SHADES OF DEEP PURPLE
Parlophone, 1968
OMBRE FUORI FUOCO DI UN GIOVANE GRUPPO CHE FIUTA L’ARIA ATTORNO A SÉ
IDeep Purple ritratti sulla copertina dell’album d’esordio sono un quintetto di eleganti dandy preraffaelliti impegnatissimi a seguire i trend del momento. Qualunque essi siano. A prima vista, potrebbero sembrare tanto gli Spooky Tooth di IT’S ALL ABOUT quanto i Move. Del resto è “solo” il luglio del 1968, Jimmy Page ha appena sotterrato gli Yardbirds e “Black Sabbath” resta ancora solo il titolo di un vecchio B-movie di Mario Bava. Ma i Purple sono già in giro a cercare un loro equilibrio C’è il musicista classico Jon Lord, tastierista aulico ed elegante. C’è un chitarrista heavy, Ritchie Blackmore, discepolo affezionato di Hendrix, che appena può infila Foxy Lady ed Hey Joe dovunque. C’è Rod Evans, un cantante pop misterioso, dalla voce calda ma un po’ grigia. C’è una sezione ritmi- ca, Paice e Simper, che batte con la foga di Moon ed Entwistle. Li coordina Derek Lawrence, giovane produttore che aveva già lavorato coi Jethro Tull. C’è infine un disco, SHADES OF DEEP PURPLE, che è la somma di tutte queste componenti e che potrebbe essere saltato fuori dalla discografia dei primi Procol Harum, se non dei Moody Blues. Puzza di Cream nella scelta e di I’m So Glad nell’approccio; ancora ben salda si sente le radice della band nel pop psichedelico britannico di marca Beatles, anche se le rullate di Paice e le svisate di Blackmore lasciano presagire il futuro. Un disco, sotto sotto, fortissimamente ispirato all’heavy rock tragico dei primi Vanilla Fudge di Ticket To Ride (vedi la massacrante cover di 6 minuti di Help!) e soprattutto di You Keep Me Hangin’ On, col suo gioco di ouverture, intermezzi e progressioni ritmiche da manuale che ritorna spesso nell’album. “I Fudge erano i nostri eroi”, ammetterà candidamente Ritchie. La cronaca spicciola tramanda che Hush (cover di un brano di Joe South, piccola hit l’anno prima), con il suo groove “hambone” alla Bo Diddley e il suo ondeggiare funk nello stile del Bob Seger System, fece centro in USA (nella Top 5) e spuntò perfino nelle classifiche italiane. Insomma, sembrava spianare la strada a una competente band di hard prog sverniciato di pop floreale. Qualcosa andò quindi storto? Pare di sì, perché il tour inglese che seguì la pubblicazione del disco fu un mezzo disastro: i Purple dal vivo suonavano a volume folle, erano distorti, senza swing né ironia. Un “B-52 che decolla pronto per il bombardamento”, come li definì un acido Mick Farren dei Deviants. A posteriori, un sincero complimento.