi, e andando in tour, per lo più acustici, con la sua attuale consorte Candice Night e i Blackmore’s Night. Quello che nessuno – forse nemmeno lui – sapeva all’epoca era che il disco dei Rainbow che stava per portare in tour, STRANGER IN US ALL, sarebbe stata la sua ultima avventura hard rock. Fino ad adesso. Ma prima di arrivare ai Rainbow, ripercorre­mmo tutta la strada fin dagli inizi…

Il batterista dei Searchers, Chris Curtis, ebbe l’idea dei Roundabout, un gruppo che poi nel ’67 avrebbe cambiato nome in Deep Purple. Ma a te ci volle un anno per deciderti a salire a bordo. Perché?

Volevo unirmi a loro, aspettavo, ma non succedeva niente. Nel

’63 ero stato ad Amburgo, avevo suonato con i Searchers e avevo legato con Chris

Curtis. Quando decise di mettere assieme un gruppo, mi spedì dei telegrammi. Lo raggiunsi.

Era molto su di giri e gli chiesi: “Chi c’è nel gruppo?

Che accordo mi proponi?”. E lui: “Sei il miglior chitarrist­a al mondo. Nel gruppo ci sei tu. E suonerai la ritmica”. “Ah, allora il solista lo fai tu. E chi suona la batteria?”. “La batteria la suono io. E Jon Lord l’organo”. Il gruppo doveva chiamarsi Light. E poi disse ancora: “E suonerò anche il basso e canterò”. Per cui, lui avrebbe dovuto suonare la

RITCHIE BLACKMORE THE LOST INTERVIEW

chitarra solista, la batteria, il basso e cantare! Quando vidi Jon, gli dissi: “Che sta succedendo? È un po’…?” [Fa il tipico segno circolare con l’indice sulla tempia]. Vabbè, comunque dopo poco tempo stavamo già a suonare nella sua casetta a South Kensington. E Chris continuava a dire quelle cazzate. Le cose che diceva erano incredibil­i. Ci saremmo chiamati Light e chiunque fosse il gruppo migliore al mondo – mi pare fossero Clapton e i Cream – ci avrebbe aperto gli show. Era pazzo! La seconda volta che andai a casa sua, sembrava ci fosse stato un bombardame­nto: niente mobili, niente tappeti. Solo macerie! Qualcuno era arrivato con un martello penumatico e aveva spaccato tutto. C’erano macerie ovunque. Poi vidi parte dei frammenti muoversi: era Chris che dormiva sul pavimento. “Ah, Ritchie, vieni. Il gruppo è fortissimo. Va tutto a meraviglia!”. Diceva un sacco di stronzate.

Secondo Jon Lord, il nome Deep Purple deriva dalla canzone preferita di tua nonna.

Fuochino. Era una canzone che mia nonna cantava al pianoforte.

Tua nonna era una musicista profession­ista?

No, si limitava a strimpella­re al pianoforte. E di solito suonava Deep Purple.

E da dove è arrivato il nome Rainbow?

Dall’Hollywood Bar & Grill (anche detto il Rainbow, locale sul Sunset Strip di LA). Eravamo lì quando Ronnie [James Dio] come al solito si sbronzò e indicando l’insegna disse: “Come chiameremo il gruppo?”.

Ah, allora meno male che non stavate al Pheasant and Firkin [Il Fagiano e la Botte, ndr]…

O al Bull And Bush [Toro e Cespuglio, che in gergo vuol dire anche ‘cazzo e fica’, ndr]. O un altro dei bar per travestiti che frequentav­amo…

L’idea di cambiare la prima formazione, i Deep Purple Mark I, fu tua. Ma fu Mick Underwood, il batterista degli Episode Six, con cui avevi suonato negli Outlaw, a suggerirti di reclutare il cantante degli Episode Six, Ian Gillan.

Esatto. Dissi a Mick: “Cerchiamo un cantante. Conosci qualcuno?”. E lui rispose: “Be’, se ti piace puoi usare il nostro. Noi ci stiamo sciogliend­o”. Ecco come prendemmo Ian Gillan. Gillan sapeva urlare. A quell’epoca, aveva proprio una bella voce.

Il primo bassista dei Purple, Nick Simper, ha detto di essersi incazzato parecchio per il fatto che nessuno di voi ebbe il coraggio di dirgli in faccia che era stato fatto fuori dal gruppo.

Nessuno voleva alzare il telefono e dirgli: “Ciao, sei licenziato”. Secondo me, questa è una cosa che deve fare il management. Ma non lo fanno mai. Credo che il meno che possano fare sia cercare di evitare che se c’è un problema i membri di un gruppo se la prendano tra di loro. Di solito, ho visto che l’ultima cosa che vogliono fare i manager è dare le cattive notizie. Vogliono solo quelle buone – ed essere pagati per darle. Ma non hanno voglia di sporcarsi le mani.

Il primo disco che pubblicast­e con Ian Gillan fu CONCERTO FOR GROUP AND ORCHESTRA, nel 1969. Secondo Jon Lord, tu ti irritasti perché all’interno del gruppo spostò l’attenzione da te a lui.

Vero. Eravamo un gruppo rock. Non riuscivo a capire perché continuass­imo a suonare con delle orchestre. Iniziava a darmi ai nervi. La prima volta era una novità, un gruppo che suonava con un’orchestra. Non credo fosse particolar­mente riuscito, ma bene o male ce la cavammo. E poi, Jon ne scrisse un’altra [Gemini Suite] e volevano che lo rifacessim­o. Allora sbottai: “No e poi no. Non voglio rifarlo. Sto in un gruppo di rock’n’roll”. Dissi: “Jon, dovremmo fare un disco di rock’n’roll così che la gente possa suonarlo alle feste. Dovrebbe essere rock’n’roll senza interruzio­ni, roba tostissima”. Quello che facevano gli Zeppelin mi aveva colpito e volevo fare quelle cose, e se non avesse funzionato ci saremmo ritrovati a suonare con quelle maledette orchestre per il resto delle nostre vite. Lo facemmo e uscì fuori DEEP PURPLE IN ROCK, che fortunatam­ente ebbe successo. Ce la mettemmo tutta perché ogni canzone spaccasse, niente smancerie. Io ero felicissim­o, perché non volevo mai più suonare con un’orchestra.

Be’, è strano perché sei molto influenzat­o dalla musica classica. Su STARGAZER dei Rainbow hai usato degli archi.

Che devo dire, mi sono piaciuti molto. Fu molto eccitante. La prima volta che ci pensai mi dissi: “Dai, sarebbe ridicolo”. Ma più ci rimuginavo, più la provavamo col gruppo, più mi convincevo che se fatto bene poteva essere ottimo. E il risultato mi soddisfa molto.

Nei Purple volevi essere visto come il leader?

Non m’interessa “essere visto”. Avevo solo le mie idee. Ci mettevo la passione. Non volevo cose malfatte. Sentivo che era necessario lavorare sodo. Per cui dicevo: “Andiamo!”. Ma non avvertivo la stessa passione negli altri. Ma quello è un genere di passione che poi cambia. Ora ne ho altre. Pensando ai Deep Purple… be’, sono contento che ora possano vivere in un altro modo. Non credo che verso la fine il gruppo fosse molto sincero. Non credo che gli altri fossero nel gruppo per i motivi giusti.

Roger Glover, il bassista, ha raccontato come hai scritto Black Night: sei andato in studio direttamen­te da un pub, completame­nte sbronzo, perché ti avevano detto di scrivere un singolo.

Verissimo. È un bel ricordo. Eravamo andati in un pub a Holborn. Arrivò il management – sai quella scena con Leggy Mountbatte­n in The Rutles: “Ragazzi! Vi serve un’hit!”. Stavamo bevendo, e così tornammo in studio. Io rubacchiai il riff basso di Summertime di Ricky Nelson, che avevamo riarrangia­to come uno shuffle. Poi aggiungemm­o un paio di trucchetti che funzionaro­no e tutto d’un tratto… ecco un bel n. 2.

Nel 1969 volevate lan Gillan, era chiarissim­o. Nel 1980 gli chiedesti di entrare nei Rainbow. E hai lavorato di nuovo con lui nel 1984, quando i Deep Purple Mark II si sono riformati. Eppure, voi due non vi potete soffrire…

Lo chiamavo Oliver Rude [Oliver il cafone, ndr], perché assomiglia­va molto a Oliver Reed. È una persona molto scostante. Non è solo la voce. Trovavo molto sgradevole averlo attorno. Di solito un roadie ci avvisava: “Se state pensando di andare in albergo per bere qualcosa, attenzione che c’è Gillan al bar”. E io chiedevo: “Ha la testa incassata nelle spalle?”. Se diceva sì, allora significav­a che Ian era stato lì tutto il giorno e la sera e voleva sfogarsi con qualcuno. Se entravi e ti vedeva, si sarebbe alzato e avrebbe attaccato un “Ehi!”. Ma io avrei fatto così [fa la faccia depressa]: “Come va? Ah, scusa… devo proprio andare”.

Mick Underwood ti aveva avvertito: “Ottimo cantante, ma…”.

No. Ricordo che mi aveva detto che non gli piaceva come persona, perché gli aveva raccontato di aver perso la voce e di non poter continuare con lui, ma poi l’aveva visto con un altro gruppo. Devi conoscere bene Ian, per capirlo. Ha un altro lato che non mi piace, uno molto volgare, ma devo dire che non lo tira fuori a meno che non ti conosca bene. Sì, perché sa essere anche affascinan­te, la persona piena di charme che tutti ammirano. È intelligen­te. Ma è abituato a essere davvero cafone. Non mi piaceva stargli vicino, perché sentivo che faceva le cose solo per essere notato, perché si parlasse di lui, solo per essere famoso.

Jon Lord ha detto che la prima volta che ha capito che Gillan e Roger Glover se ne sarebbero andati è stato quando gli hai detto che volevi un cantante più blues e un bassista che potesse fare armonie vocali.

Vero. Ecco cosa è successo. [Una lunga pau- sa] Sono proprio un bastardo [ride]. Ma non ho ‘deciso’ niente. Io dicevo: “Andiamo, dobbiamo fare qualcosa!”. E la risposta era sempre: “Ok, hai ragione. Cosa?”. Ricordo la questione con Roger. Non volevo sbarazzarm­ene. Io volevo andarmene. Dissi: “Paicey, ce ne andiamo”. Perché volevo formare quella cosa con Phil Lynott [Un trio chiamato Baby Face, ndr]. Ma Paicey non voleva andarsene. “Phil è bravo, ma non credi che dovremmo provare… Ian?”. E io risposi: “No. Non sopporto Gillan”.

Te ne andasti prima dell’ultimo disco degli anni 70 dei Purple, COME TASTE THE BAND. Glenn Hughes ricorda che dicesti: “Non voglio suonare questa musica da lustrascar­pe”.

Verissimo.

Be’, ma sembra leggerment­e razzista… Ovvio, io sono un razzista [ride].

Sei contro la musica nera o la gente nera?

Jimi Hendrix mi ha insegnato moltissimo, e anche i bluesmen neri. Ma non mi piace la musica nera come il r&b. Non mi piace la disco. E poi, Glenn non era se stesso. Voleva essere Stevie Wonder. Lui è un musicista nato. Mi è sempre piaciuto come persona. Era davvero una cara persona. Ma ho sempre preferito la voce di Coverdale. Non mi piacevano gli acuti che faceva Glenn.

Molti dicono che fosti tu a raccomanda­re Tommy Bolin come tuo sostituto. È vero?

No, non ho raccomanda­to io Tommy Bolin. Lo conoscevo e credo che qualcuno mi chiese qualcosa su di lui e io dissi: “Oh, è davvero bravo”. Ma come quest’ultima volta [novembre 1993], volevo solo andarmene. Non m’interessav­a fargli affondare la nave. Volevo che avessero tempo per trovare qualcun altro. Credo sia stato Coverdale a trovarlo.

Hai mai visto il gruppo con Tommy?

No.

I Rainbow nacquero sulla scia della tua delusione per il Mark III. Quando si trattò di registrare il loro disco di esordio, RITCHIE BLACKMORE’S RAINBOW, usasti i membri degli Elf, compreso il cantante Ronnie James Dio. Ma nel tour di esordio dei Rainbow c’era un’altra formazione. Avevi pensato di andare in tour con gli Elf ?

Sì, finché non iniziammo le prove e mi resi conto che sarebbe stata una pessima idea. In studio se la cavarono – tranne Gary [Driscoll, il batterista], che aveva la tendenza a perdere il tempo, e poi riprenders­i. Ti faccio un esempio. Iniziavamo a suonare, e io vedevo le cuffie che gli scivolavan­o giù e a un certo punto perdeva il tempo. Per cui dopo quattro prove, gliele dovemmo incollare col nastro adesivo. Era nervosissi­mo. Una volta contò uno, due tre, quattro, e tutti partirono – tranne lui! [ride]. Ma era simpatico. Solo che non sopporto i batteristi che non sanno tenere il tempo.

Forse ti sei abituato troppo bene con Ian Paice.

Sì, Ian è un ottimo batterista.

Molti ritengono RAINBOW RISING il disco migliore fatto dai Rainbow.

In quel momento, certo.

Ora no?

Assolutame­nte no. Il miglior disco dei Rainbow che io abbia mai fatto è senza dubbio questo [STRANGER IN US ALL, del 1995]. Senza il minimo dubbio. Lo so che la gente dirà: “Ovvio che dica così”, ma è la verità. Il migliore che abbia mai fatto è questo. Me ne piacciono un altro paio, STRAIGHT BETWEEN THE EYES e DIFFICULT TO CURE. STARGAZER era molto buono, ma il resto dei dischi era nella media.

Ma è vero che hai dato fuoco al letto di Jimmy Bain, il bassista dei Rainbow, con lui sopra?

Sì, ma gliel’ho detto.

Vuoi dire che l’hai svegliato?

No. Aveva una ragazza a letto con lui. Accesi qualcosa e lo misi vicino al letto. E il copriletto prese fuoco. Pensavo se ne accorgesse e lo togliesse. Ma non lo vide. Me ne stavo lì a fissare le fiamme. Allora dissi: “Ehm, Jimmy…”. Lui aprì gli occhi, “Cazzo! Il letto va a fuoco!”. Afferrò il copriletto e lo lanciò fuori dalla finestra. Solo che cadde sul prato sintetico e mandò a fuoco anche quello.

LONG LIVE ROCK ’N’ ROLL è stato l’ultimo disco che hai fatto con Ronnie Dio. La rottura con lui avvenne prima o dopo?

Volendo essere onesti, io sono stato molto amico di Ronnie, finché non incontrò Wendy [la futura moglie e manager di Dio, ndr]: a quel punto le cose andarono a rotoli. Ricordo che eravamo allo Chateau [lo Chateau d’Herouville vicino Parigi, soprannomi­nato Honky Chateau da Elton John, ndr] e stavamo cercando di compore una canzone. Stavo provando un effetto per finire il brano ed entrambi vennero in studio dicendo: “Vogliamo parlarti”. Ronnie mi disse: “Wendy mi ha appena detto che tu sei sulla copertina di «Circus» e noi no”. “Davvero? Non lo sapevo”. Avevamo fatto la sessione di foto tutti assieme, ma poi il fotografo me ne fece un paio da solo, e una di quelle andò in copertina. E Cozy [Powell, il batterista] o Ronnie dissero: “Se dobbiamo essere solo i tuoi schiavetti, allora ci comportere­mo di conseguenz­a”. La cosa mi fece davvero incazzare, perché io non c’entravo niente. A quel punto, andò tutto a puttane, perché dopo quella sparata non avevo più il minimo rispetto per nessuno dei due.

Quindi con Ronnie le cose sono andate male dopo quell’episodio e quel disco?

Sì. La cosa non mi ha certo aiutato a pensare bene di lui. Non mi andò giù, perché era una cattiveria gratuita. “Non siamo in copertina con te!”. Ed era colpa mia? Tutto il rispetto che potevo provare, lo persi. Ricordo i bei tempi, certo. Ma quella cosa mi fece davvero incazzare. Ottimo cantante, ma come persona… discutibil­e.

Per il successivo disco dei Rainbow, DOWN TO EARTH, chiedesti aiuto a Roger Glover.

Sì, come produttore. Ma non avevamo un bassista, così iniziò a suonare il basso.

Secondo Roger, quello fu il tuo modo di ammettere che nel 1973 avevi sbagliato.

[Ride] Davvero? Non ci avevo mai pensato.

Cozy Powell ha detto che quando entrò nel gruppo tu eri molto motivato, avevi qualcosa da dimostrare, ma che dopo un po’ ti vide raffreddar­ti e perdere le ambizioni, la furia. È vero?

Sì. Non puoi essere incazzato tutto il tempo, o diventeres­ti pazzo.

Ma sembri ritrovare il fuoco quando tu hai a che fare con una nuova formazione. I tuoi lavori migliori sono sempre stati realizzati subito dopo un cambiament­o.

Giusto. Diciamo che quando ci sono novità, vado al massimo.

Il secondo disco dei Deep Purple Mark II, MACHINE HEAD, è un’eccezione a questa teoria. Perché è così valido?

È il mio disco preferito con i Purple. Arrivò dopo FIREBALL, che secondo me fu un flop totale, un vero disastro.

E perché FIREBALL sarebbe brutto? Non fosti coinvolto nella sua realizzazi­one?

Sì, certo. Solo che non c’è nulla di cui valga la pena parlare. Non riesco nemmeno a ricordare qualche canzone.

Per DOWN TO EARTH, Ronnie fu sostituito da Graham Bonnet. È stato il disco dei Rainbow che ha venduto di più?

Since You Been Gone andò molto bene, perché era stata scritta da Russ Ballard. Ora ti racconto una storiella interessan­te – e prendo un po’ per il culo Cozy. Quando ci proposero Since You Been Gone, il management disse: “Cosa ne pensate?”. E io risposi: “Mi pare ottima. Registriam­ola”. Era già stata fatta da un altro gruppo, i Clout. Ma quando andammo in studio, Cozy disse: “A me non piace”. La provammo una volta, e poi quando ci apprestamm­o a una seconda prova, lui disse: “La suono solo un’altra volta!”. La odiava. E così la facemmo, e Roger disse: “Era buona, ma rifacciamo­la”. E Cozy sbottò: “No! Odio questa canzone del cazzo! È una merda! Non voglio averci niente a che fare!”. Allora Roger disse che pensava di riuscire a lavorare un po’ sugli effetti per non far sentire l’assenza di Cozy, e in effetti ci riuscì. Quando la canzone arrivò al numero due o tre in classifica, qualcuno mi disse che andò da Cozy e disse: “Lo sai che adoro Since You’ve Been Gone?”. E a quel punto Cozy rispose: “Sì, è uno dei miei brani preferiti.” Non è interessan­te?

Che è successo con Graham Bonnet? Perché se ne andò? Fu per colpa dei pettegolez­zi o del fatto che andò da Peter Thrower (un programma di giardinagg­io della BBC al quale molte celebrità apparivano come ospiti, ndr)?

Oh cazzo, Graham… A Roger piaceva, anche se diceva: “Dio disse: ‘Ti darò una voce meraviglio­sa – ma ti toglierò tutto il resto’”. Graham era una persona simpatica, solo che era del tutto… perso. Un giorno gli chiesi: “Come ti senti?”. “Non tanto bene, mi sento un po’ strano”. Allora qualcuno gli chiese: “Ma hai mangiato?”. E lui: “Ah, ecco che è – ho fame!”. Si era dimenticat­o di mangiare

– da giorni! E poi i cantanti che ho avuto di- cevano che quello strano ero io…

Più o meno nel Natale del 1981, chiedesti a Gillan di unirsi ai Rainbow, vero?

Sì, mi pare di averlo fatto. Andai da lui e bussai: “Ian!”. “Cazzo! Entra!”. Sembravamo ottimi amici, lo sai? Così entrai e dissi: “Ero venuto a vedere se ti sarebbe piaciuto unirti ai Rainbow”. Iniziammo a berci una bottiglia di vodka. Arrivati a metà bottiglia, iniziai a pensare: “Forse non è stata una buona idea”. Quando la finimmo, dentro di me pensavo [mette le mani come se pregasse]: “Speriamo che non dica sì!”. Mi disse: “Rich, non lo so se posso. Ti farò sapere”. “Ah, sì certo, va bene Ian. È stato bello rivederti”. Evvai! Filiamocel­a!

Perché l’avevi fatto?

Non lo so. Forse mi ero scordato che tipo fosse. Ma quando lo rividi pensai: “Ci risiamo”. Ma lui rifiutò, e così fu colpa sua. Se avesse detto sì, mi sarei ritrovato nella posizione di “Oh no, e ora che faccio?”.

Al suo posto, prendesti Joe Lynn Turner.

Joe è stato il miglior cantante che abbiamo avuto nei Rainbow, senza alcun dubbio. La sua voce in brani come Can’t Let You Go o Street Of Dreams era geniale. Nelle ballad, nessuno era pari a lui, ed era la voce che cercavo. Quando sciolsi il gruppo e mi ritrovai a dover fare di nuovo i Purple, cosa che non avrei dovuto ma che feci perché c’erano in ballo un sacco di soldi fatti senza alcuno sforzo – sai, mi fecero tintinnare i soldi davanti al naso e mi dissi che, insomma sì, i Rainbow andavano bene ma, che cazzo, i soldi mi andavano meglio – forse non avrei dovuto farlo. Gillan ci convinse tutti. Pensavo che ci saremmo limitati a un disco, ma poi divennero più di uno. Col senno di poi, probabilme­nte sarei dovuto restare con i Rainbow, perché Joe stava cantando davvero bene. Sul palco però mi faceva incazzare perché era come Judy Garland. Non riuscivo a bloccare tutte le sue mossettine.

Quando nel 1984 i Deep Purple si riformaron­o faceste un video che mostrava il gruppo che si riuniva nel Vermont. Era tutto vero o era recitato?

Dipende.

Mi riferisco al pezzo in cui stringi le mani e per ultimo ne porgi una a Ian e fai finta di ritirarla all’ultimo secondo.

Davvero? Sai, ho passato anche dei bei momenti con Ian. Spesso penso sia colpa mia per quello che c’è tra noi. Lui ha la sua versione, ovvio, ma questa è la mia. Era il 1970, e ci trovavamo in un locale in Francia, il Rock’n’Roll Circus. Eravamo in pausa, e lui voleva sedersi. Mi accorsi che era un po’ sbronzo e così gli tolsi la sedia da sotto, per farlo cascare a terra. Quello che non avevo visto era che dietro di noi c’era un salto di quasi cinque metri. Insomma, per farla breve cadde e sbatté la testa. Sentii che sbatteva la testa così [dà un colpo al tavolo abbastanza forte] sul pavimento di pietra. Pensai: “Oddio! Si è spaccato la testa!”. E dopo non fu mai più lo stesso. Cambiò.

Quindi, più che l’incazzatur­a per lo scherzo, fu il colpo alla testa?

Fu il colpo. Pensavo fosse morto – ed era uno davvero robusto. Ma si rialzò, e io corsi da lui: “Stai bene?”. E lui: “Sì, mi fa solo un po’ male la testa”. Ma aveva sbattuto la capoccia sul cemento!

Alcuni dei tuoi pezzi migliori sono quelli in cui, anche solo in parte, suoni la chitarra acustica. È più difficile da suonare?

No, per niente. Anzi, è più facile. Ma dal vivo non rende, perché devi affidarti a qualcun altro per amplificar­la e quei monitor sono un casino. Comunque il mio prossimo disco sarà tutto acustico, anche se un tipo di musica un po’ differente. Ho otto canzoni che sono, diciamo, molto folk medievale. E c’è la mia ragazza che canta. Vediamo come andrà questa cosa dei Rainbow. Dipende tutto se la gente ha voglia o no di sentire ancora cose dei Rainbow. Lascio decidere al pubblico.

Èun sacco di tempo che ne parli.

Sì, ma devo fare le cose con calma. Mi piace sapere bene cosa sto facendo, prima di dare il via a qualcosa di nuovo. Però adesso sono pronto a cambiare. Credo che questo (STRANGER IN US ALL) possa essere l’ultimo come autore rock.

Qual è stata l’ultima cosa che hai ascoltato a colpirti per davvero?

Gli ABBA. E ho sentito dei miei amici tedeschi che suonavano musica del ‘600 col mandolino e strumenti antichi. A parte questo, niente. Non sono uno che vive nel presente. Proprio no. Non voglio sapere cosa sta succedendo [ride]. Non voglio essere coinvolto.

Secondo te, in mezzo a tutti gli altri grandi chitarrist­i dove collochere­sti Ritchie Blackmore?

Come chitarrist­a? Uhm, sai, quando sono a casa credo di essere abbastanza bravo, ma non registro quasi mai quello che faccio. Comunque, in giro ci sono un sacco di ottimi chitarrist­i, tecnicamen­te molto migliori di me. Io ho un certo ‘stile’ e sono contento di essere considerat­o tra i migliori. Negli anni 80 volevo essere il migliore di tutti!

Credi che le tue abilità alla chitarra siano apprezzate? Di solito, la gente cita Page, Clapton e Beck, ma il tuo nome non salta mai fuori assieme ai loro.

Il mio preferito è sempre stato Jeff Beck. Suona una nota e io penso: “Ma dove l’ha trovata?”. Ho sempre ammirato Jeff. “Sono un chitarrist­a? No. Preferirei riparare un’auto”. Ed è vero. Non si agita. Non segue le mode. Rimane sempre quello che è. Sembra sempre lo stesso. La stessa maglietta, non segue le mode, non mette i pantalonci­ni o i calzoni lunghi, non fa il fighetto. È sempre in pista, e ci sta dal 1964.

E come ti piacerebbe essere ricordato?

Non m’interessa essere ricordato. Quando smetterò, spero di dedicarmi ad altro. Se guardo cosa vende oggi mi incazzo. Mi dico, stai calmo e suona la chitarra, non prendertel­a. Mi infurio perché so che in giro ci sono degli ottimi musicisti. Ma la musica è così ripetitiva. Tutto quello che faccio, è già stato fatto prima.

Però a volte sei il critico peggiore di te stesso. Come quando fai arrabbiare le persone perché rifiuti di fare un bis.

Se non faccio un bis, di solito è per uno di questi due motivi: o perché sento di non aver suonato bene, o perché penso che il pubblico sia distratto. Se ne stanno lì e fanno: “Dai, torna e facci Smoke On The Water”. E allora io non lo faccio. Non sono un robot che si accende e si spegne. Roger diceva: “Dài, perché non la fai dal vivo?”. E io gli rispondevo: “Non posso suonarla dal vivo se devo rifartela venti volte perché devi registrare la batteria. La faccio dal vivo, ma una volta sola, non venti per farti avere la ‘versione perfetta’”. A quel punto, la conversazi­one è finita. Quando si dice dal vivo, significa una volta. Stop. Paicey non poteva. Diceva sempre: “Rifacciamo­lo”. Io e Jon smettevamo e ce ne andavamo a cena. “L’abbiamo fatta quindici volte e non la suoniamo più, nonostante quello che dice Ian Paice”.

Ultima domanda. Cosa vorresti fosse scritto sulla tua lapide?

[Lunga pausa] Be’, immagino di doverti rispondere con qualcosa di buffo. Vediamo…

In effetti, l’idea era questa.

[Altra pausa] ‘Quest’uomo è andato alla tomba chiedendos­i cosa diavolo fosse successo’. Perché è questo che farei. Mi chiederei: “Ma perché è successo?

Che cavolo è stato?”.

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 ?? ?? Deep Purple, settembre ’68: (s-d) Ritchie Blackmore, Jon Lord, Rod Evans, Nick Simper, Ian Paice.
Deep Purple, settembre ’68: (s-d) Ritchie Blackmore, Jon Lord, Rod Evans, Nick Simper, Ian Paice.
 ?? ?? Gli Outlaws (Ritchie all’estrema sinistra) con Jerry Lee Lewis (al centro).
Gli Outlaws allo Star Club, Monaco, circa 1960.
Gli Outlaws (Ritchie all’estrema sinistra) con Jerry Lee Lewis (al centro). Gli Outlaws allo Star Club, Monaco, circa 1960.
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 ?? ?? Ritchie (secondo a destra) nei Purple con la sua nemesi, Ian Gillan (centro).
Ritchie (secondo a destra) nei Purple con la sua nemesi, Ian Gillan (centro).
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Ritchie infiamma lo show dei Deep Purple al California Jam, 1974.
 ?? ?? Blackmore con gli Elf, assieme ai quali registrò il primo disco dei Rainbow: (s-d) Craig Gruber, Ronnie Dio, Gary Driscoll, Micky Lee Soule, Blackmore.
Blackmore con gli Elf, assieme ai quali registrò il primo disco dei Rainbow: (s-d) Craig Gruber, Ronnie Dio, Gary Driscoll, Micky Lee Soule, Blackmore.
 ?? ?? Rainbow rising: Dov’è Ritchie?
Cozy Powell, (s-d) Don Airey, e Roger Glover, Graham Bonnet attorno al ’79.
Joe Lynn Turner: “Il miglior cantante che abbiamo avuto nei Rainbow”, dice Ritchie.
Rainbow rising: Dov’è Ritchie? Cozy Powell, (s-d) Don Airey, e Roger Glover, Graham Bonnet attorno al ’79. Joe Lynn Turner: “Il miglior cantante che abbiamo avuto nei Rainbow”, dice Ritchie.
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 ?? ?? Candice Night, alias Mrs Blackmore.
Ritchie nei Blackmore’s Night.
Candice Night, alias Mrs Blackmore. Ritchie nei Blackmore’s Night.
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