NOW WHAT?!
Ian Anderson Paice, classe 1948, è con i Deep Purple da prima che Ritchie Blackmore ne inventasse il nome, mutuandolo dalla canzone preferita di sua nonna, suonata dal pianista Peter DeRose. Ai tempi si chiamavano Roundabout e, assieme ai due, suonavano Jon Lord alle tastiere, Nick Simper al basso e Rod Evans alla voce. Ian, assieme a Lord, decise lo scioglimento dei Deep Purple del 1976, che erano sopravvissuti a stento al divorzio da Blackmore l’anno precedente. Durante i dodici anni intercorsi prima della reunion, ha suonato in diversi gruppi con i suoi ex compagni di avventura: Paice, Aston & Lord, i Whitesnake di David Coverdale, Gary Moore. Nel tempo libero tiene clinics di batteria in giro per il mondo: da oltre cinque anni viene spesso in Italia, dove lo abbiamo raggiunto e intervistato.
La scena si ripete uguale, a Canicattì come a Forlì: Ian Paice, uno dei batteristi storici del mondo del rock, ci accoglie nel suo ‘ufficio’, un antibagno allestito a camerino. Per nulla imbarazzato dalla situazione, sorride e ci offre degli sgabelli, sui quali ci appollaiamo. Parla lentamente, scandendo le parole, e rispondendo a qualsiasi domanda con serafica rilassatezza.
D: Considerando che hai iniziato a suonare a quindici anni, quest’anno compi cinquant’anni di attività. Come ti senti? R: «Cinquant’anni sono tanti, ma basta non pensarci. Io spero di poter continuare a suonare, a fare il mio lavoro ancora a lungo. Sono fortunato a fare quello che mi piace. È divertente pensare che vuol dire ‘mezzo secolo’. Ci sono cose che facevo a vent’anni che ora sono più difficili, ma ci sono altre cose oggi che allora non conoscevo neanche, e sono arrivate col mestiere. Le parti più potenti sono più difficili da fare a lungo, perché ho meno energia. Pensa a un calciatore professionista: quando ha diciott’anni corre per tutta la partita. A ventuno, rende per una ventina di minuti, mentre per gli altri settanta deve risparmiare energia. Ci sono cose che non vorrei accettare, ma devo abituarmi al fatto che il mio corpo non è più quello di una volta. Un’altra cosa importante è l’allenamento. Mi ricordo di aver visto il grande Buddy Rich (mitico batterista considerato ancora oggi il più grande di tutti i tempi per tecnica, velocità, potenza e creatività, ndr) l’anno prima che morisse, a New York in un clamoroso concerto al Blue Note: le cose che non riusciva più a fare con la potenza le aveva rimpiazzate con astuzia e mestiere. Quello che perdi da una parte, lo trovi dall’altra. Devi sapere dove spingere e dove trattenerti. Nelle mie clinic io parlo delle regole auree della batteria. Alcune è probabile che non verranno mai applicate, dipende dalla strada e dallo stile che scegli, ma la conoscenza è fondamentale. Poche regole ti aiutano a risparmiare fatica ed energie».
Deep Purple Mark VIII: vi riproponiamo di seguito un’intervista a Ian Paice fatta nel lontano 2013. Il batterista è l’unico membro originale della band dal 1968 che non ha mai lasciato la sua posizione. Assieme a lui, in questa line-up, troviamo il cantante Ian Gillan, il bassista Roger Glover, il chitarrista Steve Morse e il tastierista Don Airey.
D: Cosa ricordi di quando hai iniziato? R: «All’inizio, l’unico punto di riferimento era mio padre, che suonava in una grande swing band. Il rock non esisteva per noi. O, meglio, l’unico rock che passava erano probabilmente un paio di ore alla settimana per radio. Questo swing è rimasto molto nel mio modo di suonare. Guardavo questi grandi batteristi come Jim Coobb (il batterista anche di “Kind of Blue” di Miles Davis), Louie Bellson (che ha suonato, tra gli altri, con Duke Ellington, e Ella Fitzgerald), Buddy Rich. Oggi ci sono un sacco di bravi giovani musicisti, molto tecnici, ma non riesco a trovare un nome… tutti imparano a suonare dallo stesso libro, alla stessa maniera e, alla fine, suonano nello stesso modo.
La mia generazione ha imparato guardando e ascoltando. Noi imparavamo per imitazione. Ecco perché io non insegno: qualsiasi cosa faccia è tecnicamente sbagliata. Ecco quindi che John Bonham (Led Zeppelin) era diverso da Ginger Baker (Cream), che era diverso da me, che ero a mia volta differente da Carmine Appice (Vanilla Fudge e Cactus), che a sua volta era diverso da Mitch Mitchell (The Jimi Hendrix Experience). E quando li sentivi li riconoscevi dall’impronta. In Inghilterra sono usciti tanti batteristi così diversi uno dall’altro che ognuno ha trovato la propria strada. Se ascoltate gli Zeppelin e i Cream, vi rendete conto che hanno dei suoni diversi. Oggi i professori insegnano a tutti lo stesso stile. I maestri migliori ti devono dare solo l’informazione che è importante per te, e lasciare che la tua personalità ne prenda possesso. Io dico sempre, ai tanti ragazzi che incontro e che vogliono suonare la batteria, che devono interpretare e personalizzare le
«Mai accontentarsi di essere il Bonham numero ventotto o lo Ian Paice essere numero trentasei. Devi il te stesso numero uno!» Ian Paice
informazioni, per poter essere riconosciuti e ricordati. Non bisogna accontentarsi di essere il Bonham numero ventotto o lo Ian Paice numero trentasei o il Mitch Mitchell cinque o il Buddy Rich duecento. La cosa importante è essere il te stesso numero 1. A volte vedo un quindicenne che suona da un paio di mesi e magari non è molto bravo ma ha una cosa speciale, che riconosco: la naturalezza. Qualcosa di suo che lo illumina. Quando non hai quella consapevolezza sei soltanto uno dei tanti».
D: Che consiglio daresti a una band agli inizi?
R: «Non ascoltate nessuno all’esterno della band: quello che fate, fatelo perché vi piace. Il successo non arriva per tutti e, anche se per voi non arriva, state comunque facendo una cosa che vi piace. Ricordatevi che se arriva, arriva da dietro, non lo vedrete arrivare. Se qualcuno vi dice cosa dovete o non dovete fare, e non fa parte del gruppo, non pensateci due volte: buttatelo fuori dalla porta. E se uno del gruppo ha un brutto carattere, risolvete subito: col tempo possono solo peggiorare».
D: Qual è il segreto del tuo sound?
R: «Una batteria, di per sé, non è uno strumento molto personale… come potrebbe esserlo? Ci picchi sopra! Voglio dire, non è uno Stradivari. È perciò importante che tu la accordi per il tuo suono. Non deve essere accordata ‘alla nota’, come un violino o una chitarra. Ha un’intonazione molto flessibile: alta per una risposta veloce o bassa per toni più sommessi. Le pelli sono molto importanti per questo risultato: le pelli trasparenti sono più vive, le pelli spesse sono più profonde. Io uso delle Ambassador sabbiate, che non durano molto per il modo in cui suono, circa tre concerti. Non è che si rompano, ma perdono tono. Le cambio abbastanza spesso ma amo il suono classico e queste pelli artificiali sono pensate per emulare il suono delle pelli animali. Con i piatti è la stessa cosa: dovevo trovare qualcosa che acusticamente mi piacesse ma che andasse bene anche per i microfoni; non importa quanto picchi su un sedici pollici sweet, non lo senti se non lo amplifichi. E poi ci sono le bacchette… deve essere un matrimonio tra tutti i pezzi. Cozy Powell (che ha fatto parte anche di Rainbow, Whitesnake e Black Sabbath, ndr) è un mio buon amico: abbiamo la stessa corporatura, ma lui usa delle bacchette che sono il doppio delle mie! Io non riesco nemmeno ad alzarle. La batteria è uno strumento magnifico perché scegli ogni singolo pezzo che vada bene per te, con il tuo stile. Io uso una configurazione derivata dal jazz: come tanti ‘vecchi’ batteristi, voglio che sia tutto disposto in modo molto funzionale e a portata di mano senza bisogno di allungarsi. La mia batteria ha sette tom, ma non dite in giro che ne uso solo quattro! Gli altri sono pura ‘scenografia’. Al di là dello strumento, un buon batterista pensa alle fondamenta, alla musica, alla coesione. Devi sapere quando sottolineare i colori e le parti importanti, così i tuoi compagni sentono questi leggeri cambiamenti del mood e ti seguono a loro volta. Il mio dono è una grande musicalità. Un batterista non deve solo tenere il tempo».
D: E il segreto del successo del sound dei Deep?
R: «I neri, in America, facevano della bella musica. I bianchi, in America, se ne fottevano, avevano questo rock molto scialbo. In Inghilterra noi avevamo fame di musica. Abbiamo assorbito la musica nera e l’abbiamo fatta nostra: Little Richard, Fats Domino… noi non eravamo così bravi, ma abbiamo sopperito con la nostra aggressività, l’unico modo che avevamo di interpretarla… poi gliel’abbiamo rispedita. Noi, ma in generale tutte le band inglesi di quel periodo, avevamo un approccio semplicistico che ha cambiato la direzione della musica, creando il ‘british hard rock’. In più, parlando la stessa lingua, capivamo il linguaggio delle canzoni, che non erano solo parole ma anche significati, e quando capisci
il significato, e non solo la musicalità, capisci le emozioni. Nel 1966 lavoravo al Piccolo Teatro di Milano. Suonavamo sei brani per uno spettacolo in italiano… Conoscevamo la canzone, ma nessuno sapeva cosa stavamo cantando. Non avremmo suonato bene come un Italiano che capiva cosa stava dicendo. E poi, con i Deep Purple hanno suonato i migliori musicisti del mondo. Voglio dire, Blackmore era un tizio con un cavolo di problema di comportamento, ma lo avete sentito suonare? Lui è uno che vede il mondo in bianco e nero, sì o no, ma ha un talento immenso! E abbiamo sempre avuto delle grandi voci, che hanno generato delle influenze differenti: a molti piace il nostro periodo più bluesy, ad altri quello più hard. C’è gente che preferisce Lynn (Joe Lynn Turner, dei Deep tra il 1973 e il ‘76, ndr), altri che preferiscono Coverdale (David Coverdale, nei Deep tra il 1989 e il 1991, ndr). C’è chi li ama entrambi e chi preferisce Gillan…»
D: Non dimentichiamo la tua grande intesa con Roger Glover…
R: «Roger pensa ancora di essere un hippie degli anni Sessanta... Le relazioni basso/batteria sono qualcosa di magico in una band; tra i due c’è sempre un partner che conduce e l’altro, che prende il ruolo non dominante, deve saper accettare il suo spazio ed esserne cosciente. Io ho suonato con grandi bassisti. Con due di essi nei Deep, molto differenti tra loro: le linee di Roger mi permettono molta libertà sulla batteria. Glenn Huges (nei Deep tra il 1973 e il ‘76) lascia molto meno spazio per muoversi e quindi devi trovare altri modi di esprimerti. Nel contesto dei Deep Purple, probabilmente Roger Glover va meglio, perché mi lascia essere il dominante. Al tempo stesso, io non sarei capace di fare quello che faccio se non avessi la sua solidità alle spalle. Ma non ditegli che così è importante per me!»
D: Veniamo al nuovo disco: tutta questa segretezza attorno al progetto… R: «Perdonateci, ma abbiamo deciso che, per presentare il lavoro al meglio, dobbiamo
«Se un brano richiede sette minuti, daglieli. Basta col preoccuparsi delle stazioni radiofoniche o di quelle televisive… Non facciamo un disco per far contenti i dee jay». Ian Paice
orchestrare tutta la comunicazione, facendo uscire le notizie un po’ alla volta. Posso però parlarti delle lavorazioni: ci abbiamo messo un bel po’ a sentire il desiderio di registrare un nuovo disco. Ci avevamo provato nel 2010, ma senza troppa convinzione. Un giorno, è arrivata la telefonata di Ian (Gillan, ndr) che diceva ‘Now what?!’ Ci siamo semplicemente guardati in faccia e abbiamo incominciato a provare con degli ‘e se…’. Era la primavera del 2011, ci siamo trovati in Spagna, a casa del batterista Trevor Morais (ex Peddlers, ndr). Nello studio El Cortijo di Marbella sono nate le prime idee. Quasi un anno dopo ci siamo visti in Germania, a Werne, vicino a Essen, per tramutare le idee in musica. Per il mese di maggio, eravamo tutti d’accordo che questo avrebbe dovuto essere un disco decisamente più pesante di quanto non fosse “Rapture”: quel disco pesava troppo verso i testi e abbiamo deciso di curare di più la musica e la musicalità. Credo che ci sia scappato un po’ di mano e sia diventato anche più heavy di quello che avevamo pianificato. Poco dopo siamo andati a Nashville, nello studio di Bob Ezrin, arrivando a definire una dozzina di pezzi. Le registrazioni sono iniziate a luglio: in due settimane abbiamo prodotto quattordici pezzi, ai quali mancavano solo le parti vocali. Roger e Ian si sono trovati nella casa di Gillan, in Portogallo, per lavorare sui testi e sulle melodie del cantato, che poi è stato inciso a Nashville. Bob Ezrin e Corky Cortelyou si sono poi occupati del missaggio finale. I discografici che l’hanno sentito ne sono rimasti molto soddisfatti. Noi siamo molto eccitati da questo lavoro. Anche quando abbiamo finito “Machine Head” ci sentivamo così… i fan lo ameranno.
In estate suoneremo sicuramente alcuni dei pezzi nuovi nei nostri concerti. Abbiamo registrato quattordici brani, alcuni lunghi anche sette minuti… visto che non ci dobbiamo preoccupare delle radio, perché limitarsi a tre minuti se il pezzo ne vuole di più? Non facciamo un disco per far contenti i deejay, lo facciamo per i fan. Ci sono un paio di pezzi che confondono, che non vanno esattamente nella direzione in cui uno si aspetterebbe, guardando l’inizio… come se un caterpillar diventasse una farfalla, un pezzo che diventa due pezzi in uno… e poi cambi di tempo, muri di suono che si aprono improvvisamente… la sensazione è di aver fatto un gran bel lavoro, con un bellissimo suono, magistralmente prodotto da Bob Ezrin.
Quando abbiamo iniziato a registrare Jon (Lord) era già molto malato. È morto il giorno in cui ho finito le registrazioni delle mie parti. Per fortuna sono potuto tornare in famiglia (i due erano cognati, avendo sposato le due sorelle gemelle Jacky e Vicky Gibbs) in tempo per dare una mano…».
«NOW WHAT?! ha l’eccellenza e l’eleganza di PERFECT STRANGERS e la libertà selvaggia di MADE IN JAPAN». Ian Gillan
Ian Gillan ha recentemente pubblicato con Tony Iommi il disco “WhoCares”, per raccogliere fondi per una scuola di musica da costruire in Armenia